Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25415 del 11/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 11/11/2020, (ud. 26/06/2020, dep. 11/11/2020), n.25415

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2710/13 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, 12 è elettivamente

domiciliata;

– ricorrente –

contro

F.A., rappresentata e difesa, giusta procura speciale in

calce al controricorso, dall’avv. Marco Tacchi Venturi, con

domicilio eletto presso il suo studio in Roma via Fogliano, n. 4/a;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale del Lazio

n. 752/14/11 depositata in data 30 novembre 2011;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 giugno

2020 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

 

Fatto

RILEVATO

che:

F.A. impugnava l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate, rettificando la dichiarazione dei redditi per l’anno 2003, accertava, ai fini IRPEF, maggior reddito d’impresa per Euro 179.654,73 a titolo di plusvalenza derivante dalla cessione di azienda conclusa con scrittura privata del 12 marzo 2003. La contribuente eccepiva il difetto di motivazione dell’atto impositivo e lamentava che le fosse stato integralmente attribuito il maggior reddito accertato, sebbene l’azienda compravenduta rientrasse nella comunione legale con il proprio coniuge, V.D., come precisato nello stesso atto di compravendita.

La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, rilevando che il reddito d’impresa doveva essere imputato ad entrambi i coniugi. Avverso la decisione proponeva appello l’Ufficio, replicando che non era stata fornita prova che anche il coniuge della contribuente gestisse l’azienda oggetto di cessione.

La Commissione regionale del Lazio rigettava l’impugnazione, osservando che l’avviso di accertamento era illegittimo in quanto l’azienda ceduta era ricompresa nella comunione legale, come peraltro emergeva dall’atto di cessione, e che l’Ufficio, sul quale incombeva il relativo onere probatorio, nulla aveva controdedotto in ordine alle specifiche contestazioni della contribuente.

Ricorre per la cassazione della sentenza d’appello l’Agenzia delle entrate, affidandosi a quattro motivi.

Resiste con controricorso F.A..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la difesa erariale denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2082 e 2555 c.c., facendo rilevare che l’accertamento in capo alla contribuente della plusvalenza derivante dalla vendita dell’azienda trovava giustificazione nella circostanza che la stessa contribuente risultava essere l’unica titolare dell’impresa, che era individuale, nonchè titolare della partita I.V.A. collegata all’impresa medesima; soltanto nel contratto di compravendita dell’azienda, sebbene la vendita fosse stata effettuata dalla sola controricorrente, all’art. 5 era stato precisato che l’attività commerciale era ricompresa tra i beni in comunione di cui alla L. n. 151 del 1975, ma tale circostanza, pacifica e non contestata, non comportava automaticamente che anche l’impresa ed i redditi da essa conseguiti fossero comuni ai coniugi. Poichè la qualità di imprenditore era riferibile alla sola F.A., non era contestabile che la plusvalenza derivante dalla cessione dell’azienda fosse riferibile, anche fiscalmente, alla stessa controricorrente.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e art. 2697 c.c. e lamenta che i giudici di merito avrebbero erroneamente annullato l’avviso di accertamento sul presupposto che gravasse sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare che la controricorrente fosse unica titolare dell’impresa.

3. Con il terzo motivo censura la sentenza per insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in quanto i giudici regionali non avrebbero spiegato le ragioni per le quali la comproprietà dell’azienda tra la F. ed il coniuge comportasse automaticamente anche la contitolarità dell’impresa.

4. Con il quarto motivo, rubricato “nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione dei principi generali che regolano il processo tributario di merito, del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1, 2 e 35 nonchè degli artt. 112 e 277 c.p.c.”, deduce che la Commissione regionale è pervenuta all’annullamento integrale dell’accertamento impugnato, anzichè alla riduzione della metà del recupero fiscale, in virtù della ritenuta contitolarità dell’impresa de qua.

5. Il primo, il secondo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati.

5.1. Occorre premettere, in fatto, che non è in contestazione che i coniugi F.A. e V.D. abbiano optato per il regime della comunione legale e che l’azienda, oggetto di cessione, essendo stata costituita in costanza di matrimonio, rientra nel concetto di “beni” di cui all’art. 177 c.c., comma 1, lett. d), e fa, dunque, parte della comunione legale.

5.2. In caso di comunione legale, per i redditi prodotti dai beni oggetto di comunione la disposizione cui fare riferimento è quella contenuta nell’art. 4, lett. a), del t.u.i.r., la quale prevede che i redditi dei beni che formano oggetto della comunione legale, di cui agli artt. 177 e ss. c.c. sono imputati a ciascuno dei coniugi per metà nel loro ammontare netto o per la diversa quota stabilita ai sensi dell’art. 210 c.c. (cd. imputazione ripartita); la stessa disposizione precisa, altresì, che i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge sono a questi imputati in ogni caso per l’intero ammontare.

5.3. La disposizione richiamata lascia ritenere, dal punto di vista sistematico, che la comunione legale non dà luogo ad un distinto soggetto passivo ai fini delle imposte sui redditi, in quanto soggetti passivi sono gli stessi coniugi, e che ciascun coniuge, indipendentemente dalla percezione, ha il diritto di proprietà sui beni che producono reddito, con la conseguenza che non vi è separazione tra il soggetto titolare della fonte di reddito ed il soggetto titolare del reddito, potendo ciascun coniuge comunque disporre della metà del reddito dei beni che fanno parte della comunione legale.

5.4. Poichè la disposizione non precisa che la imputazione per metà dell’ammontare dei redditi debba avvenire “indipendentemente dalla percezione”, è evidente che tale diversità di formulazione distingue la situazione della comunione legale da quella prevista dall’art. 5 del t.u.i.r. per le società di persone, dato che per queste ultime vi è una divaricazione, quanto meno formale, tra il soggetto che produce il reddito ed il soggetto in capo al quale avviene la tassazione, tanto che la tassazione del relativo reddito avviene in capo ai soci anche se costoro non lo hanno materialmente percepito.

5.5. Il criterio dettato dall’art. 4, lett. a), del t.u.i.r. risulta del tutto coerente con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., in quanto, dovendosi ritenere che ciascun coniuge, oltre ad essere comproprietario dei beni che producono reddito, possa disporre anche della metà dei frutti dei beni, e, quindi, dei redditi, deve anche ritenersi che ciascun coniuge sia titolare della capacità contributiva riconducibile al 50 per cento del reddito che deriva dai beni che fanno parte della comunione legale.

Anche la disposizione contenuta nell’ultimo periodo dell’art. 4, lett. a), risulta in linea con il principio della capacità contributiva, poichè stabilisce che il criterio dell’imputazione ripartita non opera per i redditi che derivano dall’attività separata, professionale o imprenditoriale, di ciascun coniuge; infatti, i proventi di questa attività separata sono imputati al coniuge che esercita quell’attività, in perfetta coerenza con quanto dispone l’art. 177 c.c., comma 1, lett. c), secondo il quale i frutti dell’attività separata appartengono alla comunione de residuo, il che comporta che gli stessi diventeranno oggetto di condivisione da parte dei coniugi solo al momento in cui si scioglierà la comunione, se non consumati; ciò significa che, quando si verificherà lo scioglimento della comunione e qualora dovessero far parte della comunione de residuo i redditi dell’attività separata del coniuge, già tassati in capo a questi, l’imputazione di tali frutti all’altro coniuge, per la sua quota di comunione de residuo, sarà atto che non avrà rilevanza dal punto di vista reddituale, ma dovrà essere inquadrato tra gli atti di trasferimento di carattere patrimoniale.

5.6. Da quanto detto discende che, nel caso di cessione dell’azienda, il reddito prodotto da quest’ultima, ivi compresa la plusvalenza che si origina, qualora il cedente perda la qualifica di imprenditore, non costituisce reddito d’impresa, come tale imputabile al solo cedente, ma reddito diverso ai fini Irpef (art. 67 del t.u.i.r.), che non può essere tassato per intero in capo al solo cedente, ma deve essere imputato per metà a ciascuno dei coniugi, atteso che entrambi i coniugi sono titolari del bene per l’intero, a nulla rilevando che l’impresa sia individuale, ossia gestita da uno solo dei coniugi.

5.7. La Commissione regionale, rilevando che l’azienda ceduta ricade nella comunione legale e che, di conseguenza, non possa imputarsi per intero alla sola controricorrente il maggior reddito da plusvalenza, non si è discostata dai principi sopra richiamati.

6. Merita, invece, accoglimento il quarto motivo di ricorso.

La accertata ascrivibilità dei redditi da plusvalenza oggetto di accertamento anche al coniuge della contribuente non avrebbe dovuto comportare un integrale annullamento dell’atto impositivo, ma piuttosto la correlativa riduzione del recupero fiscale effettuato a carico della contribuente, nella misura della metà.

I giudici regionali, non pronunciandosi nel merito dell’accertamento al fine di addivenire ad una diversa determinazione del maggior valore accertato dall’Ufficio, sono dunque incorsi nel denunciato vizio.

La sentenza va, pertanto, cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale perchè proceda a nuovo esame in relazione alla censura accolta, oltre che alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

rigetta il primo, il secondo ed il terzo motivo di ricorso; accoglie il quarto motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

 

 

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