Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25443 del 11/11/2020

Cassazione civile sez. I, 11/11/2020, (ud. 14/10/2020, dep. 11/11/2020), n.25443

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto rel – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 12745/2019 proposto da:

R.A.A.K., elettivamente domiciliato in Roma, piazza

Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione,

rappresentato e difeso dall’Avvocato Mario Novelli;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso il decreto del Tribunale di Ancona depositato il 5/3/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/10/2020 dal cons. PAZZI Alberto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI

Francesca, che ha concluso chiedendo in principalità l’assegnazione

del ricorso alle Sezioni Unite della Corte o, in subordine, il

rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato dello Stato Giva Alberto, che ha concluso per

l’inammissibilità o il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto depositato in data 5 marzo 2019 il Tribunale di Ancona respingeva il ricorso proposto da R.A.A.K., cittadino del Bangladesh, avverso il provvedimento emesso dalla locale Commissione territoriale di diniego del riconoscimento del suo status di rifugiato nonchè del suo diritto alla protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex artt. 2 e 14 o a quella umanitaria ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il Tribunale, fra l’altro:

1) riteneva che le dichiarazioni del R. (il quale aveva raccontato di essere espatriato a causa di torture e minacce subite da picchiatori assoldati dallo zio per impadronirsi dell’eredità di suo padre) non fossero credibili; le stesse, peraltro, “anche laddove credibili”, restavano “confinate nei limiti di una vicenda di vita privata e di giustizia comune, atteso che gli aspetti evidenziati in ricorso integrano personali timori privi di elementi concreti di riscontro”;

2) rilevava, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), che non emergevano elementi da cui desumere la sussistenza di una minaccia grave e individuale, perchè il richiedente asilo aveva riferito di episodi che avrebbero dovuto trovare protezione in patria;

3) constatava infine l’inesistenza di problematiche soggettive del tipo di quelle previste dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. a – d, e di condizioni individuali di elevata vulnerabilità, anche causate dallo sradicamento dal contesto socio-economico nazionale, poichè nel paese di origine non erano segnalate compromissioni all’esercizio dei diritti umani e il migrante non aveva dato prova di aver seriamente intrapreso un percorso di integrazione sociale e lavorativa in Italia.

2. Ricorre per cassazione avverso questa pronuncia R.A.A.K. al fine di far valere quattro motivi di impugnazione. Il Ministero dell’Interno si è costituito al di fuori dei termini di cui all’art. 370 c.p.c., al fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa.

La causa è stata rimessa per la trattazione in pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, in quanto il Tribunale di Ancona avrebbe qualificato il racconto del migrante come generico e inattendibile in maniera sbrigativa, senza attenersi ai criteri previsti da tale norma per la valutazione della credibilità ed offrendo una motivazione soltanto apparente e apodittica.

4. Il Tribunale di Ancona non si è limitato a condividere la valutazione di non credibilità compiuta dalla Commissione territoriale, ma ha aggiunto che le dichiarazioni del migrante, comunque (“anche laddove credibili”), non avrebbero consentito l’accoglimento della domanda presentata.

Ne discende l’inammissibilità della censura, stante la mancanza di decisività delle critiche proposte nell’economia della decisione impugnata.

5.1 Il secondo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b): il Tribunale avrebbe sottovalutato la vicenda personale del ricorrente, il quale, in caso di rimpatrio, correrebbe il rischio di subire un grave danno, non potendo avvalersi del sistema di protezione statuale: i report consultati riferirebbero infatti di un apparato di polizia inefficiente, aduso ad abusare dei diritti umani e riluttante a svolgere indagini.

5.2 Con il terzo mezzo il ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in quanto il Tribunale non avrebbe adempiuto al proprio dovere di cooperazione istruttoria, omettendo di reperire documentazione attuale e aggiornata in ordine alla situazione esistente in Bangladesh.

6. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione del rapporto di connessione che li lega, sono ambedue inammissibili.

6.1 La censura riguardante il mancato reperimento di adeguate informazioni internazionali è inficiata dalla sua genericità.

Il ricorrente per cassazione che intenda denunciare in sede di legittimità la violazione del dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice di merito non deve infatti limitarsi a dedurre l’astratta violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ma ha l’onere di allegare l’esistenza e di indicare gli estremi delle COI che, secondo la sua prospettazione, ove fossero state esaminate dal giudice di merito, avrebbero dovuto ragionevolmente condurre ad un diverso esito del giudizio; la mancanza di tale allegazione impedisce alla Corte di valutare la rilevanza e decisività della censura, rendendola inammissibile.

6.2 E’ ben vero poi che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, è dovere del giudice verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, astrattamente riconducibile ad una situazione tipizzata di rischio, sia effettivamente sussistente nel paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, sulla base di un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione (Cass. 17075/2018).

Il Tribunale, però, si è ispirato a simili criteri, prendendo in esame informazioni aggiornate sulla situazione in Bangladesh risultanti dal report EASO del dicembre 2017 e dal Report di Amnesty International 2017/2018.

La censura di mancato adempimento all’obbligo di cooperazione istruttoria non è quindi neppure aderente al contenuto del provvedimento impugnato.

6.3 Il ricorrente, facendo riferimento al Report di Amnesty International 2017/2018, assume che il Tribunale avrebbe mal valutato il suo contenuto, che in realtà dimostrava la presenza in Bangladesh di una polizia inefficiente, violenta e corrotta.

Il ricorrente, tuttavia, non ha trascritto il contenuto del documento asseritamente trascurato rispetto alla parte oggetto di doglianza nè ha fatto un sintetico ma completo resoconto del suo contenuto, malgrado il motivo di ricorso per cassazione che miri a contrastare l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alle cd. fonti privilegiate, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, debba evidenziare, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione, in violazione del cd. dovere di collaborazione istruttoria, sono state oggettivamente travisate (Cass. 4037/2020).

Il che si traduce in una violazione del disposto dell’art. 366, comma 1, n. 6, con la conseguente inammissibilità della censura in esame (in merito all’autosufficienza del ricorso ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in caso di riferimento a documenti o atti processuali, i quali devono non solo essere specificamente individuati anche quanto alla loro collocazione, ma essere oggetto pure di integrale trascrizione quanto alle parti che sono investite dalla doglianza ovvero di sintetico ma completo resoconto del contenuto, si vedano Cass. 16900/2015, Cass. 4980/2014, Cass. 5478/2018, Cass. 14784/2015 e Cass. 8569/2013).

7. L’ultimo motivo di ricorso prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6: in tesi di parte ricorrente la grave situazione sociale, politica ed economica del paese di origine e i disastri naturali che si verificano ciclicamente in Bangladesh costituivano motivi di vulnerabilità che dovevano condurre al riconoscimento della protezione umanitaria, tenuto conto peraltro del proficuo percorso di integrazione intrapreso dal migrante nel paese di accoglienza.

8. Il motivo è, nel suo complesso, inammissibile.

8.1 La questione del contesto politico-sociale privo delle minime condizioni di sicurezza e dei disastri naturali ciclici non assumeva rilievo ai fini del decidere.

Il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, quale misura atipica e residuale, è infatti il frutto della valutazione della specifica condizione personale di particolare vulnerabilità del richiedente.

Ne consegue che a tal fine non è sufficiente la mera allegazione delle condizioni generali del paese di origine a cui non si accompagni l’indicazione di come siffatta situazione influisca sulle condizioni personali del richiedente asilo provocando una particolare condizione di vulnerabilità.

Allegazione che nel caso di specie è mancata e che il giudice non poteva (Cass. 27336/2018) nè sarebbe stato in grado di introdurre d’ufficio.

8.2 Il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale, quale quello eventualmente presente nel paese d’origine, idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili; in questa prospettiva è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili (Cass. 4455/2018; nel medesimo senso Cass., Sez. U., 29459/2019 e Cass. 17130/2020).

Solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa deve essere valutata, come fattore di rilievo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e/o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità; i seri motivi di carattere umanitario possono quindi positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.).

E’ compito del giudicante la verifica della sussistenza dei “seri motivi” che legittimano la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari attraverso un esame concreto ed effettivo di tutte le peculiarità rilevanti del singolo caso, quali le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo paese, con onere in capo al medesimo quantomeno di allegare suddetti fattori di vulnerabilità.

Nel caso di specie il Tribunale ha accertato che “nel paese di provenienza non vengono segnalate compromissioni all’esercizio dei diritti umani” (pag. 9) e che il migrante potrebbe “godere in patria di una vita comunque dignitosa” (pag. 10).

A fronte di questi accertamenti – che rientrano nel giudizio di fatto demandato al giudice di merito – la doglianza intende nella sostanza proporre una diversa lettura dei fatti di causa, traducendosi ancora una volta in un’inammissibile richiesta di rivisitazione del merito (Cass. 8758/2017).

Ne discende la mancanza di decisività della condizione di occupazione del migrante, poichè il livello di integrazione raggiunto dal migrante in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato, non ha rilievo ai fini della concessione della forma di protezione in discorso (Cass., Sez. U., 29459/2019).

9. In conclusione, in forza delle ragioni sopra illustrate, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.100, oltre a spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

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