Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25434 del 21/09/2021

Cassazione civile sez. trib., 21/09/2021, (ud. 09/06/2021, dep. 21/09/2021), n.25434

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17149-2013 proposto da:

JP MORGAN EUROPE LIMITED, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA D’ARACOELI 1,

presso lo studio dell’avvocato GUGLIELMO MAISTO, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato MARCO CERRATO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 15/2013 della COMM.TRIB.REG.ABRUZZO SEZ.DIST.

di PESCARA, depositata il 07/01/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del

sostituto procuratore generale Dott. DE AUGUSTINIS UMBERTO che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La J.P. Morgan Europe Limited presentò al Centro operativo di Pescara dell’Agenzia delle entrate 137 istanze di rimborso di crediti d’imposta, ai sensi dell’art. 10, paragrafo 4, della Convenzione tra l’Italia ed il Regno Unito contro le doppie imposizioni, stipulata a Pallanza il 21 ottobre 1988 e ratificata con L. 5 novembre 1990, n. 329. Un primo gruppo (sei) raccoglieva le richieste inoltrate tra il 1999 ed il 2003, relative ai dividendi distribuiti dalla Compagnia Finanziaria Alimenti s.p.a. (CFA), società congiuntamente partecipata dalla ricorrente e dalla Parmalat s.p.a., per un ammontare complessivo di Euro 5.147.324,00, dei quali solo Euro 870.135,00 l’Amministrazione finanziaria aveva provveduto a rimborsare. Un secondo gruppo (centouno) raccoglieva le richieste presentate tra il 1998 ed il 2004, relative ai dividendi distribuiti da diverse società italiane, per un ammontare complessivo di Euro 7.737.842,00, di cui Euro 1.134.482,00 già rimborsate dall’Agenzia delle entrate. Ulteriori istanze (trenta) afferivano a pratiche di cui l’Ufficio aveva dichiarato di non reperire documentazione.

Nel novembre 2009 l’Agenzia delle entrate aveva negato la spettanza dei rimborsi relativi alle sei istanze riguardanti la CFA, ed in parte dei rimborsi del credito d’imposta sui dividendi richiesti con le altre centouno istanze. Il diniego sulle prime sei era stato motivato affermando che la sottoscrizione del capitale della società italiana dissimulasse un finanziamento in favore della Parmalat. Quanto alle centouno istanze l’Ufficio aveva riconosciuto un rimborso solo parziale con criterio statistico-induttivo determinato sulla considerazione della detenzione temporale media nell’anno delle azioni italiane. Per le restanti trenta l’Ufficio aveva dichiarato mancante la documentazione.

Contestando le determinazioni dell’Amministrazione finanziaria, la società aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Pescara, che con sentenza n. 114/01/2011 aveva accolto in parte il ricorso, riconoscendo in particolare l’illegittimità del diniego relativo ai rimborsi richiesti per la partecipazione nella società CFA, rigettandolo per il resto. La pronuncia era stata appellata da entrambe le parti, ciascuna per quanto soccombente. La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, con la decisione n. 15/10/2013, ora al vaglio della Corte, ha accolto le sole doglianze dell’Amministrazione finanziaria, così rigettando integralmente il ricorso introduttivo della contribuente. Il giudice d’appello ha ritenuto di condividere la prospettazione dell’Ufficio sulla simulazione del pagamento di dividendi, dissimulante la corresponsione di interessi da parte della effettiva beneficiaria di un finanziamento, la Parmalat. Ha poi confermato le statuizioni di primo grado relativamente all’applicazione del criterio della media statistica temporale di detenzione delle azioni. Al contenzioso in appello erano rimaste estranee le trenta istanze per le quali l’Agenzia delle entrate affermava insussistente la documentazione relativa a richieste di rimborso. Queste ultime non saranno oggetto della presente controversia.

La società ha censurato la sentenza con nove motivi, cui ha resistito l’Amministrazione finanziaria con controricorso.

Nella pubblica udienza del 9 giugno 2021, dopo la discussione e le conclusioni illustrate, la causa è stata riservata in decisione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

la ricorrente ha denunciato:

con il primo motivo la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omesso esame del motivo di gravame concernente la violazione dell’art. 10, paragrafo 5, della Convenzione Italia – Regno Unito;

con il secondo la nullità della sentenza, per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omesso esame del motivo di gravame relativo alla violazione delle libertà comunitarie in materia di libera circolazione di capitali e di tutela dell’integrità patrimoniale, ai sensi degli artt. 63 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e 6 del Trattato sull’Unione Europea;

con il terzo la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per motivazione apparente in merito al capo di sentenza sul rimborso dei crediti d’imposta per le centouno istanze;

con il quarto la violazione degli artt. 10, paragrafo 4 della Convenzione Italia Regno Unito, art. 2697 c.c., del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 40 e 42, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per l’erronea interpretazione della richiamata disciplina in merito all’insussistente sillogismo tra operazioni di dividend washing e fattispecie elusive;

con il quinto la violazione dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver illegittimamente utilizzato una inammissibile doppia presunzione del criterio della media detenzione delle azioni e della finalità elusiva delle operazioni;

con il sesto la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in riferimento al capo della pronuncia riguardante la simulazione della distribuzione dei dividendi della CFA, per motivazione apparente;

con il settimo la violazione degli artt. 10, paragrafo 4 della Convenzione Italia Regno Unito, artt. 1414,1415,2463 e 2332 c.c., nonché del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 40 e 42 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sempre con riguardo al capo di sentenza sui crediti d’imposta dei dividendi della CFA, per aver erroneamente interpretato la disciplina, che non consente di ricorrere all’istituto della simulazione in tema di contratto sociale;

con l’ottavo la violazione dell’art. 1414 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 40 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per errore nella interpretazione della disciplina, ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo all’accreditato accordo simulatorio tra la ricorrente, la società partecipata e la Parmalat;

con il nono la violazione dell’art. 1414 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38,40 e 42 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ove ritenuta applicabile al giudizio tributario la disciplina anteriore alla novella introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, in riferimento al mancato vaglio di tutti le circostanze di fatto afferenti il rapporto tra le società, erroneamente inquadrato nella simulazione.

Esaminando il primo motivo, con esso la società ha denunciato la nullità della sentenza per l’omessa pronuncia del giudice d’appello sulla eccepita violazione dell’art. 10, parag. 5, della Convenzione Italia – Regno Unito, proposta dalla contribuente già dinanzi alla Commissione provinciale, che l’aveva respinta ritenendola infondata, e poi in sede d’appello, che sul punto aveva invece omesso ogni decisione, pur dando atto della sua proposizione nella parte espositiva della vicenda processuale. Denuncia che la questione avesse valenza assorbente, perché la mancata tempestiva richiesta da parte dell’Amministrazione finanziaria, all’atto di presentazione dell’istanza di rimborso, della documentazione comprovante l’acquisto in buone fede delle azioni e le ragioni dell’acquisto, penalizzava la società madre inglese, per i tempi ingiustificatamente dilatati entro i quali la società istante avrebbe potuto subire un accertamento sui presupposti dell’istanza, così come infatti avvenuto, atteso che a fronte di istanze di rimborso presentate tra il 1999 ed il 2004 il loro esame e rigetto era avvenuto nel 2009. Alla nullità della sentenza per omessa pronuncia la contribuente ha chiesto a questa Corte di far seguire la decisione nel merito, non richiedendosi accertamenti in fatto, ma solo l’esame della questione di diritto. E sul punto ha ribadito la violazione dell’obbligo di un sollecito esame della documentazione da parte dell’Ufficio, come desumibile dalla lettura della norma invocata, a tutela del contribuente del Regno Unito, altrimenti costretto a conservare la documentazione per un termine ben più lungo rispetto a quello prescritto nel proprio Stato. L’Amministrazione finanziaria ha sostenuto l’infondatezza della eccepita nullità della decisione, perché il giudice regionale avrebbe implicitamente rigettato l’eccezione. Nel merito ne ha in ogni caso contestato il fondamento, affermando che la lettera della norma non autorizzava la lettura pretesa dalla contribuente, mancando peraltro ogni esplicito, e pur dovuto, riferimento a decadenze dal potere accertativo della Amministrazione finanziaria nell’ipotesi di mancato immediato esame dell’istanza.

Il motivo, con cui si denuncia un error in procedendo, è inammissibile. Questa Corte ha affermato che non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito, sollevata in appello, qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo il silenzio per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima. Il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., bensì come violazione di legge o difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione (ex multis, Cass., 6/11/2020, n. 24953; 29/07/2004, n. 14486; cfr. anche 13/08/2018, n. 20718; 6/12/2017, n. 29191).

Per mera completezza, il motivo è del tutto infondato. La prospettazione difensiva della società si affida al testo del paragrafo 5 dell’art. 10 della Convenzione Italia Regno Unito, nella parte in cui, a proposito del diritto al rimborso del credito d’imposta, indicando le condizioni che la persona che percepisce i dividendi è tenuta a dimostrare (acquisto in buona fede delle partecipazioni per ragioni commerciali o per finalità di investimento, che non sia strumentale al conseguimento, in forma esclusiva o concorrente, del credito d’imposta), sostiene che l’Amministrazione accertatrice sia tenuta a disporre la verifica, “con ragionevole sollecitudine”, atteso il dettato normativo, che prevede che il contribuente debba provvedere a consegnare la documentazione “su richiesta dell’autorità competente (….) all’atto della ricezione di un’istanza da parte di detta persona per ottenere il credito d’imposta (….)”. Cioe’ il riferimento temporale “all’atto della ricezione” dimostrerebbe che l’Ufficio, senza indugio, debba richiedere la documentazione necessaria all’esame della posizione dell’istante.

A parte che una terminologia così generica, peraltro senza alcun cenno a prescrizioni di decadenza dal potere accertativo, non autorizza affatto la lettura desiderata dalla difesa della ricorrente, le conclusioni cui vorrebbe pervenirsi creerebbero addirittura una disparità di trattamento tra il contribuente straniero e quello italiano (ma il principio varrebbe anche al contrario), atteso che l’investitore straniero assumerebbe di fatto una posizione assolutamente privilegiata, e dunque ingiustificata, per i tempi ristrettissimi d’esame della propria documentazione e della propria istanza, a pena di decadenza dal potere di controllo della legittimità della richiesta di fruizione del credito d’imposta, rispetto all’investitore nazionale, sottoposto ai tempi ordinari di un comune accertamento. Peraltro si tratta di una questione di fatto irrilevante, non essendo emerso, neppure genericamente, che nel caso di specie la contribuente anglosassone si sia trovata nell’impossibilità di allegare la documentazione richiesta. Infine è appena il caso di evidenziare sin d’ora che l’oggetto della controversia, soprattutto con riguardo ai dividendi della CAF, verte sulla prospettazione, da parte dell’Ufficio finanziario, della insussistenza dei presupposti per fruire del credito d’imposta, ma ciò non per carenza dei requisiti riportati nei paragrafi quattro e cinque dell’art. 10 cit., bensì perché la loro distribuzione è stata considerata una simulazione, dissimulante un’operazione di finanziamento “occulto” alla Parmalat. D’altronde questa Corte è intervenuta sul tema di recente e, valorizzando proprio i canoni di ermeneutica dei trattati internazionali stabiliti dalla Convenzione di Vienna (“sul diritto dei trattati”), ha affermato il principio secondo cui la presentazione dell’istanza di rimborso di crediti di imposta su dividendi di fonte italiana, percepiti da società con sede nel Regno Unito e priva di stabile organizzazione nel territorio statale, previsto dall’art. 10, della Convenzione tra Italia e Regno Unito per evitare le doppie imposizioni, non onera l’Amministrazione finanziaria di avviare contestualmente la fase istruttoria, dovendo intendersi la locuzione “all’atto della ricezione” della domanda, di cui al successivo par. 5, non come contemporaneità o immediata successione temporale, ma come consequenzialità logica o ordine nell’iter procedimentale aperto dalla richiesta, stante l’assenza nella Convenzione di scansioni procedimentali del riconoscimento del credito d’imposta, rimesse interamente alla legislazione nazionale (Cass., 27/05/2021, n. 14764).

Quanto alle altre centouno istanze, solo in parte riconosciute, se ne è ravvisata la parziale non spettanza per i tempi brevissimi ed infrannuali di detenzione delle partecipazioni nelle società distributrici dei dividendi, con una prospettazione elusiva della condotta, analizzata per il disfavore che in sé suscita tale operazione. In altri termini le questioni su cui si gioca il contenzioso esulano dai principi posti a presidio del divieto di doppia imposizione, cui la Convenzione tra Italia e Regno Unito ha riguardo, senza pertanto che possano neppure astrattamente ritenersi violate le regole dell’invocato accordo bilaterale.

Con il secondo motivo la società ha denunciato la nullità della sentenza per omesso esame del motivo di gravame relativo alla violazione delle libertà comunitarie in materia di libera circolazione di capitali e di tutela dell’integrità patrimoniale, ai sensi degli artt. 63 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e 6 del Trattato sull’Unione Europea.

La difesa della società ha riferito di aver sottoposto alla Commissione tributaria regionale le suddette questioni, all’epoca riconducibili nei principi sanciti dagli artt. 6 e 56 del Trattato istitutivo della Comunità Europea (poi transitati negli artt. 63 del TFUE e 6 del TUE). Aveva in particolare lamentato la disparità di trattamento tra l’operatore economico sedente nel territorio del Regno Unito e quello italiano, quando partecipanti del capitale di una società italiana. E ciò perché l’operatore sedente in Italia poteva immediatamente compensare il proprio credito d’imposta con il debito fiscale dichiarato, rimanendo quella compensazione sub judice nei limiti temporali previsti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43 ossia nei termini di decadenza dal potere accertativo della Amministrazione finanziaria. L’operatore sedente in altro Stato membro della Comunità era invece assoggettato al termine di prescrizione decennale, ai sensi dell’art. 2946 c.c., o addirittura a tempo indeterminato. Ha sostenuto inoltre che il trattamento riservato all’operatore economico di uno Stato membro dell’Unione imponeva la sopportazione di ingenti oneri finanziari per il pagamento anticipato delle imposte sui crediti non ancora rimborsati, così da prospettarsi la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recepita dall’art. 6 del Trattato CE. Aveva per questo insistito perché il giudice regionale riconoscesse il diritto della società al rimborso di Euro 10.102.092,00, nonché all’accertamento dei danni patrimoniali subiti per i costi finanziari, i costi di gestione e del rischio di cambio, subordinatamente chiedendo che l’organo giudicante adisse la Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, con due quesiti: l’uno volto a verificare la violazione del principio di libera circolazione dei capitali per il diverso trattamento tra i soggetti residenti in Italia, che possono assicurarsi la certezza dell’ammontare dovuto dal fisco italiano in tempi contenuti, e comunque possono compensare detto credito con i propri debiti fiscali, ed i soggetti residenti in altro Stato membro dell’Unione, cui non solo è preclusa la compensazione, ma non possono neppure avere mai certezza del diritto di ottenere il rimborso; il secondo volto ad accertare se costituisse violazione dell’art. 6, comma 2, del Trattato CE, la circostanza che lo Stato italiano non avesse rimborsato i crediti d’imposta sui dividendi richiesti anteriormente al 31 dicembre 2004 sulla base della Convenzione tra l’Italia e il Regno Unito.

Anche in questo caso, denuncia la ricorrente, il giudice regionale, pur dando atto della sollevata eccezione e della richiesta di rimessione delle questioni alla Corte di Giustizia, ha omesso di pronunciarsi, da ciò derivandone la nullità della sentenza.

Ai fini rescissori, poi, ha sostenuto che la disparità di trattamento e la mancata applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 si risolve nella violazione degli artt. 67 TFUE e 6 TUE, considerando che il diniego al rimborso è intervenuto oltre il termine quinquennale dalla presentazione delle istanze. Ha insistito sui diversi tempi entro cui il contribuente residente in Italia possa avere certezza del suo credito, più brevi di quelli applicabili al residente nel Regno Unito, con conseguente incidenza sulla libera circolazione dei capitali tutelata dall’art. 63 del TFUE, circostanza che non può trovare giustificazione nella necessità di garantire l’efficacia dei controlli fiscali. Ha chiesto dunque l’accoglimento del ricorso introduttivo, con condanna dell’Amministrazione finanziaria alla ripetizione degli importi non ancora rimborsati, previa eventuale sottoposizione alla Corte di Giustizia delle questioni oggetto di controversia.

L’Agenzia delle entrate ha contestato le avverse ragioni, sia con riguardo al vizio processuale denunciato, per l’implicito rigetto della eccezione, sia nel merito, negando che la disciplina, anche quella convenzionale, imponga termini per l’accertamento del diritto al rimborso, pari a quelli previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 diverso essendo il meccanismo, e non trovando generale applicabilità l’art. 43 cit. Ha peraltro evidenziato la generale applicabilità della prescrizione decennale anche ai contribuenti italiani, ad esempio in tema di agevolazioni, sottolineando la mancanza di correlazione tra tempi delle verifiche e tempi dei rimborsi.

Il secondo motivo è innanzitutto inammissibile per le medesime ragioni esposte in riferimento al primo, trattandosi non di omessa pronuncia ma di rigetto implicito della eccezione. In ogni caso, nel merito – che va comunque affrontato avendo il ricorrente prospettato possibili violazioni dei principi Eurocomunitari in riferimento alla libera circolazione dei capitali e alla tutela della integrità patrimoniale, con eventuale ricorso alla Corte di Giustizia – il motivo è radicalmente infondato. Esso è incentrato sulla considerazione che la disciplina nazionale determini una disparità di trattamento tra residenti, assoggettabili solo all’accertamento nei termini di decadenza previsti dall’art. 43 cit., ed i non residenti, che, nel richiedere il rimborso del credito d’imposta, sono esposti al potere accertativo della Amministrazione finanziaria senza limiti temporali, o comunque entro il ben più lungo termine di prescrizione decennale, con conseguente incertezza del credito, incidente sulle libertà economiche della circolazione dei capitali e della tutela patrimoniale. Nell’alveo di tale denuncia si aggiunge la rilevata possibilità del contribuente italiano di compensare il credito d’imposta con i debiti fiscali dichiarati, laddove tale possibilità non è data al contribuente residente in altro Stato membro dell’Unione.

L’articolata e suggestiva argomentazione del ricorrente s’infrange tuttavia sulla ormai acquisita consapevolezza che proprio in riferimento alla materia dei rimborsi, qualunque ne sia la fonte giuridica da cui essi traggono astrattamente titolo, non risponde al vero che il potere accertativo dell’Amministrazione finanziaria debba esplicarsi nel termine prescritto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43. Questa Corte, con orientamento ormai consolidato, da cui questo Collegio non intende discostarsi, ha affermato che in tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum, desumibile dall’art. 1442 c.c. (Cass., Sez. U, 15/03/2016, n. 5069; cfr. anche 17/06/2016, n. 12557; 31/01/2018, n. 2392; 6/02/2019, n. 3404; 13/03/2019, n. 7132).

Trattasi dell’approdo interpretativo a superamento del contrasto insorto nella medesima giurisprudenza, e peraltro afferente ad ipotesi di rimborso d’imposte, il cui astratto diritto emergeva dalla dichiarazione dei redditi. A tal fine si è ritenuto più corretta la tesi secondo cui i termini decadenziali “sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito. Ancorché simile soluzione susciti una certa disarmonia nel sistema in quanto, decorso il termine per l’accertamento, alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione (….). D’altronde la soluzione che il Collegio ritiene preferibile non lascia senza difesa il contribuente che ben può impugnare il silenzio della Amministrazione che non dia seguito alla istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale”.

Il principio trovava significativi precedenti. Si era già affermato che il termine stabilito nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-bis – nel testo applicabile ratione temporis, introdotto dal D.P.R. n. 506 del 1979, art. 1 – entro il quale l’Amministrazione finanziaria deve provvedere alla liquidazione dell’imposta, ha natura ordinatoria secondo l’interpretazione, avente efficacia retroattiva, che ne ha dato la L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 28, comma 1. Ne consegue, si è affermato, che il credito esposto in dichiarazione non si consolida con lo spirare del predetto termine o perché l’Amministrazione abbia omesso di procedere ad accertamento e rettifica nel termine stabilito nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 così come il diritto al rimborso del contribuente non è sottoposto al termine di decadenza, contenuto nel D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 ma esclusivamente all’ordinario termine di prescrizione decennale, ferma restando la facoltà dell’Ufficio di opporre eccezioni alla domanda di rimborso (Cass., n. 22/04/2009, n. 9524; 18/05/2012, n. 7899).

Peraltro, se l’interpretazione delle Sezioni Unite rappresenta l’opzione prescelta a superamento di un contrasto, il cui opposto orientamento (tra le ultime cfr. Cass., n. 9339/2012) in ogni caso riguardava l’ipotesi del contribuente che avesse presentato la dichiarazione dei redditi, il caso di specie esula anche dall’ipotesi del supposto credito riportato in dichiarazione, alla cui presentazione evidentemente una società inglese non è tenuta, con ciò ancor più giustificandosi il riconoscimento della applicabilità del termine decennale.

Trattasi di una soluzione ermeneutica che d’altronde, come evidenziato, non priva di garanzie il contribuente, sia perché il diniego di rimborso può sempre essere oggetto di una domanda giudiziale, ottenendo sul punto una pronuncia sulla spettanza o meno del credito medesimo, sia perché manca una disparità di trattamento quanto ai tempi di esercizio del diritto al rimborso. In particolare è stato anche rilevato che non vi è asimmetria neppure tra il termine – di quarantotto mesi D.P.R. n. 602 cit., ex art. 38 – per la richiesta del rimborso, e quello decennale per il diniego pronunciato dalla Amministrazione. Sul punto infatti, con orientamento altrettanto consolidato, al contribuente è riconosciuto l’ordinario termine di prescrizione decennale (cfr. Cass., Sez. U, 7/02/2007, n. 2687; 18/01/2012, n. 633; 27/03/2013, n. 7706).

E tali conclusioni deve ritenersi che trovino applicazione anche nelle ipotesi relative a crediti d’imposta per dividendi regolati dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni. In particolare la Corte ha affermato che in tema di imposta sui dividendi, l’art. 10, paragrafo 4, lett. a), della Convenzione tra Italia e Regno Unito per evitare le doppie imposizioni, cit., prevede che un residente nel Regno Unito, che riceve dividendi da una società residente in Italia, ha diritto ad un credito d’imposta pari alla metà del credito d’imposta che spetterebbe sugli stessi dividendi ad una persona fisica residente in Italia. Ebbene, a conferma di un equilibrio dei rapporti fiscali tra residente e non residente, da un lato, e fisco, dall’altra, è utile rammentare che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che alla domanda di rimborso parziale di tale credito d’imposta a socio non residente non è riferibile il termine fissato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 relativo ai casi di rimborso derivante da errore materiale, duplicazione o inesistenza parziale o totale dell’obbligo di versamenti, perché in tale ipotesi il tributo è stato pagato dalla società italiana che ha erogato i dividendi non per errore o in eccedenza rispetto al dovuto, ma in ottemperanza alla legge, e il diritto ad una parziale restituzione legittima alla relativa azione non la società italiana, ma il solo socio estero, in base ad una previsione garantistica del riequilibrio fiscale delle posizioni di soci residenti in Stati diversi; in assenza di qualsiasi indicazione in proposito nella Convenzione, non potendo valere un generico riferimento alle leggi italiane – specie in presenza della previsione (art. 29, n. 3, della stessa Convenzione) che “le Autorità competenti negli Stati contraenti stabiliranno le modalità di applicazione” delle disposizioni relative ai rimborsi, previsione rimasta priva di specifico riscontro sul terreno normativo -, il termine di cui può giovarsi il soggetto estero che aziona un diritto, non strettamente qualificabile come “rimborso”, è quello generale di prescrizione dei diritti soggettivi fissato dall’art. 2946 c.c. (Cass., 26/10/2012, n. 18442; 16/11/2004, n. 21656; in riferimento alla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e la Francia il 5 ottobre 1989, ratificata e resa esecutiva dalla L. 7 gennaio 1992, n. 20, cfr. 16/01/2015, n. 691; 22/07/2004, n. 13678). Dunque se il termine decennale può sembrare “insopportabile” secondo la prospettazione difensiva della ricorrente, è altrettanto vero che di quel termine lungo si giova anche il soggetto giuridico estero ai fini dell’inoltro della richiesta di rimborso, così che i presunti svantaggi sono compensati dai vantaggi.

I principi appena esposti consentono peraltro di affermare che nel termine decennale, anche a decorrere dalla esecuzione dei rimborsi parziali, l’Ufficio poteva anche procedere ad emettere il provvedimento di ripetizione di quanto indebitamente versato. Al recupero di pagamenti indebitamente eseguiti va infatti applicato l’ordinario termine decennale, che non può che decorrere dall’esecuzione del pagamento medesimo.

Proseguendo nell’analisi della disciplina in rapporto ai principi di diritto nazionali ed Euro-unitari, ad ulteriore specificazione del suddetto orientamento, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il principio secondo cui, qualora l’Amministrazione non abbia adottato alcun provvedimento di liquidazione del credito esposto nella dichiarazione dei redditi ed, al contempo, siano decorsi i termini per operare la rettifica, il diritto del contribuente non si consolida automaticamente alla data di scadenza dei termini previsti per l’accertamento, restando fermo il potere di contestazione del credito da parte dell’Amministrazione, non contrasta con l’art. 1 del I Protocollo addizionale alla CEDU. Ciò perché tale norma garantisce tutela sul piano convenzionale ai soli crediti già accertati, nonché liquidi ed esigibili, ossia a quelli che possano ritenersi parte del patrimonio dell’individuo (Cass., 12/10/2018, n. 25464). Ed ancora, partendo dalla precisazione che la compensazione è ammessa soltanto nei casi stabiliti dalla legge, non potendo derogarsi al principio secondo cui le operazioni di versamento, riscossione o rimborso, come pure le deduzioni, devono essere regolate da specifiche e inderogabili disposizioni di legge, sicché, ove il contribuente abbia operato una compensazione non consentita, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito indicato dal contribuente a seguito di tale compensazione anche se sono scaduti i termini per l’esercizio del potere di accertamento – in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum (Cass., 1/02/2019, n. 3096) -, anche questo orientamento è stato esaminato alla luce dei principi Euro-unitari. Si è sul punto affermato che in tema di rimborso di imposte, stante l’assenza di norme che fissino espressamente termini di prescrizione o di decadenza per l’accertamento dell’infondatezza della relativa domanda, ed esclusa l’estensione analogica della disciplina del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43 dettato per ipotesi diverse da quella riguardante l’istanza proposta da cittadino straniero, trova applicazione la disciplina generale di cui all’art. 2946 c.c., che prevede la prescrizione decennale, in conformità con l’interpretazione della Corte di giustizia UE (sentenza 11 giugno 2009, C-155/08 e C-157/08), secondo cui la previsione di termini di accertamento più lunghi per i redditi prodotti all’estero, rispetto a quelli di provenienza nazionale, è conforme al diritto comunitario, giustificandosi in ragione della prevalenza dell’interesse all’integrità delle entrate tributarie nazionali e della necessità di contrastare frodi fiscali, rispetto alle libertà unionali di prestazione di servizi e di circolazione delle merci (Cass., 14/06/2019, n. 16001).

Quanto poi all’incidenza della disciplina e dei tempi di verifica dei presupposti per la fruizione del credito d’imposta sulla libera circolazione dei capitali, tutelata dall’art. 63 del TFUE, è qui sufficiente riportarsi a quanto questa Corte ha di recente affermato, e in particolare che “(..) La libera circolazione dei capitali non è tuttavia illimitata: possibili deroghe (e, quindi, legittime restrizioni ai movimenti di capitali) sono previste nell’ambito dello stesso TFUE. In specie, l’art. 64, par. 1, TFUE (ex art. 57 del trattato CE) statuisce che “Le disposizioni di cui all’art. 63 lasciano impregiudicata l’applicazione ai paesi terzi di qualunque restrizione in vigore alla data del 31 dicembre 1993 in virtù delle legislazioni nazionali o della legislazione dell’Unione per quanto concerne i movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti, che implichino investimenti diretti, inclusi gli investimenti in proprietà immobiliari, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari”, mentre il successivo art. 65, par. 1 (ex art. 58 del trattato CE), TFUE recita così: “Le disposizioni dell’art. 63 non pregiudicano il diritto degli Stati membri: a) di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza oil luogo di collocamento del loro capitale”.” (Cass., 14764/2021 cit.).

In conclusione, l’imponente intervento interpretativo della giurisprudenza di questa Corte, anche alla luce di principi Euro-unitari, e la stessa normativa, anche questa di derivazione Euro-unitaria, esclude per un verso qualunque disparità di trattamento tra operatore economico residente in Italia e operatore residente in altro Stato membro dell’Unione, o nel Regno Unito, e ad un tempo, qualunque necessità di investire la Corte di Giustizia con i quesiti pur invocati dal contribuente.

Con il terzo motivo la società denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., poiché la decisione del giudice regionale assunta con riguardo al rimborso dei crediti d’imposta per le centouno istanze sarebbe radicalmente nulla per motivazione apparente. Questo motivo è infondato.

Va premesso che l’apparente motivazione della sentenza sussiste ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sull’esattezza e logicità del suo ragionamento. Ed in sede di gravame la decisione può essere legittimamente motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19/07/2016, n. 14786; 7/04/2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione deve infatti ritenersi apparente quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, (Cass., 30/06/2020, n. 13248; cfr. anche 5/08/2019, n. 20921). E’ peraltro apparente la pronuncia che evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14/02/2020, n. 3819).

Ebbene nel caso di specie dalle argomentazioni utilizzate dalla commissione regionale, a differenza di quanto pretende la difesa della ricorrente, con la pronuncia, dopo aver richiamato la decisione dei giudici di primo grado (con specifico riguardo alla valorizzazione del metodo matematico-statistico ed alla sua validità in rapporto all’enorme volume delle transazioni operate), si è ritenuto che la finalità delle operazioni fosse proprio quella di beneficiare del credito d’imposta. A tanto, nel capoverso successivo, è stato aggiunto un ulteriore elemento di convincimento, cioè “il fatto che l’acquisizione dei titoli di società italiane avveniva in periodi prossim(i) allo s(t)acco dei dividendi e che spesso vi era coincidenza tra i volumi di azioni in entrata ed in uscita”. La difesa della ricorrente sostiene che le critiche rivolte alla decisione di primo grado esigevano una risposta più approfondita, in grado di soddisfare il motivo d’appello. In realtà la motivazione resa dal giudice regionale, sia pur sintetica, identifica gli elementi che ha ritenuto evidentemente essenziali a spiegare le conclusioni raggiunte. Nei due capoversi in cui essa si sviluppa riporta gli elementi valorizzati dal giudice provinciale, per poi esprimere il suo giudizio critico, che rafforza con il riferimento al rapporto, ritenuto evidentemente sintomatico della esclusiva finalità di conseguimento di benefici fiscali, tra l’approssimarsi dei periodi di stacco dei dividendi e la frequente coincidenza “tra i volumi di azioni in entrata ed in uscita”. La motivazione, a prescindere se essa possa risultare convincente, corretta o condivisibile, esula dal vizio radicale della apparenza. E d’altronde tutte le argomentazioni sviluppate con il terzo motivo di ricorso afferiscono più al merito che al vizio processuale sanzionabile con la nullità della decisione.

Con il quarto motivo ci si duole della violazione dell’art. 10, paragrafo 4 della Convenzione Italia – Regno Unito, art. 2697 c.c., D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 40 e 42, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38 sotto il profilo dell’errore di diritto commesso in merito alla pretesa finalità elusiva delle operazioni poste in essere, indimostrata secondo la prospettazione della contribuente, ed al preteso sillogismo tra operazioni di dividend washing e fattispecie elusive. La critica afferisce sempre all’applicazione del criterio della media ai crediti d’imposta relativi alle centouno istanze di rimborso.

Con il quinto motivo ci si duole della violazione dell’art. 2729 c.c., sotto il profilo dell’errore di diritto, per aver illegittimamente utilizzato una inammissibile doppia presunzione, quale il criterio della giacenza media delle azioni e della finalità elusiva delle operazioni.

I due motivi possono essere trattati unitariamente, perché tra di loro connessi.

La difesa della ricorrente sostiene che la motivazione del giudice regionale cada in errore per aver avvallato la ricostruzione delle operazioni di acquisto e vendita delle azioni, come attività di borsa messa in atto con intenti squisitamente elusivi. Denuncia che il ricorso al criterio della giacenza media mensile, avvallata dalla pronuncia, costituisce un errore interpretativo delle norme invocate, fondato su un sillogismo riconducibile ad una doppia presunzione, erronea (quarto motivo), oltre che illegittima (quinto motivo), perché in tal modo si è consentito di superare ingiustificatamente l’onere probatorio, pur gravante sull’Ufficio, cui incombeva dimostrare per quali specifici dividendi ricorrevano fattispecie elusive. E ciò tenendo anche conto che i presupposti richiesti dalla Convenzione bilaterale per conseguire il diritto al riconoscimento e al rimborso del credito d’imposta (1- che i dividendi siano soggetti ad imposta nel regno Unito; 2- che il percipiente sia il beneficiario effettivo degli stessi) non sia stato mai messo in discussione.

L’Amministrazione finanziaria ha difeso il suo operato, evidenziando gli elementi presi in esame, da cui emergeva la finalità elusiva di parte delle operazioni e la correttezza della decisione assunta dai giudici regionali.

Anche questi due motivi sono infondati.

Intanto è riduttivo, sotto il profilo della interpretazione della disciplina, affermare che la convenzione bilaterale richieda, quali elementi genetici all’insorgenza del diritto al rimborso, solo i requisiti di cui all’art. 10, paragrafo 4, lett. a). Non possono infatti slegarsi quei requisiti dai presupposti richiesti dall’art. 10, paragrafo 5, a cui la Convenzione attribuisce rilievo, per essere elementi atti ad escludere, o al contrario ad identificare, finalità elusive, nella quale seconda ipotesi ci si troverebbe di fronte ad obiettivi, perseguiti in via esclusiva o anche concorrente, non meritevoli di tutela contro le doppie imposizioni. Ed è proprio in tale alveo che la sentenza, riconoscendo sia pur sinteticamente i risultati emersi dalla verifica fiscale e le ragioni del rigetto della richiesta di rimborso del credito d’imposta, ha ritenuto di formulare un giudizio critico sui diritti del contribuente, rigettandone il ricorso a conferma delle statuizioni già assunte dal giudice di primo grado. Denunciare poi la valutazione complessiva delle operazioni di trading messe in atto dalla società, assumendo che per ogni singola operazione occorreva invece identificare le specifiche finalità elusive, significa per un verso sollecitare una rivalutazione nel merito della fattispecie, profilo inammissibile in sede di legittimità, ed afferente al merito e non all’errore di diritto per il quale la Corte è stata formalmente investita. Ma soprattutto, anche volendo valorizzare la critica mossa dalla società sotto il profilo dell’errore di diritto, essa è totalmente errata e fuori luogo. Era proprio dalla valutazione complessiva della massa di operazioni che l’ufficio accertatore poteva estrapolare la finalità elusiva della condotta. Ad un tempo era proprio dalla valorizzazione delle operazioni nella loro complessità “massiva” che il giudice regionale poteva apprezzare la fondatezza, o meno, delle difese della contribuente e della prospettazione accusatoria dell’Amministrazione finanziaria. D’altronde, poiché nella vicenda per cui è causa la valutazione ed interpretazione dei fatti è fondata su prove presuntive, va rammentato che questa Corte ha chiarito che in ordine al corretto governo delle regole sulla prova presuntiva compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluta al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità quando risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., 5/05/2017, n. 10973/2017; 26/01/2007, n. 1715).

Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, qualora anche unica, può ritenersi sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti, accertati dalla Amministrazione (Cass., 24/01/2007, n. 1575), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova. La giurisprudenza di legittimità ha tracciato a tal fine il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (cfr. Cass., 2/03/2017, n. 5374; 16/05/2017, n. 12002; 12/04/2018, n. 9059; 25/10/2019, n. 27410). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.

Ebbene, nel caso di specie, per quanto già chiarito nell’esame del terzo motivo, il giudice d’appello ha valorizzato gli elementi che, nel loro insieme, ha ritenuto deporre favorevolmente all’impianto motivazionale posto dalla Agenzia delle entrate a fondamento della negazione parziale del rimborso del credito d’imposta.

Quanto infine alla denunciata illegittima utilizzazione della doppia presunzione, essa si rivela una critica del tutto priva di pregio, già sotto il profilo della struttura teorica della prova, non esistendo alcun divieto di doppia presunzione nel sistema processuale, che sia riconducibile agli artt. 2729 e 2697 c.c., o a qualsiasi altra norma dell’ordinamento (cfr. Cass., 16/06/2017, n. 15003; 1/08/2019, n. 20748; 7/12/2020, n. 27982).

Con il sesto motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., in riferimento al capo della pronuncia riguardante la simulazione della distribuzione dei dividendi della CFA, per motivazione apparente. La ricorrente sostiene che sulle sei istanze di rimborso, relative ai dividendi distribuiti dalla CAF, la decisione si sia limitata alla elencazione degli elementi assunti dall’Ufficio a dimostrazione della natura simulatoria del pagamento dei dividendi, dietro cui era dissimulato un finanziamento in favore della Parmalat. Denuncia che la società aveva risposto, adducendo le ragioni per le quali quegli elementi andavano disattesi. Anche questo motivo non trova accoglimento.

La sentenza ha riportato i riscontri valorizzati dall’Ufficio: 1- somma di L. 37.500.000.000 versata interamente alla Parmalat e non sul conto della e CFA; 2- azioni della CFA, del valore di L. 500.000.000, cui è stato aggiunto un sovrapprezzo di L. 37.000.000.000, senza possibilità di comprenderne le ragioni; 3- vantaggi fiscali conseguibili nel bilanciamento tra interessi mascherati da dividendi e possibilità di conseguire il rimborso del credito d’imposta; possibilità per la Parmalat di ottenere linee di credito dissimulando il pagamento di interessi con il versamento di dividendi). A tale elencazione è seguita da parte del giudice regionale la constatazione dell’impiego di tutte le disponibilità della CAF in favore della Parmalat, la dismissione della partecipazione della Parmalat nella CAF, ceduta ad altra società del gruppo, infine la messa in liquidazione della CAF. Per contro, nel capoverso seguente la pronuncia ora oggetto di impugnazione ha preso in considerazione la difesa della contribuente, secondo cui il versamento del prezzo di sottoscrizione e l’accredito di pari importo in favore della Parmalat trovava giustificazione in accordi contrattuali tra le parti. Di tale ricostruzione la Commissione regionale ha mostrato di non essere convinta, sostenendone l’inattendibilità.

La motivazione, certamente non perspicua, è tuttavia esistente, perché con essa sono stati evidenziati gli elementi valorizzati dall’Amministrazione finanziaria, sono state individuate le anomalie, relative alla destinazione effettiva della quota partecipativa della ricorrente, è stato apprezzato, con giudizio critico negativo, la spiegazione resa dalla contribuente, ritenuta non convincente.

Si tratta di motivazione sufficiente, che certamente esula dall’apparenza.

Con il settimo motivo, sempre con riguardo al capo di sentenza sui crediti d’imposta dei dividendi della CFA, ha lamentato la violazione dell’art. 10, paragrafo 4 della Convenzione Italia – Regno Unito, nonché degli artt. 1414,1415,2463 e 2332 c.c., nonché del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 40 e 42 sotto il profilo dell’errore di diritto sulla interpretazione delle norme, che non consente di ricorrere all’istituto della simulazione in tema di contratto sociale. Sostiene la ricorrente che la Commissione regionale avrebbe avvallato il ricorso alla nozione civilistica di simulazione, senza tener conto della inapplicabilità dell’istituto ai contratti di costituzione di società, e mancando comunque la simulazione tra le cause di nullità del contratto sociale. L’Amministrazione ribatte che dalla motivazione della sentenza, pur affermandosi la configurabilità della simulazione, non si evince l’esclusione di una ricostruzione della vicenda riconducibile agli istituti della elusione e dell’abuso del diritto.

Il motivo, pur suggestivo, si rivela, al pari degli altri, altrettanto infondato. Al di là dei presunti riferimenti ad aspetti elusivi della condotta tenuta dalla società ricorrente, ciò che dalla sentenza emerge in modo inequivoco è che in essa la simulazione negoziale non riguarda la costituzione della società CAF, ma, soprattutto puntando l’attenzione sull’ingiustificato sovrapprezzo, si concentra sull’operazione di finanziamento, che mediante il pagamento dei dividendi maschera il versamento di interessi sul prestito di cui beneficia l’altra partecipante Parmalat. Non si mette dunque in discussione il contratto sociale, ma ciò che sottende alla distribuzione dei dividendi, che anzi presuppone l’esistenza della società CAF, quale società partecipata tanto dalla J P. Morgan quanto dalla Parmalat. Che poi attraverso il ricorso alla simulazione sia perseguito un intento elusivo, ciò può ritenersi deduzione anche corretta. Tuttavia ciò non emerge in modo esplicito, mentre, con specifico riguardo alla critica mossa dalla difesa della ricorrente, essa non coglie nel segno perché quello che rileva è che il ricorso all’istituto della simulazione non contrasta con la disciplina dettata dagli artt. 2463 e 2332 c.c..

Per le ragioni ora esposte è infondato anche l’ottavo motivo, con il quale si critica la decisione impugnata sia sotto il profilo dell’errore giuridico d’interpretazione dell’art. 1414 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 40 sia per l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con riguardo all’accreditato accordo simulatorio tra la ricorrente, la società partecipata e la Parmalat. Ciò, sotto il primo profilo, perché la simulazione afferiva all’operazione di finanziamento dissimulata, evidenziata dagli elementi presuntivi raccolti dall’Amministrazione finanziaria ed apprezzati dalla commissione regionale; sotto il profilo del vizio motivazionale, perché la pretesa omissione dell’esame dei fatti allegati dalla contribuente per contrastare l’ipotesi ricostruttiva avanzata dall’Ufficio accertatore non coglie nel segno. Al contrario di quanto affermato dalla ricorrente, non risponde al vero che il giudice d’appello abbia ignorato gli elementi e le spiegazioni della contribuente, ma ha ritenuto che quei fatti “non convincono”. Se poi con il motivo la società pretende un riesame nel merito della vicenda e degli elementi, ci si troverebbe dinanzi ad una richiesta inammissibile quando sollecitata al giudice di legittimità.

Con il nono motivo si denuncia il vizio motivazionale, subordinato all’ipotesi in cui si ritenga applicabile l’ipotesi prescritta dall’art. 360, comma 1, n. 5, nella versione anteriore alla novella introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni in L. 7 agosto 2012, n. 134. Poiché alla presente controversia si applica la disciplina novellata, il motivo è inammissibile.

Il ricorso va dunque rigettato e all’esito del giudizio segue la soccombenza della ricorrente nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese di causa, che liquida nella misura di Euro 29.000,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2021

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