Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25437 del 10/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 10/10/2019, (ud. 09/05/2019, dep. 10/10/2019), n.25437

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 29775 dell’anno 2017, proposto da:

V.L.A., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e difeso

dagli avvocati Francesco Ciaccia (C.F.: CCCFNC35R29L273I), Bruno

Cavallone (C.F.: CVLBNC38E10F205Y) e Lorenzo Romanelli (C.F.:

RMNLNZ73L02H501P);

– ricorrente –

nei confronti di:

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.p.A., (C.F.: (OMISSIS)), in persona

del funzionario, legale rappresentante pro tempore, C.I.

rappresentata e difesa dall’avvocato Paolo Manzato (C.F.: MNZ PLA

55T06 F205N);

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Milano n.

2759/2017, pubblicata in data 20 giugno 2017;

udita la relazione sulla causa svolta nella camera di consiglio in

data 9 maggio 2019 dal consigliere Augusto Tatangelo.

Fatto

RILEVATO

che:

V.M.A. ha agito in giudizio nei confronti della Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. per ottenere la dichiarazione di illegittimità di una iscrizione ipotecaria su un bene immobile di sua proprietà effettuata da quest’ultima in base ad un decreto ingiuntivo, assumendo che il bene non era assoggettabile ad espropriazione, in quanto costituito in fondo patrimoniale per i bisogni della famiglia, ai sensi degli artt. 167 e 170 c.c..

La domanda è stata accolta dal Tribunale di Milano.

La Corte di Appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado, la ha invece rigettata.

Ricorre il V., sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso la Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A..

E’ stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375,376 e 380 bis c.p.c., in quanto il relatore ha ritenuto che il ricorso fosse destinato ad essere dichiarato manifestamente infondato.

E’ stata quindi fissata con decreto l’adunanza della Corte, e il decreto è stato notificato alle parti con l’indicazione della proposta.

Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2.

Il collegio ha disposto che sia redatta motivazione in forma semplificata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., 1 comma, n. 5)”. Il motivo è inammissibile.

Secondo il ricorrente, la corte di appello non avrebbe tenuto conto della circostanza che la società di cui egli era garante, sebbene da lui amministrata e totalmente controllata, da anni non distribuiva utili (essendo anzi in perdita) e non gli attribuiva compensi.

Orbene, in primo luogo nel ricorso non è specificamente indicato – come necessario, secondo il costante indirizzo di questa Corte: cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831 – 01; conf.: Sez. U, Sentenza n. 8054 del 07/04/2014, Rv. 629834 – 01; Sez. 6 – 3, Sentenza n. 25216 del 27/11/2014, Rv. 633425 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9253 del 11/04/2017, Rv. 643845 – 01; Sez. 2, Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018, Rv. 651028 – 01 – in quale fase ed in quali atti processuali il preteso fatto decisivo sarebbe stato introdotto nel corso del giudizio di merito, essendosi il ricorrente limitato a fare generico riferimento alla avvenuta produzione di documenti.

Inoltre lo stesso fatto decisivo, che secondo il ricorrente non sarebbe stato preso in esame della corte di appello, non può ritenersi affatto tale: in caso di debiti contratti nell’esercizio di una attività imprenditoriale, l’eventuale estraneità ai bisogni familiari dello scopo dell’assunzione delle relative obbligazioni, va infatti valutata ex ante, al momento della loro insorgenza, mentre non può assumere alcun rilievo il concreto esito dell’attività di impresa, per sua natura soggetta a rischio.

Ciò senza contare che, nella sostanza, più che l’omesso esame di un fatto decisivo, nel ricorso appare contestata l’omessa considerazione, da parte della corte territoriale, di prove documentali, ai fini dell’accertamento della circostanza di fatto rappresentata dall’estraneità ai bisogni della famiglia dello scopo della contrazione del debito da parte dell’attore.

Si tratta però di un accertamento di fatto che i giudici di merito hanno fondato, oltre che in corretta applicazione del principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., comunque su una valutazione dei fatti storici rilevanti emersi all’esito dell’istruttoria; tale accertamento risulta sostenuto da adeguata motivazione, non apparente, nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile in sede di legittimità. Anche sotto il profilo in esame, dunque, il ricorso risulta inammissibile, risolvendosi nella contestazione di accertamenti di fatto incensurabilmente operati in sede di merito ed in una sostanziale richiesta di nuova e diversa valutazione delle prove.

2. Con il secondo motivo si denunzia “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 170 c.c., (art. 360 c.p.c., 1 comma, n. 3)”.

Secondo il ricorrente, la corte di appello – nel valutare il requisito della estraneità ai bisogni della famiglia dello scopo per cui era stato contratto il debito posto a base dell’iscrizione ipotecaria – avrebbe erroneamente ritenuto, in diritto, che solo esigenze speculative o voluttuarie potessero configurare tale estraneità e, comunque, che fosse sufficiente ad escludere l’applicabilità del vincolo di cui all’art. 170 c.c., anche una finalità non immediata e concreta di soddisfazione di esigenze familiari.

Il motivo è manifestamente infondato.

La corte di appello ha correttamente applicato i principi di diritto costantemente affermati da questa Corte, in tema di opponibilità ai creditori del vincolo di destinazione derivante dalla costituzione di determinati beni in fondo patrimoniale per i bisogni della famiglia, ai sensi degli artt. 167 e 170 c.c.. Secondo tali principi, in linea generale, “l’onere della prova dei presupposti di applicabilità dell’art. 170 c.c., grava su chi intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale, sicchè, ove sia proposta opposizione, ex art. 615 c.p.c., per contestare il diritto del creditore ad agire esecutivamente, il debitore opponente deve dimostrare non soltanto la regolare costituzione del fondo e la sua opponibilità al creditore procedente, ma anche che il suo debito verso quest’ultimo venne contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia, a tal fine occorrendo che l’indagine del giudice si rivolga specificamente al fatto generatore dell’obbligazione, a prescindere dalla natura della stessa: pertanto, i beni costituiti in fondo patrimoniale non potranno essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori quando lo scopo perseguito nell’obbligarsi fosse quello di soddisfare i bisogni della famiglia, da intendersi non in senso meramente oggettivo ma come comprensivi anche dei bisogni ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari” (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 4011 del 19/02/2013, Rv. 625123 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 21800 del 28/10/2016, Rv. 642962 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1652 del 29/01/2016, Rv. 638353 01; Sez. 3, Sentenza n. 20998 del 23/08/2018, Rv. 650445 – 01). I suddetti principi si ritengono pacificamente applicabili anche alle obbligazioni tributarie ed a quelle contratte nell’esercizio di attività imprenditoriale, giungendosi a precisare che “anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari, nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia, ovvero per il potenziamento della di lui capacità lavorativa, e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 3738 del 24/02/2015, Rv. 634646 – 01; conf.: Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 23876 del 23/11/2015, Rv. 637586 – 01, secondo la quale l’inerenza dell’obbligazione ai bisogni della famiglia e la relativa conoscenza da parte del titolare del credito sono “circostanze che non possono ritenersi dimostrate, nè escluse, per il solo fatto dell’insorgenza del debito nell’esercizio dell’impresa”); si precisa altresì che, comunque, “grava sul debitore che intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale l’onere di provare l’estraneità del debito alle esigenze familiari e la consapevolezza del creditore” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 22761 del 09/11/2016, Rv. 641645 – 01).

I giudici di merito, in corretta applicazione dei suddetti principi di diritto, hanno ritenuto decisiva la circostanza che l’attore non aveva nè allegato nè, tanto meno, provato, che i redditi aziendali della società totalmente da lui controllata e amministrata, in favore della quale egli aveva prestato garanzia, non fossero destinati al soddisfacimento dei bisogni della sua famiglia, ma ad esigenze speculative o voluttuarie (e che la creditrice fosse di ciò consapevole), essendosi invece limitato ad allegare l’anteriorità della costituzione del bene in fondo patrimoniale e la natura dell’obbligazione assunta, quale garanzia relativa a finanziamenti erogati da una banca in favore di una società di capitali.

Sotto quest’ultimo aspetto le censure del ricorrente non colgono in realtà adeguatamente l’effettiva ratio decidendi della decisione impugnata e comunque risultano altresì difettare della necessaria specificità, anche ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto non viene richiamato nel ricorso il preciso contenuto degli atti introduttivi del giudizio che dovrebbe consentire (diversamente da quanto affermato dai giudici di merito) di ritenere allegata a fondamento della sua domanda, oltre alla mera natura dell’obbligazione contratta ed a prescindere da tale natura, anche i concreti fatti generatori di essa e le ragioni estranee ai bisogni familiari che lo avevano indotto ad assumerla, nonchè la consapevolezza della predetta estraneità da parte della banca creditrice.

2. Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna il ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della società controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 12.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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