Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25408 del 10/10/2019

Cassazione civile sez. III, 10/10/2019, (ud. 13/03/2019, dep. 10/10/2019), n.25408

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29297-2016 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

B.M.;

– intimato –

avverso l’ordinanza n. 5919/2016 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il

11/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/03/2019 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

Fatto

RILEVATO

che:

con ricorso del 5 febbraio 2015 proposto davanti al Tribunale di Roma, B.M. chiedeva che fosse accertato il grave pregiudizio dei propri diritti soggettivi in violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, subito durante la detenzione presso la casa circondariale di Velletri dal 29 aprile 2009 al 6 agosto 2010, e dal 7 agosto 2010 al 15 gennaio 2014 presso la casa circondariale di Roma Rebibbia, e la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni da inumana detenzione, oltre alle spese di lite. Deduceva di essere stato detenuto presso tali istituti, e che le condizioni disumane dipendevano dal sovraffollamento della struttura, dal ridotto spazio disponibile all’interno delle stanze, occupate da più detenuti, dalla scarsa penetrazione di aria e di luce, dall’insufficienza dei pezzi igienico-sanitari, dall’inadeguatezza del riscaldamento e dalla mancanza di riservatezza, oltre che per la ridotta misura di ore d’aria.

il Ministero della Giustizia contestava nel merito l’avversa pretesa ed eccepiva la prescrizione del diritto al risarcimento ai sensi dell’art. 2697 c.c.;

il Tribunale di Roma, con decreto dell’11 maggio 2016, riteneva fondata l’eccezione di prescrizione per i periodi detentivi trascorsi sino al 5 febbraio 2010, in considerazione del termine quinquennale riferito al ricorso notificato il 5 febbraio 2015. Per i restanti periodi, dalla relazione della direzione della casa circondariale emergeva che la cella aveva una dimensione di 3,75 metri quadri, superiore a quella di 3 metri quadri ritenuta spazio vitale. Aggiungeva che tale area doveva sensibilmente ridursi perchè nel computo doveva inserirsi anche lo spazio occupato dal mobilio, con ciò aderendo all’orientamento della giurisprudenza che sosteneva tale impostazione. Conseguentemente, il Tribunale condannava il Ministero a corrispondere la somma di Euro 11.680, oltre accessori e spese di lite;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il Ministero di Giustizia affidandosi a due motivi. L’intimato non svolge attività in questa fase.

Diritto

RILEVATO

che:

con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 2935 e 2947 c.c., nonchè della L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 il Tribunale avrebbe rigettato l’eccezione proposta dal Ministero con riferimento alla domanda relativa al risarcimento dei danni subiti per il periodo di detenzione anteriore al quinquennio, a far data dalla proposizione del ricorso, accogliendo la domanda in relazione ai periodi anteriori al 6 febbraio 2010 e prospettando un termine quinquennale derivante dal rimedio risarcitorio. Al contrario parte ricorrente ritiene compatibile il rimedio previsto dal citato art. 35 ter con il termine di prescrizione quinquennale;

la censura non è chiara. Il Tribunale, in ogni caso, ha deciso uniformandosi alla costante giurisprudenza in materia di decorrenza del termine di prescrizione, rilevando che decorre da ogni giorno di detenzione, che il termine è quinquennale e che l’eccezione di prescrizione è fondata per il periodo di detenzione più risalente e cioè quello relativo al periodo anteriore ai cinque anni precedenti la notifica del ricorso (“il termine di prescrizione si è irrimediabilmente maturato in relazione al periodo detentivo trascorso sino al 5 febbraio 2010”). Pertanto la doglianza è inammissibile. Peraltro le sezioni unite hanno affermato che il termine è decennale, ma non essendovi ricorso da parte del B. la circostanza è irrilevante e non può essere presa in esame da questa Corte.

Il criterio è stato da ultimo confermato anche a Sezioni Unite (ad eccezione della durata decennale del termine, ma sul punto non vi è impugnazione) rilevando che il diritto ad una somma di denaro pari a otto Euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 CEDU, previsto della L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 3, come introdotto dal D.L. n. 92 del 2014, art. 1 conv. con modif. dalla L. n. 117 del 2014, si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria. Il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle suindicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del D.L. cit., rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dal D.L. n. 92 del 2014, art. 2 il termine comincia a decorrere solo da tale data (Sez. U, Sentenza n. 11018 del 08/05/2018, Rv. 648270 – 01).

Con il secondo motivo si deduce la violazione della L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, comma 3 e dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Rileva il Ministero che il ricorrente avrebbe avuto a disposizione uno spazio complessivo nella cella di metri quadri 10,17 e che la violazione riguardava i periodi in cui la cella era occupata da tre detenuti, affermando che nel calcolo della superficie disponibile non si debba tener conto di quella rappresentata dai servizi igienici. Al contrario nel conteggio non avrebbe dovuto essere sottratta l’area occupata dal mobilio presente nella cella.

Il motivo è inammissibile perchè non sembra riferirsi al presente giudizio poichè il Tribunale, a titolo esemplificativo (pagina tre) ha fatto riferimento alla cella singola della casa circondariale di Velletri di dimensioni 3 x 2,5 con uno spazio individuale teorico di metri quadri 3,75 detraendo lo spazio occupato dal mobilio (due letti, due armadietti, un tavolino e sgabelli) e pervenendo a uno spazio individuale effettivo di 2 metri quadri. A Rebibbia si trattava di uno stanzone di 40 metri quadri condiviso con altri 15 o 20 detenuti con a disposizione un solo bagno turco.

Il motivo è, altresì, inammissibile perchè non è specifico e tratta la questione in maniera teorica e non aderente al caso concreto; in ogni caso la censura è infondata trovando applicazione il principio che segue: in tema di risarcimento del danno L. n. 354 del 1975, ex art. 35-ter, comma 3, lo Stato incorre nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti nei confronti di soggetti detenuti o internati, stabilito dall’art. 3 CEDU, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte EDU, quando, in una cella collettiva, il detenuto non possa disporre singolarmente di almeno 3 mq. di superficie, calcolati detraendo l’area destinata ai servizi igienici e agli armadi appoggiati, o infissi, stabilmente alle pareti o al suolo ed anche lo spazio occupato dai letti (sia a castello che singoli), che riducono lo spazio libero necessario per il movimento, senza che, invece, abbiano rilievo gli altri arredi facilmente amovibili, come sgabelli o tavolini (Sez. 1 -, Sentenza n. 4096 del 20/02/2018, Rv. 647236 – 01).

Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; nulla per le spese perchè la pare intimata non ha svolto attività processuale in questa sede. Pur sussistendo le condizioni di quel D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, tale obbligo non va disposto in considerazione della natura di parte pubblica del Ministero ricorrente.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso, Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto dell’insussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 13 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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