Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25426 del 12/11/2013


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 25426 Anno 2013
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: CORRENTI VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso 4501-2007 proposto da:
MANZI GIUSEPPE PCNCRD33D07H5010,

PALOMBI ERSILIA

PLMTRS37A68H836F, elettivamente domiciliati in ROMA,
VIA FRANCESCO CRISPI 36, presso lo studio
dell’avvocato BIANCHI MAURIZIO, che li rappresenta e
difende;
– ricorrenti contro

PACENTI CORRADO PLMRSC38H55H836C, PALOMBI MARIA TERESA
PLMRSC38E55H836C, elettivamente domiciliati in ROMA,
VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’avvocato

Data pubblicazione: 12/11/2013

SI
PANARITI PAOLO, rappresentati e difesi dall’avvocato
ONORATI PIERLUIGILIt
– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 524/2006 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 31/01/2006;

udienza del 15/03/2013 dal Consigliere Dott. VINCENZO
CORRENTI;
udito l’Avvocato DE GUIDI Lucia, con delega depositata
in udienza dell’Avvocato Maurizio BIANCHI, difensore
dei ricorrenti che ha chiesto l’accoglimento del
ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. LUCIO CAPASSO che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 20.11. e 4.12.1984 Corrado Pacenti e Teresa Palombi
convenivano davanti al Pretore di Terracina Giuseppe Manzi ed Ersilia Palombi e,
premesso che i convenuti erano proprietari di un terreno in San Felice Circeo,
località Pozzo, in catasto part. 3362, f.8, mappale 57 con sovrastante fabbricato in

terreno confinava con quello degli attori in catasto alla partita 3140 f. 8. mappale
639 con sovrastante fabbricato, e premesso altresì che i convenuti avevano negli
ultimi due anni sopraelevato l’edificio aprendo vedute dirette ed oblique sul loro
finitimo fondo , in violazione delle distanze, realizzando anche un manufatto,
chiedevano la condanna a rimettere in pristino ed i danni.
I convenuti svolgevano riconvenzionale per la condanna degli attori a ripristinare il
loro edificio nei limiti della licenza rilasciata.
Espletata ctu la causa veniva rimessa al tribunale di Latina, dove veniva riassunta
con ulteriori domande degli attori.
Con sentenza 18.10.2002 il Tribunale condannava i convenuti ai danni in euro
14.920,44, compensando le spese per metà, decisione confermata dalla Corte di
appello di Roma con sentenza 524 del 31 .1.2006, che rigettava gli appelli principale
ed incidentale, osservando che la sopraelevazione aveva comportato una
diminuzione della vista verso il mare, produttiva di danni che andavano risarciti ed
equa era la relativa liquidazione.
Ricorrono Manzi Giuseppe e Palombi Ersilia con unico motivo variamente
articolato, resistono le controparti eccependo l’inammissibilità del ricorso per la
formulazione di un unico motivo con quattro quesiti.
MOTIVI DELLA DECISIONE

origine di due piani fuori terra in C.F. partita 1090 mappale 1017 e che il predetto

Premesso che, trattandosi di sentenza pubblicata il 31.1.2006, i quesiti non sono
necessari, con l’unico motivo si deducono violazione degli artt. 871, 872, 1226,
2043, 2056, 2697 cc e vizi di motivazione in ordine alla risarcibilità del danno
derivante dalla lesione del panorama, danno che non è in re ipsa e la cui risarcibilità
dipende dall’antigiuridicità.

Osserva questa Corte Suprema:
La sentenza di primo grado ha statuito che in mancanza di violazione di
distanze non poteva essere disposta la demolizione bensì, risultando irregolarità, che
elencava, solo pronunciata condanna al risarcimento dei danni per la cagionata
riduzione della visuale verso il mare, in via equitativa in ragione del dieci per cento
del valore, decisione confermata in appello.
La motivazione fornita dal giudice all’assunta decisione, oltre a non incorrere nelle
denunziate violazioni di legge, risulta logica e sufficiente, basata com’è su
considerazioni adeguate in ordine alla valenza oggettiva dei vari elementi di giudizio
risultanti dagli atti e su razionali valutazioni di essi; un giudizio operato, pertanto,
nell’ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito a fronte del quale, in
quanto obiettivamente immune dalle censure ipotizzabili in forza dell’art. 360 n. 5
CPC, la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le
conseguenze previste dalla norma stessa.
In particolare il giudice di appello, a pagina sei, ha valorizzato la circostanza che il
primo giudice aveva affermato la sussistenza di altre violazioni alle norme sulle
costruzioni, pur in mancanza della violazione delle distanze legali, donde la
configurabilità di un danno derivante dall’antigiuridicità della situazione, con
riferimento all’illegittimo mutamento del tetto in violazione dell’art. 25 del
regolamento edilizio.

L’aumento di cubatura non costituisce elemento probante.

Va considerato che la Cassazione penale ha ammesso la costituzione di parte civile
per abusi edilizi diversi dalla violazione delle distanze (Cass. 21/10/2009 n. 45295),
circostanza che consente di affermare il principio della risarcibilità del danno nelle
predette ipotesi.
A colui che reclama il danno è sufficiente fornire elementi utili alla sua

situazione illegittima posta in essere da controparte ( Cass. 24.12.1994 n. 11163,
Cass. n. 10.6.1991 n. 6581).
Ne deriva che la censura, come formulata, non appare meritevole di accoglimento
negando l’antigiuridicità, accertata in fatto dalla sentenza in ordine alle irregolarità
riscontrate ed elencate, in particolare in ordine all’aumento di cubatura ed
all’illegittimo mutamento del tetto in violazione dell’art. 25 del regolamento
edilizio.

I All’accertata antigiuridicità della costruzione consegue il risarcimento del danno.
In ogni caso il controllo di legittimità sulle pronunzie dei giudici del merito non è
configurato, nell’ordinamento vigente, come un terzo grado del giudizio nel quale
possano essere ulteriormente valutate le istanze e le argomentazioni sviluppate dalle
parti ovvero le emergenze istruttorie acquisite nella precedente fase, bensì è
preordinato all’ annullamento di quelle, tra le dette pronunzie, nelle quali siano
ravvisabili specifici vizi – di violazione delle norme sulla giurisdizione o la
competenza, e/o di violazione delle leggi sostanziali o processuali, e/o d’omessa od
insufficiente o contraddittoria motivazione – che le parti espressamente denunzino,
con puntuale riferimento ad una o più delle ipotesi previste dall’art. 360/I nn. 1-5
CPC, nelle forme e con i contenuti prescritti dall’art. 366/I n. 4 CPC, forme e
contenuti che non consentono la prospettazione d’una sequela di censure qualora

individuazione ed all’effettivo pregiudizio come causa diretta ed immediata della

ciascuna di esse non sia precisamente rapportata ad uno dei vizi denunziati e non sia
specificamente argomentata in relazione ad esso.
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Il concreto
t esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via

equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 CC espressione del più
generale potere di cui all’art. 115 del codice del rito, dà luogo non ad un giudizio

correttiva od integrativa, ond’è che non solo è subordinato alla condizione che risulti
obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare
il danno nel suo preciso ammontare, come desumibile dalle citate norme sostanziali,
ma non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si
tratta, anzi, al contrario, presuppone già assolto dalla parte stessa, nei cui confronti le
citate disposizioni non prevedono alcuna relevatio ab onere probandi al riguardo,
l’onere su di essa incombente ex art. 2697 CC di dimostrare sia la sussistenza sia
l’entità materiale del danno, così come non la esonera dal fornire gli elementi
probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, nonostante la
riconosciuta difficoltà, al fine di consentire che l’apprezzamento equitativo sia per
quanto possibile limitato e ricondotto alla sua peculiare funzione di colmare soltanto
le lacune riscontrate insuperabili nell’iter della precisa determinazione
dell’equivalente pecuniario del danno stesso.
Inoltre, poiché il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione
d’un diritto soggettivo non è riconosciuto dall’ordinamento con caratteristiche e
finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto
leso ed, al contempo, lo stesso ordinamento non consente l’arricchimento ove non
sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad
un altro (nemo locupletari potest cum aliena iactura), anche nelle ipotesi per le quali
il danno sia ritenuto in re ipsa e trovi la sua causa diretta ed immediata nella

d’equità ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale

situazione illegittima posta in essere dalla controparte, la presunzione attiene alla
sola possibilità della sussistenza del danno ma non alla sua effettiva sussistenza e,
tanto meno, alla sua entità materiale; l’affermazione del danno in re ipsa si riferisce,
dunque, esclusivamente all’an debeatur, che presuppone soltanto l’accertamento d’un
fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di

della prova d’un concreto pregiudizio economico ai diversi fini della determinazione
quantitativa e della liquidazione di esso per equivalente pecuniario, e non è precluso
al giudice il negare la risarcibilità stessa del danno ove la sua effettiva sussistenza o
la sua materiale entità non risultino provate, cosa che, invece, nella specie si è
verificato.
In definitiva, il ricorso va rigettato con la conseguente condanna alle spese
.PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese, liquidate in
euro 2200 di cui euro 2000 per compensi, oltre accessori.
Roma 15 marzo 2013.
il Presidente

Il consigli e estensore
,

,

onario GiudiMrio
I ‘a NERI

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

Roma,

verosimiglianza secondo l’id quod plerumque accidit, onde permane la necessità

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