Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25433 del 10/10/2019

Cassazione civile sez. III, 10/10/2019, (ud. 11/07/2019, dep. 10/10/2019), n.25433

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21093-2017 proposto da:

R.D., V.G., SOVAC SRL in persona del proprio

socio e Amministratore Unico R.D., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA CAVOUR 58, presso lo studio dell’avvocato

NADIA PATRIZI, rappresentati e difesi dall’avvocato ANTONIO CARLO

PESCHIULLI;

– ricorrenti –

contro

P.A.O., M.E.A.;

– intimati –

Nonchè da:

P.A.O., M.E.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA UDINE 6, presso lo studio dell’avvocato

GIORGIO LUCERI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

MARCO ZAMBELLI;

– ricorrenti incidentali –

contro

SOVAC SRL;

– intimata –

avverso la sentenza n. 175/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 03/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/07/2019 dal Consigliere Dott. GRAZIOSI CHIARA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE IGNAZIO che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale, accoglimento del 1 motivo del ricorso incidentale,

assorbito il successivo;

udito l’Avvocato ANTONIO CARLO PESCHIULLI;

udito l’Avvocato MARCO ZAMBELLI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 20 gennaio 2009 P.A.O. conveniva davanti al Tribunale di Bergamo SOVAC S.r.l. perchè fosse accertato che la convenuta aveva occupato sine titulo un immobile di cui l’attrice era comproprietaria per un sesto – gli altri sesti appartenendo a suo marito M.A.E., ai coniugi V.G. e Ma.Li. e ai coniugi R.D. e m.m., e che fosse condannata al suo rilascio e al risarcimento dei danni.

La convenuta si costituiva resistendo, e tra l’altro adduceva di avere stipulato quale conduttrice un contratto locatizio il (OMISSIS) per l’immobile. L’attrice contestava la sussistenza di tale contratto e otteneva l’autorizzazione a chiamare in causa, per estendere loro le domande, R.D. e V.G., i quali si costituivano resistendo e ottenevano a loro volta l’autorizzazione a chiamare il M. per la manleva che sarebbe stata stabilita quando quest’ultimo aveva ceduto loro le proprie quote di SOVAC S.r.l.; il M. si costituiva, resistendo e aderendo alle domande dell’attrice.

Con sentenza del 30 giugno 2014 il Tribunale dichiarava cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di condanna al rilascio, dichiarava inefficace il contratto di locazione del (OMISSIS) e rigettava ogni altra domanda, condannando solidalmente l’attrice e il M. a rifondere le spese alle controparti.

Avendo proposto appello la P. e il M., ed essendosi costituiti resistendo la società, il V. e il R., la Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 3 febbraio 2017, accoglieva parzialmente il gravame, condannando la società a pagare a ciascun appellante la somma di Euro 1291,14, oltre a interessi, quale un sesto dei canoni dovuti per il contratto locatizio nelle annualità dal 2004 al 2008, e condannando altresì il M. a manlevare il V. e il R. da quanto versato per il debito della società, per il resto confermando; compensava per metà le spese dei secondo grado, e condannava la società a rifondere l’altra metà agli appellanti, per gli altri rapporti processuali totalmente compensando le spese.

2. Hanno presentato ricorso SOVAC S.r.l., V.G. e R.D. sulla base di quattro motivi, illustrati anche con memoria.

Si sono difesi con controricorso P.A. e M.E.A., presentando anche ricorso incidentale, articolato in due motivi, nell’interesse di quest’ultimo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso principale è composto, come già si è rilevato, di quattro motivi.

3.1.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1108 c.c., comma 3, per avere il giudice d’appello censurato la sentenza di primo grado – che aveva applicato tale norma – ritenendo valido il contratto di locazione del (OMISSIS), che il Tribunale aveva invece reputato inefficace perchè stipulato per una durata di dieci anni senza il consenso di tutti i comproprietari, ravvisando piuttosto la sussistenza di un comodato.

La Corte d’appello avrebbe rilevato che la giurisprudenza di legittimità insegna che la locazione di una cosa comune è un contratto che può venire stipulato su iniziativa disgiunta di ogni comproprietario, dovendosi applicare la presunzione che questi abbia agito con il consenso degli altri; avrebbe poi invocato S.U. 11135/2012, per cui ciò dovrebbe essere inquadrato in una fattispecie di gestione d’affari, osservando altresì che la concorrenza dei poteri gestori di tutti i comproprietari investirebbe pure la disdetta della locazione e l’azione di rilascio.

A tutto questo obiettano i ricorrenti che l’art. 1108 c.c., – norma che sarebbe applicabile nel caso in esame – porrebbe un limite al potere disgiunto dei comproprietari nella gestione del bene comune.

3.1.2 Questo motivo richiede, in sostanza, di determinare la portata dell’art. 1108 c.c., comma 3, alla luce della giurisprudenza di questa Suprema Corte ed in particolare del recente intervento nomofilattico di S.U. 4 luglio 2012 n. 11135.

Il giudice d’appello, a fronte della sentenza di primo grado che aveva escluso la sussistenza di un rapporto locatizio proprio in forza dell’applicazione dell’art. 1108 c.c., comma 3 – ritenendo che detta norma aveva reso inefficace il contratto stipulato nel 1998 perchè ne era stata stabilita una durata dieci anni, e per questo aveva qualificato il rapporto insorto tra le parti come di comodato, affronta la questione nelle pagine 22 ss. della motivazione della sentenza impugnata affermando che ogni comproprietario può prendere iniziativa disgiunta per locare, sussistendo presunzione che ogni comproprietario agisca con il consenso degli altri e che il caso in esame rientra nella gestione di affari come stabilito dalle Sezioni Unite nell’arresto appena citato.

3.1.3 Per quanto concerne la presunzione che ogni comproprietario gestisca la cosa comune con il consenso, pur se non espresso, degli altri comproprietari, la corte territoriale richiama Cass. sez. 3, 27 gennaio 2005 n. 1662, che però ciò contrappone all’amministrazione straordinaria, per cui invoca l’art. 1108: “In tema di comproprietà, mentre la concessione del bene (nella specie, un fondo rustico) in locazione o in affitto può avvenire su iniziativa disgiunta di ciascun condomino (trovando applicazione la presunzione che il singolo contitolare abbia agito anche con il consenso degli altri), l’autorizzazione al compimento di opere di straordinaria amministrazione postula il rispetto di particolari maggioranze qualificate (art. 1108 c.c., comma 2) dei componenti la comunione, atteso che il potere di ogni condomino di agire per la gestione del bene comune, traendo origine dal diritto di concorrere all’amministrazione di tale bene, incontra il suo limite naturale nella circostanza che l’atto da compiere ecceda l’area della ordinaria amministrazione, con la conseguenza che, ove il singolo condomino, per qualsiasi motivo, abbia superato detto limite, la sua carenza di legittimazione deve essere rilevata dal giudice anche d’ufficio”.

La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha sempre riconosciuto, infatti, come per le altre attività di gestione di un bene comune anche per la stipulazione e la gestione di un contratto locatizio che lo abbia per oggetto da parte di un comproprietario, l’assenza della necessità di un espresso assenso degli altri condomini purchè si tratti di atto di ordinaria amministrazione (cfr. Cass. sez. 3, 23 aprile 1996 n. 3831; Cass. sez. 3, 18 luglio 2008 n. 19929; Cass. sez. 3, 13 gennaio 2009 n. 480; Cass. sez. 27 dicembre 2016 n. 27021).

3.1.4 Quanto al riferimento alla pronuncia delle Sezioni Unite, il giudice d’appello ne evince che la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari “rientra nell’ambito della gestione d’affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra cui quella di cui all’art. 2032 c.c.”, onde, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, in forza del combinato disposto dell’art. 2032 c.c., e art. 1705 c.c., comma 2, conseguentemente esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota del canone corrispondente alla sua quota di proprietà indivisa. Su questa linea, richiamando poi altri precedenti di giurisprudenza di legittimità, la corte insiste sulla legittimazione di ognuno dei comproprietari ad agire come gestori della cosa comune in virtù della presunzione del consenso degli altri comproprietari, per arrivare ad affermare che la sentenza di primo grado “va censurata laddove ha applicato alla fattispecie il disposto dell’art. 1108 c.c., comma 3 e qualificato il negozio quale “comodato””, trattandosi invece di un valido contratto di locazione il (OMISSIS) concluso da alcuni dei comproprietari dell’immobile “come in loro facoltà”, prevedendo “una lieve maggiore durata (decennale in luogo di otto anni)… ed invece un aumento rilevante del canone”, vale a dire ponendo in essere un’attività “in alcun modo lesiva dei diritti degli altri comproprietari” e, al contrario, “migliorativa”.

3.1.5 Questa espansione della funzione gestoria del bene comune al punto di consentire la stipulazione di un contratto locatizio ultranovennale viene dunque percepita dalla corte territoriale soprattutto come inclusa nell’insegnamento nomofilattico delle Sezioni Unite.

In realtà, le Sezioni Unite hanno preso le mosse da un caso in cui le comproprietarie erano due e aveva agito nei confronti del conduttore per ottenerne parte del canone la comproprietaria che non aveva stipulato il contratto, per giungere a riconoscere a tale comproprietaria il diritto ad ottenerlo proprio per il combinato disposto dell’art. 1705 c.c., comma 2, e art. 2032 c.c.. In questo contesto hanno affermato che in ultima analisi il comproprietario che stipula un contratto locatizio – e può ben farlo, perchè non occorre che sia titolare del diritto reale, essendo sufficiente che abbia una disponibilità non illecita dell’immobile – è un gestore ai sensi degli artt. 2028 ss. c.c., per gli altri comproprietari se sussistono i requisiti della gestione d’affari, dando peraltro detti requisiti per certi nella stipulazione di un contratto locatizio, in cui infatti hanno ravvisato:

l’animus aliena negotia gerendi, perchè questo può risultare anche dalle circostanze di fatto;

l’utilità della gestione (utiliter coeptum) perchè l’iniziativa di stipulare locazione di un immobile parzialmente altrui di cui si ha la disponibilità è, “in assenza di opposizioni… degli altri comproprietari, chiaramente riferibile anche all’interesse di questi”;

l’impossibilità dell’interessato di compiere l’affare o comunque la mancanza della prohibitio domini;

l’esistenza dell’interesse altrui.

Quanto a questi ultimi due requisiti, le Sezioni Unite osservano che “la loro ricorrenza è senz’altro verificabile nel caso del contratto di locazione, trattandosi di atto di disposizione in genere di ordinaria amministrazione (ma… in alcune pronunce di questa Corte l’utilità dell’affare è stata ravvisata anche in ipotesi di contratti ultranovennali) destinato a far fruttare il bene comune e rispetto al quale deve ritenersi sussistente anche l’interesse del comproprietario non locatore che non abbia manifestato opposizione”; e l’absentia domini non significa impedimento, bensì che l’interessato “non manifesti, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si inserisca nei propri affari”. E questa soluzione è “la più idonea a contemperare le posizioni di tutti i soggetti coinvolti”. Il comproprietario non locatore può manifestare preventivamente il suo dissenso, e ciò lo esonera dal dover adempiere le obbligazioni assunte dal gestore, ex art. 2031 c.c., comma 2; ha poi il diritto di ratificare ai sensi dell’art. 2032 c.c., così da fruire gli effetti del mandato applicandosi l’art. 1705 c.c., comma 2.

3.1.6 In questo modo le Sezioni Unite – che proseguono su un iter già avviato da giurisprudenza precedente – circoscrivendo la portata del requisito della absentia domini (cfr. peraltro, tra i successivi arresti, Cass. sez. 6-3, ord. 3 febbraio 2017 n. 2944 – che condivisibilmente esclude la valenza di una simile interpretazione nel caso in cui il dominus sia la pubblica amministrazione – e Cass. sez. 3, 26 giugno 2015 n. 13203 – che in un caso di elevato calibro patrimoniale ravviva la incidenza del requisito affermando che è la concreta impossibilità a provvedere del dominus che rende ammissibile l’intervento del gestore, sempre che l’inerzia del dominus non abbia il senso di prohibitio) mirano sostanzialmente alla conservazione del contratto locatizio e alla tutela del conduttore (automatica è infatti ritenuta l’applicazione dell’art. 2031 c.c., comma 2, laddove per i vantaggi del comproprietario non locatore rimane necessaria la sua ratifica, che peraltro non può non essere insita nel suo intraprendere l’esercizio dei diritti del locatore).

Questa accurata e dettagliata ricostruzione del paradigma gestionale in rapporto al contratto locatizio è stata però operata dalle Sezioni Unite in riferimento ad un caso in cui non avrebbe potuto interferire l’art. 1108 c.c., comma 3; e infatti nella sentenza nomofilattica i riferimenti – uno implicito e l’altro esplicito – all’art. 1108 c.c., comma 3, rimangono ad un livello di mero obiter dictum, privo di ogni sostegno argomentativo.

In particolare, come già sopra si è riportato, laddove si afferma la natura di ordinaria amministrazione del contratto locatizio – evidentemente, quello che era l’oggetto di causa -, si aggiunge rapidamente, e non a caso tra parentesi, che tuttavia “in alcune pronunce di questa Corte l’utilità dell’affare è stata ravvisata anche in ipotesi di contratti ultranovennali”.

Sì richiama espressamente l’art. 1108 c.c., anche quanto alla maggioranza qualificata ivi prevista, nella citazione di Cass. sez. 3, 13 gennaio 2009 n. 483, pronuncia peraltro evidentemente condizionata, nel consentire al gestore di stipulare per un termine ultranovennale, dalla normativa speciale disciplinante il contratto, cioè un affitto di fondo rustico, con durata minima di quindici anni.

3.1.7 Non è dunque sostenibile che le Sezioni Unite abbiano affrontato gli effetti dell’art. 1108 c.c., comma 3, nell’ipotesi in cui non tutti i comproprietari stipulino un contratto di locazione ultranovennale, “disinnescandoli” – come in realtà è giunta a fare la corte territoriale -, ovvero dichiarando la validità e l’efficacia del contratto. L’intervento nomofilattico si è dedicato ai contratti locatizi riconducibili all’ordinaria amministrazione del bene comune, e in tal modo ha potuto, come già si è visto, completare un percorso di valorizzazione dell’iniziativa del singolo comproprietario ricondotta nella fattispecie della gestione d’affari per la parte non sua propria del bene locato.

Per quanto concerne, invece, il contratto di locazione ultranovennale, il legislatore ha dato una regola del tutto chiara e ineludibile, equiparandolo can “gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune”, come recita l’art. 1108 c.c., comma 3. Non è, pertanto, configurabile la sussunzione di un contratto stipulato per durata ultranovennale da non tutti i comproprietari nella condotta gestionale per cui le Sezioni Unite hanno ritenuto legittimato ogni comproprietario sulla base dei requisiti – decisamente orientati al favor della stipulazione del contratto – evinti, con una interpretazione tutt’altro che restrittiva, dalla fattispecie di cui agli artt. 2028 ss. c.c.. Si deve al contrario concludere che la corte territoriale ha violato l’art. 1108 c.c., comma 3, riconoscendo del tutto efficace un contratto locatizio immobiliare ultranovennale non stipulato quali locatori da tutti i comproprietari dell’immobile.

Peraltro, questo error in iudicando non genera concreto interesse a denunciarlo, come si verrà a constatare infra, vista la concreta conformazione della pronuncia emessa dalla corte territoriale.

3.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto discusso e decisivo.

Il Tribunale aveva qualificato il rapporto come comodato e la corte territoriale lo avrebbe censurato su ciò e sull’applicazione dell’art. 1108 c.c.. Dato atto che si tratta, quindi, di un motivo strettamente connesso a quello precedente, si sostiene che il giudice d’appello avrebbe omesso di valutare la possibilità della sussistenza di un altro rapporto contrattuale, cioè appunto del comodato. La corte territoriale non avrebbe analizzato alcune “circostanze” e “valutazioni” considerate invece dal giudice di prime cure (elencate nel ricorso a pagina 20), le quali sarebbero “certamente decisive”.

Dal momento che si tratta, appunto, di un motivo strettamente connesso con quello antecedente, ne subisce la medesima sorte che si verrà infra ad illustrare, dovendosi riconoscere quindi meramente ad abundantiam che l’applicazione dell’art. 1108 c.c., da parte della corte territoriale non è stata corretta per quanto appena osservato in relazione al primo motivo.

3.3.1 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’istituto della gestione d’affari e in particolare dell’art. 2032 c.c., per sostenere la validità del contratto di locazione non stipulato da tutti i comproprietari.

Il giudice d’appello richiama, come si è visto, S.U. 11135/2012, per cui, tra l’altro, pur in presenza di una gestione non rappresentativa, la ratifica del negozio posto in essere dal gestore, da quando è compiuta, genera gli effetti che sarebbero derivati dal mandato di stipulare il negozio; e tra gli effetti del mandato si annoverano quelli di cui all’art. 1705 c.c., comma 2, che abiliterebbe quindi il comproprietario non locatore a chiedere, per il tempo successivo alla ratifica, il pagamento della quota di canone al conduttore.

I coniugi P. e M., una volta “scoperta” l’esistenza della locazione, come risultante dal verbale della prima udienza del giudizio di primo grado, seppur in subordine l’avrebbero ratificata chiedendo i canoni loro spettanti pro quota, “con ciò non avvedendosi che tale diritto avrebbe avuto a oggetto solo i canoni successivi alla ratifica”. Si sarebbe trattato pertanto di “importi inesistenti”, perchè l’immobile sarebbe stato rilasciato “prima dell’introduzione del giudizio” (qui il motivo si riferisce, evidentemente, all’offerta non formale di rilascio avvenuta il 3 gennaio 2009, considerata, come si vedrà in seguito, dal giudice d’appello nella sentenza impugnata a pagina 28).

La Corte d’appello avrebbe commesso lo “stesso errore interpretativo” degli appellanti, laddove, richiamando il contratto del 1998, pur accogliendo l’eccezione di prescrizione di cui all’art. 1948 c.c., n. 3, avrebbe assegnato agli appellanti un sesto per ciascuno del canone non dalla data della ratifica, bensì per i cinque anni anteriori alla notifica dell’atto di citazione di primo grado (ritenendo non provati atti interruttivi antecedenti).

3.3.2 Questo motivo, attinente all’effetto della ratifica del contratto locatizio, assorbe anzitutto i due motivi precedenti.

Come sopra si è visto, le Sezioni Unite nell’arresto del 2012 hanno individuato tra gli effetti del combinato disposto dell’art. 2032 c.c. e art. 1705 c.c., comma 2, la legittimazione del comproprietario non locatore a chiedere il pagamento della propria quota di canone al conduttore per il tempo successivo alla ratifica del contratto, in termini di vantaggio per il ratificante la ratifica non avendo alcuna ricaduta retroattiva.

La questione, che era poi quella centrale della causa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite (instaurata dalla comproprietaria non locatrice nei confronti del conduttore per avere la sua quota di canone), ha costituito il culmine e il risultato del ragionamento precedentemente svolto, ed è stata oggetto di dirimente vaglio specifico nel punto 8.2 della motivazione della sentenza, ove si è affermato quanto segue: “Il comproprietario non locatore…, ai sensi dell’art. 2032 c.c., ed è questo l’aspetto che maggiormente rileva ai fini della soluzione del caso di specie, ha la facoltà di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario locatore, e l’esercizio di tale potere comporta gli effetti che sarebbero derivati da un mandato, anche se la gestione è stata compiuta da un soggetto che credeva di gestire un affare proprio… E’ innegabile che, pur in presenza di una gestione non rappresentativa, che si svolga quindi senza alcuna contemplati domini, la ratifica determina, dal suo manifestarsi, gli effetti che sarebbero derivati da un mandato (art. 2032 c.c.). E tra gli effetti del mandato vi è proprio quello di cui all’art. 1705 c.c., comma 2, che abilita il comproprietario non locatore a richiedere, per il tempo successivo alla ratifica, il pagamento pro quota del canone al conduttore. La ratifica, giova soggiungere, non necessita di formalità particolari, ben potendo essere espressa dalla domanda che, come nella specie, il comproprietario non locatore rivolga al conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, di vedersi attribuito il 50% dei canoni per il periodo successivo alla ratifica” (il 50% era naturalmente la quota del caso esaminato dalle Sezioni Unite).

3.3.3 Nella causa in esame la P. – alle cui pretese ha poi aderito il coniuge M. – ha agito per il rilascio dell’immobile e il risarcimento dei danni; e a fronte della costituzione dei convenuti e del tenore delle loro difese, ha poi chiesto, in subordine, la condanna al pagamento della quota di canone, domanda temporalmente definita come relativa ai canoni dovuti dall’inizio del contratto fino alla sua cessazione.

Il primo giudice ha dichiarato cessata la materia del contendere quanto alla domanda di rilascio dell’immobile, ha altresì dichiarato inefficace il contratto di locazione e rigettato ogni altra domanda attorea. Di qui l’appello dei coniugi P. – M.. La corte territoriale ha condiviso la posizione assunta dal primo giudice in ordine al rilascio dell’immobile, ritenendo non censurabile il suo giudizio laddove aveva accertato che “in epoca anteriore alla pendenza della lite” la società Sovac aveva offerto la restituzione dell’immobile, per cui era cessata la materia del contendere; e infatti i due giudici di merito condividono che la lettera del 3 gennaio 2009 della conduttrice “deve essere interpretata come un’offerta di rilascio del bene” cui nessuno degli appellanti aveva replicato alcunchè. Il giudice d’appello inoltre puntualizza, quanto “alla contestata valenza ai fini del rilascio dell’immobile dell’offerta “non formale di rilascio” inviata in data 3.1. 2009″, che la giurisprudenza di questa Suprema Corte ravvisa mezzo di costituzione in mora del creditore anche nell’offerta reale non formale del conduttore, la quale, pur non essendo sufficiente a costituire in mora il locatore, lo è ad evitare la mora del conduttore; e nel caso in esame vi fu appunto una “chiara offerta non formale della conduttrice” (motivazione della sentenza impugnata, pagine 27-29).

Dopodichè, avendo in precedenza già ritenuto efficace il contratto locatizio stipulato il (OMISSIS), allo scopo tra l’altro richiamando specificamente il passo della motivazione di S.U. 11135/2012 sull’effetto del combinato disposto dell’art. 2032 c.c., e art. 1705 c.c., comma 2, quale conseguenza della ratifica dell’operato del gestore da parte del comproprietario non locatore, la corte territoriale “ritorna” su questo aspetto decidendo di accogliere la domanda di condanna al pagamento agli appellanti da parte della società conduttrice della quota dei canoni, limitatamente a quelli in relazione ai quali giudica non maturata la prescrizione che era stata eccepita ex art. 2948 c.c., n. 3; e identifica pertanto i canoni da versare in quelli delle annualità dal 2004 al 2008, per un totale di Euro 1291,14, oltre interessi legali dalla domanda al saldo, per ciascuno degli appellanti.

3.3.4 La corte territoriale, che non a caso aveva riportato varie pagine prima il riferimento alle Sezioni Unite (precisamente, a pagina 23, mentre la domanda di condanna al pagamento dei canoni viene trattata solo nelle pagine 29-30), come evidenzia il motivo in esame ha, per così dire, smarrito il rilievo della ratifica, decidendo come se gli appellanti avessero essi stessi stipulato il contratto in relazione al quale chiedevano il pagamento dei canoni, e così limitando la debenza della conduttrice solo in riferimento alla maturata prescrizione.

In effetti, come già si accennava più sopra e come chiaramente – si è visto – ha riconosciuto la sentenza delle Sezioni Unite, proporre la domanda di pagamento dei canoni equivale in sostanza alla ratifica del contratto. E dunque, la corte territoriale avrebbe dovuto seguire l’insegnamento nomofilattico per cui gli effetti della ratifica non sono retroattivi quanto al diritto al pagamento del canone, bensì lo fanno insorgere soltanto per i canoni dovuti dal conduttore nel periodo successivo. Il motivo, pertanto, è fondato, e il suo contenuto, come già fin qui esaminato, consente, in rapporto a quanto accertato e deciso dal giudice d’appello in ordine alla domanda di condanna al rilascio dell’immobile, la decisione nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2, non occorrendo ulteriori indagini di fatto.

3.3.5 La ratifica del contratto è avvenuta alla prima udienza, tramite l’introduzione, in subordine alle precedenti, della domanda su di esso fondata. Tuttavia, essendo stato introdotto il giudizio con atto di citazione notificato il 20 gennaio 2009, all’epoca l’immobile era già nella disponibilità (anche) dei coniugi P. – M., dato che per il rilascio la conduttrice non era in mora – ovvero nulla più doveva in termini di canoni a controparte – dal 3 gennaio 2009, come ha accertato (condividendo pienamente, su questo, l’accertamento del giudice di prime cure) il giudice d’appello: accertamento che non è stato oggetto di impugnazione ed è quindi divenuto giudicato interno.

Ne consegue che quando fu effettuata la ratifica la conduttrice non aveva più obbligo di pagare alcun canone (si ricorda che la stessa corte territoriale ne ha ritenuto la debenza fino al 2008), per cui la condanna pronunciata in tal senso dalla corte territoriale è erronea, dovendosi pertanto non solo cassare la sentenza, ma altresì – decidendo appunto nel merito – rigettare la domanda di condanna al pagamento dei canoni proposta dalla P. e a cui ha aderito il M., e che la corte territoriale aveva accolto; a ciò è ineludibilmente conseguente, sempre come decisione in merito, pure il rigetto della condanna del M. a manlevare V.G. e R.D. per “quanto da essi versato per coprire il debito sociale di Sovac Srl”, debito di cui il rigetto della domanda di condanna della società al pagamento dei canoni comporta l’inesistenza.

3.3.6 In forza della decisione nel merito, è evidente che cade ogni interesse per i due precedenti motivi, in quanto comunque nulla è dovuto da Sovac ai coniugi P. – M.. La parziale riforma della sentenza di primo grado effettuata dal giudice d’appello aveva investito esclusivamente la condanna al pagamento dei canoni, per il resto venendo confermata la decisione del primo giudice, che non aveva condannato nessuno dei convenuti ad alcunchè. E così i precedenti motivi vengono assorbiti dall’accoglimento del terzo motivo, deciso anche nel merito.

3.4 Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere il giudice d’appello violato il principio di soccombenza applicando la compensazione, che dovrebbe essere disposta soltanto in caso di soccombenza reciproca.

E’ evidente che anche questo motivo risulta assorbito, visto l’accoglimento del terzo motivo e la conseguente decisione nel merito, che, in forza della dovuta unitarietà, conduce a una nuova decisione in ordine alle spese processuali.

Il ricorso principale, in conclusione, viene accolto nel terzo motivo, assorbiti gli altri, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e decisione nel merito.

4. Il ricorso incidentale, proposto nell’interesse del M., si articola in due motivi.

4.1 II primo motivo adduce che la condanna del M. all’adempimento dell’obbligazione di garanzia nei confronti dei cessionari delle sue quote sociali violerebbe gli artt. 346 e 347 c.p.c., perchè le controparti non avrebbero rinnovato la domanda in appello, nè avrebbero potuto farlo essendosi costituite con una comparsa depositata soltanto due giorni prima della relativa prima udienza.

La corte territoriale avrebbe rilevato che il vincitore in primo grado non ha onere di proporre appello incidentale per far valere domandeleccezioni non accolte, essendo sufficiente riproporle per sottrarsi alla presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c.. La corte avrebbe deciso condannando il M. benchè il R. e il V. non avessero riportato la relativa conclusione di primo grado, che sarebbe stata assorbita dal totale rigetto effettuato dal primo giudice. La riproposizione peraltro dovrebbe compiersi non genericamente nella comparsa di risposta, e la tardiva riproposizione condurrebbe alla decadenza dal potere di riproposizione.

4.2 II secondo motivo adduce che la condanna del M. avrebbe violato l’art. 1362 c.c., perchè, “contro il senso proprio delle parole fatto palese dal contenuto complessivo del contratto”, il giudice d’appello avrebbe ritenuto sopravvenienza passiva non conosciuta il canone locatizio relativo all’immobile che era sede legale e operativa della società, e avrebbe gravato senza alcun accertamento il M. di “un pagamento di cui non risulta la previa anticipazione, difformemente dalla lettera contrattuale”. La giurisprudenza di questa Suprema Corte avrebbe insegnato che l’interpretazione del contratto dovrebbe partire dal dato letterale, richiamandosi gli ulteriori criteri normativi soltanto qualora tale dato risultasse insufficiente, nel senso proprio e nel contesto del contratto. Si riporta l’art. 2 del contratto di cessione di quote della SOVAC dal M. al V. e al R., stipulato il 15 gennaio 2007, per sostenere che non si sarebbe trattato di una obbligazione sopravvenuta, bensì nota da tempo, per cui non sarebbe stato operativa la garanzia. Dunque sarebbe stato violato l’art. 1362 c.c., per una interpretazione eccentrica rispetto alla lettera della clausola nel contesto contrattuale.

4.3 Anche sul ricorso incidentale si ripercuote, in senso di assorbimento, la fondatezza del terzo motivo del ricorso principale.

4.3.1 In effetti – non si può non rilevare a proposito del primo motivo come assolutamente evidente – il M. è stato condannato dalla corte territoriale in forza di una domanda di garanzia assorbita in primo grado dal rigetto della domanda attorea relativa alla condanna al pagamento dei canoni. Quindi non era necessario un appello incidentale per devolverla al giudice d’appello, essendone sufficiente la riproposizione (S.U. 19 aprile 2016 n. 7700). Il motivo sarebbe peraltro fondato perchè non risulta che vi sia stata riproposizione, nè entro la prima udienza (come esige la recentissima S.U. 21 marzo 2019 n. 7940), nè tantomeno nelle precisate conclusioni.

Ma è indubbio che l’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale fa cadere la condanna dei soggetti garantiti e dunque pure la conseguente condanna a manlevarli del garante, per cui questo primo motivo del ricorso incidentale diviene privo di interesse, restando assorbito dall’accoglimento suddetto.

4.3.2 Il secondo motivo è a sua volta assorbito dall’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale, in quanto, come si è visto, riguarda ancora la condanna alla manleva.

Tutto il ricorso incidentale, pertanto, viene assorbito dall’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale.

5. In conclusione, il ricorso principale deve essere accolto nel terzo motivo, che comporta l’assorbimento degli altri motivi e l’assorbimento altresì del ricorso incidentale, nonchè la decisione nel merito come sopra constatato.

La peculiarità della vicenda, che ha visto difformi decisioni da parte dei giudici di merito, nonchè la sopravvenienza durante il giudizio dell’intervento delle Sezioni Unite che ha comunque spiegato una notevole incidenza, giustifica la compensazione per ogni rapporto processuale delle spese di lite di tutti i gradi.

P.Q.M.

Accoglie il terzo motivo del ricorso principale, assorbiti gli altri motivi e il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta la domanda di condanna al pagamento di canoni ad P.A.O. e ad M.A.E. nonchè la conseguente domanda di condanna alla manleva di M.A.E., compensando tutte le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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