Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25409 del 10/10/2019

Cassazione civile sez. III, 10/10/2019, (ud. 13/03/2019, dep. 10/10/2019), n.25409

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4423-2017 proposto da:

F.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA

32, presso lo STUDIO LEGALE PERROTTA CASAGRANDE, rappresentato e

difeso dagli avvocati LUCIANO BOCCARUSSO, MARIO ANZISI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 08/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/03/2019 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

Fatto

RILEVATO

che:

con ricorso depositato il 23 dicembre 2014 davanti al Tribunale di Napoli F.R. chiedeva che fosse dichiarato il grave pregiudizio dei propri diritti soggettivi, in violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo; pregiudizio subito durante i periodi detentivi trascorsi negli istituti penitenziari di Padova, Treviso e Avellino, chiedendo il risarcimento del danno per equivalente sulla base delle indicazioni contenute nella L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 3, con vittoria di spese;

si costituiva il Ministero della Giustizia per il tramite dell’Avvocatura dello Stato chiedendo il rigetto della domanda;

con decreto dell’8 novembre 2016 il Tribunale rigettava la domanda rilevando che, in ordine ai soggetti legittimati all’azione, il legislatore distingue tra coloro che si trovano ancora in regime di detenzione, ai quali riconoscere il risarcimento in forma specifica, pari alla riduzione di un giorno di pena da espiare per ogni giorno di pregiudizio subito, e coloro che hanno terminato la pena detentiva, ai quali viene attribuito un risarcimento per equivalente, pari ad Euro otto per ogni giorno di detenzione. Nel caso di specie il ricorrente aveva cessato la detenzione, ma, alla data di deposito del ricorso, risultava ristretto presso una Comunità di recupero per tossicodipendenti avendo beneficiato dell’affidamento in prova al servizio sociale;

rileva il Tribunale che l’ipotesi del condannato ammesso ad una misura alternativa alla detenzione è assimilabile a quella della detenzione, per cui il ricorrente avrebbe avuto diritto a richiedere il risarcimento in forma specifica e non in forma pecuniaria;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione F.R. affidandosi a un unico motivo che illustra con memoria. Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con l’unico motivo si deduce la violazione la L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 rilevando che al fine di radicare la competenza è necessaria l’attualità del pregiudizio e cioè la permanenza dello stato di detenzione. Il comma 3 della norma richiede, quale unico presupposto per la presentazione del ricorso al giudice civile per il risarcimento per equivalente, che il richiedente abbia terminato di espiare la pena detentiva “in carcere”, e tale locuzione dovrebbe essere interpretata in senso restrittivo, con riferimento soltanto alla detenzione inframuraria;

il ricorso è infondato;

il reclamo ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. è uno strumento di riparazione di natura atipica, con carattere prevalentemente indennitario, pertanto l’attualità del pregiudizio non è condizione necessaria di accoglibilità della domanda, essendo sufficiente il solo stato di detenzione, ed il suo fondamento non risiede nella legge ordinaria che lo ha introdotto, ma direttamente nella CEDU, di tal che la domanda, con la quale si prospetta una violazione del divieto di sottoporre un soggetto detenuto a trattamenti inumani o degradanti, è ammissibile anche per i pregiudizi subiti anteriormente al 26 giugno 2014. (Sez. 1, n. 9658 del 19/10/2016 – dep. 27/02/2017, De Michele, Rv. 26930801 e anche Sez. 1, Sentenza n. 19674 del 29/03/2017 Cc. (dep. 26/04/2017) Rv. 269894 – 01);

posto che per la giurisprudenza penale l’attualità del pregiudizio non è un requisito per la competenza del magistrato di sorveglianza, il problema riguarda la verifica se il regime dell’affidamento in prova, come nel caso di specie presso una Comunità di recupero per tossicodipendenti in (OMISSIS), è assimilabile alla detenzione con conseguente competenza del magistrato di sorveglianza e legittimazione a ottenere il risarcimento in forma specifica, escludendo così la competenza del giudice civile e il risarcimento per equivalente pecuniario;

la L. n. 354 del 1975, art. 35 ter introdotto dal D.L. n. 92 del 2014, art. 1 conv. con modif. dalla L. n. 117 del 2014, prevede due forme alternative di riparazione del pregiudizio conseguente alla detenzione in condizioni inumane cui associa anche la competenza di un diverso organo giudiziario. L’opzione per l’una o l’altra forma di tutela non è rimessa alla scelta del danneggiato ma alla sussistenza delle condizioni indicate dalla legge. Per il condannato che sia ancora in condizioni di detenzione è prevista la forma riparatoria in forma specifica della riduzione della pena detentiva ancora da espiare, da richiedere con istanza presentata dal detenuto al magistrato di sorveglianza;

il comma 3 prevede invece che chi abbia subito durante il suo periodo detentivo il pregiudizio conseguente alla detenzione in condizioni inumane, ma abbia terminato di espiare la pena detentiva in carcere possa proporre l’azione, anche personalmente, dinanzi al tribunale civile, per ottenere non più la riparazione in forma specifica, inattuabile essendo terminato il periodo detentivo, ma la tutela per equivalente. La legge quindi privilegia, per chi è in condizioni di fruirne, in conformità ai principi generali, la tutela riparatoria in forma specifica, consistente nel rimedio premiale della riduzione della pena ancora da espiare, in quanto essa è ritenuta maggiormente satisfattiva, rimuovendo la causa stessa del pregiudizio, ovvero limitando il periodo di detenzione in considerazione delle condizioni degradanti in cui si è svolta la sua concreta espiazione, mentre pone in posizione meramente residuale l’accesso alla tutela per equivalente, che può essere utilizzata (azionandola dinanzi al giudice civile) per compensare chi abbia effettivamente subito un periodo di detenzione in condizioni inumane, se e in quanto tale condizione sia terminata;

la norma non affronta nè risolve esplicitamente il problema del tipo di tutela accessibile da chi, pur non avendo ancora terminato di espiare la pena, si trovi però nel momento in cui presenta la sua domanda non ristretto in carcere perchè sottoposto ad una misura alternativa (nel caso di specie, affidamento in prova ai servizi sociali). Tuttavia, tenuto conto della ratio della norma che, come sopra indicato, è quella di privilegiare il risarcimento in forma specifica, consistente nel rimedio premiale dello “sconto” della pena residua, rispetto a quello per equivalente, attivabile solo se la condizione detentiva è ormai definitivamente conclusa, e tenuto conto anche della strutturazione non alternativa, a scelta del danneggiato, dei due rimedi, ma della scelta legislativa di consentire l’accesso alla riparazione per equivalente solo ove non sia più possibile quella in forma specifica, si ritiene che il rimedio della reintegrazione in forma specifica sia quello unicamente attivabile anche da chi si trovi a dover scontare una misura alternativa alla detenzione, e quindi non sia attualmente soggetto alla restrizione in carcere;

va premesso che l’istanza ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. è uno strumento di riparazione di natura atipica, con carattere prevalentemente indennitario, che ha origine nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria e trae il suo fondamento non dalla legge ordinaria che lo ha introdotto, ma direttamente nella CEDU (v. Cass. S.U. n. 11018 del 2018) (di tal che la domanda, con la quale si prospetta una violazione del divieto di sottoporre un soggetto detenuto a trattamenti inumani o degradanti, è ammissibile anche per i pregiudizi subiti anteriormente al 26 giugno 2014);

come rilevato in premessa il problema è stato già esaminato e risolto, peraltro, dalla Cassazione penale, le cui conclusioni si condividono appieno, che ha avuto modo di precisare, richiamando Corte Cost. n. 204 del 2016, che il rimedio pecuniario è alternativo a quello della riduzione di pena in tutte le ipotesi in cui, pur in presenza di un trattamento inumano o degradante, il magistrato di sorveglianza versa nell’impossibilità di operare nell’immediatezza siffatta riduzione di pena (Cass. pen. 32280 del 2018, a proposito della situazione di un detenuto condannato all’ergastolo);

in tutti gli altri casi, in cui ci sia una pena ancora da scontare, il rimedio predisposto dall’ordinamento è quello dell’istanza rivolta al magistrato di sorveglianza per ottenere una riduzione della durata della pena residua;

il condannato ammesso ad una misura alternativa non ha formalmente terminato di espiare la pena detentiva poichè si tratta di una misura provvisoria, revocabile con il ripristino del regime di detenzione, e che costituisce nient’altro che una forma di esecuzione della pena detentiva (come già affermato da Cass. pen. 47052 del 2017: “In tema di rimedi conseguenti alla violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti di soggetti detenuti o internati, appartiene al magistrato di sorveglianza la competenza a provvedere sull’istanza riparatoria di cui alla L. 26 luglio 1975, n. 354Ord. pen., art. 35-ter proposta da soggetto in affidamento in prova ai servizi sociali, in quanto la misura alternativa costituisce una forma di esecuzione della pena detentiva.”);

appare più ragionevole, nell’ottica premiale della riduzione di pena, che anche il soggetto più meritevole, ammesso alla pena alternativa possa beneficiare dell’effetto premiale della riduzione del periodo ancora comunque da scontare in condizioni limitative della libertà personale, rispetto a quello meno meritevole, eventualmente rimasto in detenzione, che comunque potrebbe beneficiarne lo stesso per legge;

deve ritenersi infine che, il presupposto necessario per accedere al beneficio della riparazione in forma specifica mediante lo “sconto” sulla pena residua, da richiedere al Tribunale di sorveglianza, sia il perdurante stato di restrizione del richiedente e non l’attualità del pregiudizio (in quanto il richiamo contenuto nell’art. 35-ter ord. pen. al pregiudizio di cui all’art. 69, comma 6, lett. b) ord. pen. opera ai fini dell’individuazione dello strumento processuale di cui si può avvalere il detenuto e del relativo procedimento, ma non si riferisce – come detto in premessa – al presupposto della necessaria attualità del pregiudizio che rileva, invece, ai fini del diverso rimedio del reclamo, previsto dal citato art. 69 la cui finalità è quella di inibire la prosecuzione della violazione del diritto individuale da parte dell’amministrazione penitenziaria);

Cass. pen. 19674 del 2017, in motivazione aggiunge che deve, comunque, considerarsi attuale il pregiudizio che non è stato eliminato attraverso una forma di riparazione, anche se la causa che lo ha prodotto si sia temporalmente verificata nel passato. Piuttosto, ciò che è necessario ai fini della tutela in forma specifica, è che la domanda riguardi pregressi periodi di carcerazione afferenti alla pena tuttora in corso di espiazione e non periodi di espiazione già conclusi (principio affermato da Cass. pen. 983 del 2017, in relazione ad un detenuto agli arresti domiciliari, in relazione alla cui condizione la Corte ha specificato che, diversamente, chi è sottoposto a detenzione domiciliare per periodi di carcerazione estranei alla pena in corso di espiazione, versando in una situazione assimilabile a quella di un soggetto libero, gode soltanto della più limitata tutela civilistica);

il ricorso va pertanto rigettato e le spese vanno compensate per la novità della questione;

non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater in quanto il ricorrente risulta ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Compensa integralmente tra le parti le spese di lite.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 13 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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