Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25381 del 25/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 25/10/2017, (ud. 15/06/2017, dep.25/10/2017),  n. 25381

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27796/2014 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CALABRIA 56,

presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI D’AMATO, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANDREA MONTI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ENAV S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio

dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato LORENZO CONFESSORE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 676/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 17/05/2014 R.G.N. 4162/12;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIANNI LUIGI VACCA per delega verbale Avvocato

ANDREA MONTI;

udito l’Avvocato LORENZO CONFESSORE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 17.5.2014 la Corte di appello di Roma rigettava l’appello proposto da M.M. avverso la sentenza n. 20684/2011 del Tribunale di Roma che aveva rigettato la domanda proposta dallo stesso Mancini di dichiarazione dell’illegittimità del recesso intimato dall’Enav spa con lettera del 6.11.2008 con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno. Al M., che negli ultimi anni svolgeva mansioni di Exchange administrator, era stato contestato, dopo alcune verifiche interne, di avere effettuato accessi non autorizzati utilizzando la sua password personale nel computer della collega G.C. prelevando anche alcuni files indicati nella lettera di contestazione; contestazione seguita poi, stante la gravità dei fatti, dal licenziamento per giusta causa. La Corte di appello riteneva non fondate le doglianze di parte appellante in ordine alla mancata prosecuzione della prova anche perchè la richiesta era da considerarsi del tutto generica; osservava ancora che non risultava impugnata in appello la statuizione di primo grado in ordine alla mancata violazione, nel corso delle indagini affidate ad agenzia investigativa, della L. n. 300 del 1970, art. 4, mentre si era fatto riferimento a normative penalistiche non applicabili e non si era considerato che, ad essere controllate, erano state le postazioni di due colleghi, non quella dell’appellante; le altre doglianze sul punto erano assolutamente generiche. Circa i fatti la Corte di appello ricordava quanto emerso dagli accertamenti che portavano a ritenere provato che gli indebiti accessi erano stati effettuati dal computer dell’appellante e da questi, anche alla luce dei riscontri testimoniali (testi D.M., D.G. e B., mentre non rilavante apparivano le dichiarazioni del teste F.). L’appellante come exchange administrator era autorizzato solo alla gestione della rete e non all’accesso ai dati; poteva operare sulla posta elettronica degli utenti ma sotto il mero profilo della gestione e configurazione della stessa, non aveva alcuna autorizzazione implicita o esplicita all’accesso ed al prelievo dei dati esistenti nella rete senza un’autorizzazione ad hoc come aveva dichiarato lo stesso teste F.. La condotta addebitata non era quella dell’ indebita divulgazione di notizie riservate, ma di due accessi abusivi, nè richiesti nè autorizzati sul pc della dipendente G. e l’altrettanto abusiva acquisizione dal detto pc di documenti aziendali riservati e protetti da misure di sicurezza contenenti dati personali relativi allo stato giuridico ed economico di altri dipendenti. La condotta, vista l’esperienza e la capacità tecnica dell’appellante, era chiaramente dolosa ed il lavoratore era stato anche rinviato a giudizio per questo. La condotta prima ricostruita era certamente idonea a rompere il rapporto fiduciario tra le parti (che implica l’affidamento da parte del datore di lavoro sulla serietà ed affidabilità di chi è preposto ai servizi informativi) visto che il M. aveva abusato della posizione lavorativa giungendo a sottrarre documenti riservati.

2. Per la cassazione propone ricorso il M. con sei motivi, resiste controparte con controricorso. Sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si allega il vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte in cui attribuisce maggior credibilità alle dichiarazioni dei testi Enav e non considera quelle dei testi di parte ricorrente. Non erano state adeguatamente considerate le censure proposte nell’atto di appello riguardanti le dichiarazioni rese dai testi.

2. Il motivo va dichiarato inammissibile in quanto non coerente con la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che non autorizza più censure motivazionali allorchè il “fatto” di cui si controverte sia già stato esaminato come nel caso in esame in cui le dichiarazioni testimoniali sono state esaminate nel loro complesso (cfr. cass. sez. un. n. 8053 e n. 8052 /2014): il motivo peraltro non è specifico ed è quindi inammissibile perchè non indica nemmeno quali sarebbero le dichiarazioni (e di quali testi) che non sarebbero state adeguatamente esaminate dalla Corte di appello.

3. Con il secondo motivo si allega il vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte in cui non ricostruisce correttamente le modalità di intercettazione telematica poste in essere da Enav come da relazione tecnica depositata dalla Società che, per la Corte, sarebbe coerente con quanto sostenuto dai testimoni mentre da tale relazione emergerebbe l’intercettazione di chiunque si collegasse ai computer attenzionati.

4. Il secondo motivo è inammissibile per le stesse ragioni del primo sviluppando censure di merito sotto il profilo del vizio motivazionale non coerenti con la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., (le modalità di intercettazione telematiche sono state già oggetto di accertamento da parte dei Giudici di merito); inoltre la relazione di cui si parla non è stata prodotta unitamente al ricorso ed è stata riprodotta solo in poche righe tra l’altro con puntini sospensivi sicchè il motivo è inammissibilmente non autosufficiente.

5. Con il terzo motivo si allega il vizio di motivazione nella parte in cui omette di motivare sulla legittimità delle perquisizione informatica eseguita dai consulenti Enav sul computer in suo al ricorrente documentata a pag. 5 paragrafo 2.8. relazione Enav.

6. Il motivo è doppiamente inammissibile in primo luogo perchè solleva un vizio di motivazione non coerente con la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, posto che le doglianze qui riproposte sono già state esaminate, in secondo luogo perchè il documento richiamato non è stato prodotto nè riprodotto, neppure nelle due parti significative, nel motivo.

7. Con il quarto motivo si allega il vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte in cui, valutando erroneamente la errata ricostruzione delle risultanze istruttorie compiute dal Giudice di primo grado, la Corte di appello ha ritenuto sussistere il fatto storico e la sua riferibilità al ricorrente con conseguente errata valutazione della gravità del comportamento e dell’imputazione della soccombenza.

8. Il motivo appare inammissibile posto che non viene denunciato il mancato esame di un “fatto” ma solo una pretesa sua non corretta valutazione: siamo quindi completamente fuori dalla figura del vizio motivazionale dopo la novella del 2012. Il “fatto ” e cioè l’accesso non autorizzato da parte dell’appellante nel pc di una collega e l’indebito prelievo di files è stato ampiamente esaminato con un accertamento che non poteva essere impugnato, visto la data in cui è stata depositata la sentenza impugnata, ex art. 360 c.p.c., a meno che la motivazione non fosse al di sotto del “minimo costituzionale”, il che certamente non è il caso di specie (cfr. Cass. sez. un. n. 8053 e 8052 /2014 cit.).

9. Con il quinto motivo si allega la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la sentenza erroneamente applicato il principio di diritto secondo il quale i controlli difensivi diretti a raccogliere prove della commissione di reati sono leciti anche se eseguiti senza l’assistenza di un difensore nominato ex art. 391 novies c.p.p., per l’esecuzione di indagini preventive.

10. Il motivo è infondato posto che la sentenza ha accertato che sono stati controllati solo i computer di alcuni colleghi dell’appellante con il consenso di costoro. Le norme citate si riferiscono a diverse situazioni di interesse penalistico, mentre la L. n. 300 del 1970, art. 4, risulta non violato secondo un accertamento di merito come tale insindacabile in questa sede (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).

11. Con il sesto motivo si allega la violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la sentenza erroneamente applicato il principio di diritto secondo cui nell’ambito di controlli difensivi è lecito eseguire autonomamente attività di intercettazione telematica sequestro e perquisizione informatica quando la gravità e la pericolosità per i diritti dei lavoratori di queste attività ne richiederebbero l’esclusiva esecuzione da parte dell’Autorità giudiziaria.

12. Il motivo è infondato posto che la sentenza impugnata ha escluso che sia stata commessa attività del genere di quella indicata al motivo nell’ambito delle indagini investigative (certamente rientranti nella categoria dei “controlli difensivi” come ricostruita da questa Corte) in quanto risultano, come da accertamento di merito, controllati solo i computer di alcuni colleghi del ricorrente: il motivo con cui si intendeva censurare questo profilo è stato, peraltro, già ritenuto inammissibile supra.

13. Si deve quindi rigettare il proposto ricorso: le spese di lite -liquidate come al dispositivo – seguono la soccombenza.

14. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4.500,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2017

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