Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25384 del 30/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 30/11/2011, (ud. 27/10/2011, dep. 30/11/2011), n.25384

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24322-2009 proposto da:

N.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO

INGHIRANI 24, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO PAOLO, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COOPERATIVA SOCIALE LIBERO NOCERA, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

COSTANTINO MORIN, 45, presso lo studio dell’avvocato TOSCANO GIUSEPPE

MARIA, rappresentata e difesa dall’avvocato SALMERI FERDINANDO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 864/2008 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 06/11/2008 R.G.N. 625/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/10/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato FEDERICO PAOLO; udito l’Avvocato SALMERI FERDINANDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Giudice del Lavoro del Tribunale di Reggio Calabria depositato il 7-2-2001 N.F. impugnava il licenziamento intimatogli dalla Cooperativa Sociale Libero Nocera con lettera del 3- 10-2000 assumendone l’illegittimità sia sotto il profilo formale che nel merito.

Lamentava, in particolare, la mancata affissione del codice disciplinare e la irrogazione della sanzione espulsiva prima del decorso dei cinque giorni, termine che faceva partire dal momento in cui aveva reso le proprie giustificazioni.

Nel merito, poi, negava di avere posto in essere le condotte ascrittegli ed, in via subordinata, deduceva la sproporzionalità tra il fatto contestato e la sanzione.

Il giudice adito, con sentenza n. 288/2005, accoglieva la domanda ritenendo la sproporzione tra fatto addebitato e sanzione.

La Cooperativa Sociale Libero Nocera proponeva appello avverso la detta sentenza.

Il N. si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria, con sentenza depositata il 6- 11-2008, in accoglimento dell’appello ed in riforma dell’impugnata sentenza, rigettava l’originaria domanda del N. e compensava le spese del doppio grado.

In sintesi la Corte territoriale, valutato il contenuto del verbale di audizione del 7-10-2000 e le dichiarazioni dei testi, riscontrata la sussistenza del fatto contestato (l’aver rivolto in presenza di testimoni pesanti offese al Presidente della Cooperativa, assumendo un atteggiamento intimidatorio nei suoi confronti e ponendo in essere tale comportamento a seguito della contestazione di un’altra infrazione), rilevava che dalle risultanze istruttorie si ricavava la convinzione che il N. avesse “avvicinato il Presidente della Cooperativa con l’intento immediato di polemizzare apertamente e provocarlo, e che ciò avvenisse intenzionalmente alla presenza degli altri dipendenti, per sminuirne così l’autorità ponendo in essere atteggiamento di aperta e pubblica contraddizione con il potere datoriale e gerarchico”.

La Corte riteneva, quindi, che la condotta del N. era stata grave ed aveva pregiudicato definitivamente il necessario rapporto di fiducia.

Per la cassazione di tale sentenza il N. ha proposto ricorso con tre motivi.

La Cooperativa Sociale Libero Nocera ha resistito con controricorso.

Il N. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, denunciando violazione degli artt. 2119 e 2697 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 5 nonchè vizio di motivazione, il ricorrente in sostanza deduce che il licenziamento non risultava giustificato atteso che “pur avendo lo stesso N. ammesso in sede sindacale di avere pronunciato frasi ingiuriose nei confronti del presidente della Cooperativa – negando peraltro drasticamente di aver assunto qualsiasi tipo di atteggiamento intimidatorio – era stata provata la circostanza che tali espressioni offensive sarebbero state a loro volta causate dall’atteggiamento irrispettoso del presidente, che aveva apostrofato il dipendente con l’assai poco garbata ed offensiva espressione di “buttati a mare”.

Il ricorrente evidenzia quindi che “le ingiurie poste in essere dal lavoratore dovevano essere valutate dalla Corte di merito, contestualmente al l’atteggiamento a sua volta offensivo del presidente, da cui dipendevano causalmente”, dovendo verificarsi la giusta causa in concreto, “avendo riguardo ai profili concreti della fattispecie considerata ed alle complessive circostanze oggettive e soggettive che la connotavano”.

Il licenziamento, quindi, secondo il ricorrente, risultava sproporzionato, “in quanto l’elemento della provocazione valeva certo a ridimensionare il disvalore della condotta assunta dal dipendente”.

Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., L. n. 300 del 1970, art. 7 e vizio di motivazione, il ricorrente deduce che la Corte d’appello “si è limitata ad una valutazione parziale dei fatti di causa, non valutando nè il passato, integerrimo del lavoratore, nè, tantomeno, l’ingiusto richiamo iniziale che allo stesso era stato rivolto, consistente nell’aver assunto una presunta posizione di riposo in una delle stanze della struttura durante il turno di lavoro”.

In sostanza, secondo il ricorrente, “il licenziamento impugnato avrebbe potuto trovare la propria giustificazione qualora “l’aggressione verbale” lamentata non avesse trovato una giustificazione nelle inopportune provocazioni subite”.

Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione, il ricorrente, deduce che “le motivazioni scarne, di cui alla sentenza, non consentono di comprendere da quali concreti e reali circostanze la Corte abbia tratto il proprio convincimento in ordine a punti fondamentali della vicenda, stante il fatto che gli elementi emersi dalla motivazione sono del tutto insufficienti e contraddittori”, “tali da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendo.

Tutti e tre i motivi, che in quanto strettamente connessi possono essere trattati congiuntamente, risultano in parte inammissibili ed in parte infondati.

Come è stato chiarito da questa Corte e va qui ribadito, “la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale e astratto. A tale processo non partecipa, invece, la soluzione del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma mediante una massima di giurisprudenza.

Ne consegue che, mentre l’integrazione giurisprudenziale della nozione di giusta causa a livello generale ed astratto si colloca sul piano normativo, e consente, pertanto, una verifica di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito, e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria” (v. Cass. 12-8-2009 n. 18247, cfr. Cass. 15-4-2005 n. 7838 e, da ultimo, Cass. 13-12-2010 n. 25144, Cass. 2-3-2011 n. 5095). Pertanto mentre “le specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge”, “l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici” (v. Cass. n. 25144/2010 cit.).

In particolare, poi, in tale ambito, “spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravita rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed alla sua durata ed all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia” (v. fra le altre Cass. 22-6-2009 n. 14586).

Nello stesso ambito infine, anche con riferimento a tale valutazione, non può che confermarsi il principio generale secondo cui “il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa”, (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6- 3-2006 n. 4766, Cass. 19-7-2006 n. 16531).

Peraltro, come pure in generale è stato precisato, “in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione dell’artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità” (v. fra le altre Cass. sez. I 20-6-2006 n. 14267).

Orbene nella fattispecie la Corte di merito, dopo aver richiamato e valutato nel dettaglio, le risultanze de verbale di audizione del 7- 10-2000 e della prova testimoniale, e dopo aver accertato la successione degli eventi, ha affermato che “dalle deposizioni si ricava la convinzione che il N. abbia avvicinato il presidente della Cooperativa con l’intento immediato di polemizzare apertamente e provocarlo, e che ciò avvenisse intenzionalmente alla presenza di altri dipendenti, per sminuirne così l’autorità ponendo in essere atteggiamento di aperta e pubblica contraddizione con il potere datoriale e gerarchico”.

In sostanza la Corte territoriale non ha affatto ignorato l’espressione adottata dal presidente nei confronti del N. (“buttati a mare”), ma ha accertato che la stessa era stata preceduta da un “insistente atteggiamento provocatorio” precedentemente tenuto dal lavoratore, il quale (dopo aver cercato “con tutti i mezzi di iniziare subito una discussione mostrandosi particolarmente insistente e non desistendo dal suo intento nè quando l’interlocutore non gli rispondeva, nè quando, per comprensibili ragioni di riservatezza, lo invitava a presentarsi nel suo ufficio”) aveva ulteriormente reagito con espressioni quanto meno oltremodo offensive (“faccia di porco”, “animale”), se non anche minacciose (“ti spacco in quattro”, come riferito “in forma dubitativa “dalla teste Na.).

La Corte di merito ha, quindi, ritenuto che la condotta tenuta dal lavoratore, dopo la precedente contestazione disciplinare, alla luce di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emersi, risultava grave e idonea a pregiudicare definitivamente il rapporto di fiducia necessario per la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Tale accertamento di fatto, in quanto conforme ai principi sopra richiamati e sostenuto da motivazione congrua e priva di vizi logici, resiste alle censure del ricorrente, le quali, del resto, si risolvono in una inammissibile richiesta di revisione del “ragionamento decisorio”, non sussumibile nel “controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Il ricorso va pertanto respinto.

Infine, considerato l’esito alterno delle fasi del giudizio di merito, ricorrono giusti motivi, ex art. 92 c.p.c., nel testo vigente ratione temporis, per compensare le spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2011

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