Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25380 del 09/10/2019

Cassazione civile sez. I, 09/10/2019, (ud. 15/05/2019, dep. 09/10/2019), n.25380

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23813/2017 R.G. proposto da:

ACEA S.P.A., rappresentata dall’Avv. B.A., in

qualità di mandataria con rappresentanza della ARETI S.P.A. (già

Acea Distribuzione S.p.a.), rappresentata e difesa dall’Avv. Fabio

Lepri, con domicilio eletto in Roma, via Pompeo Magno, n. 2/b;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE, (già Comune di Roma), in persona del Sindaco p.t.,

rappresentata e difesa dall’Avv. Federica Graglia, con domicilio

eletto in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21, presso l’Avvocatura

capitolina;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 6081/16,

depositata il 14 ottobre 2016.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 15 maggio

2019 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Acea S.p.a., in qualità di mandataria con rappresentanza dell’Acea Distribuzione S.p.a., autorizzata all’apertura di uno scavo per la bonifica della rete di distribuzione dell’energia elettrica in (OMISSIS), convenne in giudizio il Comune di Roma, proponendo opposizione all’atto di avviso notificato il 28 settembre 2005, con cui era stato intimato alla mandante il pagamento della somma di Euro 215.500,00, a titolo di penale per violazione dell’art. 26, comma 5, del Regolamento Scavi Stradali, approvato con Delib. 17 maggio 2002, n. 56, a causa del ritardo nella restituzione delle aree occupate.

Premesso che il Regolamento applicabile ratione temporis era quello approvato con Delib. 26 maggio 1997, n. 91, l’attrice affermò che le penali previste dall’art. 19, non avevano natura contrattuale ma amministrativa, e chiese pertanto la disapplicazione di tale disposizione, sostenendo che il potere d’imporre sanzioni, conferito al Comune dal R.D. 3 marzo 1934, n. 383, art. 106, era venuto meno per effetto dell’abrogazione di detto decreto da parte del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267.

Si costituì il Comune, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.

1.1. Con sentenza del 4 novembre 2010, il Tribunale di Roma rigettò la domanda.

2. L’impugnazione proposta dall’Acea è stata parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Roma, che con sentenza del 14 ottobre 2016 ha rideterminato la somma dovuta in Euro 27.269,22, oltre interessi legali dal 28 settembre 2005.

Premesso che l’obbligo di riconsegnare le aree dopo l’esecuzione delle opere autorizzate aveva la sua fonte nella concessione di suolo pubblico rilasciata il 26 aprile 2002, mentre l’autorizzazione risaliva al 21 maggio 2002, ed era quindi successiva all’approvazione del Regolamento n. 56 del 2002, la Corte ha rilevato che la concessionaria si era obbligata al rispetto delle condizioni previste dal Regolamento n. 91 del 1997, e quindi anche alle penali previste dall’art. 19, vigente alla data di rilascio della concessione.

Ha ritenuto tuttavia che ciò non comportasse il mutamento della natura privatistica della penale prevista per il ritardo nella riconsegna dell’area, trattandosi di un obbligo assunto dal privato e di fondamentale importanza per il Comune, al fine di stabilire che la strada poteva essere aperta al pubblico, senza pericoli di alcun genere. Rilevato inoltre che l’art. 19 del Regolamento prevedeva chiaramente la natura civilistica delle penali, riconducibili all’art. 1382 c.c., ha affermato che la disciplina del rapporto di concessione poteva ben contenere un regolamento negoziale, volto a regolare un assetto contrattuale che prescindeva del tutto dai poteri autoritativi della Amministrazione, e vedeva le parti in posizione di assoluta parità, avendo l’Amministrazione interesse a rientrare nella disponibilità del bene pubblico, da destinare al suo uso naturale.

Escluso inoltre che possano considerarsi di per sè nulle le clausole negoziali imposte dal contraente più forte ed accettate dall’altro contraente, e precisato che la clausola penale ha la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale, ha rilevato che nella specie la penale era volta a risarcire il Comune per la tardiva riconsegna dell’area interessata dalla posa dei cavi, che aveva ritardato il controllo dell’agibilità della strada, ai fini della restituzione all’uso collettivo: ha ritenuto quindi giustificata la mancata riduzione ad equità ed irrilevante la verifica della tempestiva ultimazione dei lavori, osservando che, nonostante il rispetto del termine previsto dall’autorizzazione, l’area era rimasta nella materiale disponibilità dell’Acea, con la conseguente concretizzazione del ritardo.

Premesso infine che, come riconosciuto dal Comune, il ritardo si era protratto per settantasei giorni, detratti dieci giorni di tolleranza, e rilevato che il Regolamento del 1997 fissava l’importo della penale in Lire 800.000 per ogni giorno di ritardo, la Corte ha rideterminato la somma complessivamente dovuta in Euro 27.269,22, oltre interessi dalla costituzione in mora.

3. Avverso la predetta sentenza l’Acea ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi, illustrati anche con memoria. Ha resistito con controricorso Roma Capitale (già Comune di Roma).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione della L. 24 novembre 1989, n. 681, art. 1, art. 23 Cost., D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, artt. 25 e 26, D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, artt. 65,66 e 67, R.D. n. 383 del 1934, art. 106, D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 274, L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 1-bis, L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, e degli artt. 1362 e 1363 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver qualificato come penale civilistica una prestazione imposta jure imperii dal Comune, ed avente natura di sanzione amministrativa. Premesso infatti che il rapporto traeva origine da un’occupazione di sede stradale autorizzata per l’effettuazione di lavori di scavo e posa in opera di condutture idriche, afferma che la prestazione trovava fondamento in un’imposizione autoritativa dell’Ente, afferente al rapporto di concessione ed autorizzazione, ed esulava quindi dal novero delle prestazioni negoziali. Aggiunge che la natura pubblicistica della prestazione non era esclusa dall’accettazione degli obblighi e delle condizioni previsti dal Regolamento del 1997, la quale si inseriva pur sempre nel rapporto concessorio ed autorizzatorio, e non era quindi qualificabile come accettazione in senso negoziale, ma costituiva una semplice presa d’atto degli obblighi imposti per la fruizione dell’area, ivi comprese le sanzioni unilateralmente predeterminate dal Comune. Afferma inoltre che l’attività sanzionatoria non può non risentire del carattere autoritativo dei provvedimenti ai quali afferisce, nel rilascio dei quali l’Amministrazione non agisce jure privatorum, ma jure imperii, previa valutazione del pubblico interesse: è quanto accade anche in tema di autorizzazione allo scavo su suolo pubblico, volta a contemperare il diritto dell’ente gestore di operare sui propri impianti interrati con l’interesse collettivo alla fruizione della strada, per la cui tutela il Regolamento consente al Comune, in caso di ritardo, di disporre la revoca dell’autorizzazione ed il ripristino dello stato dei luoghi. Nella specie, d’altronde, la natura amministrativa della sanzione era desumibile anche dall’applicazione dei comuni criteri ermeneutici, ed in particolare dal tenore letterale e dall’interpretazione complessiva dell’art. 19 del Regolamento, che avrebbe dovuto indurre alla disapplicazione di tale disposizione. All’epoca in cui fu irrogata la penale, la potestà sanzionatoria del Comune, già prevista dal R.D. n. 383 del 1934, art. 106, era infatti venuta meno, per effetto dell’abrogazione disposta dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 274, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 23 Cost. e della L. n. 689 del 1981, art. 1, i regolamenti comunali non erano abilitati ad introdurre sanzioni che non fossero previste da una norma di legge; soltanto in seguito la L. 16 gennaio 2003, n. 3, art. 16, ha inserito nel D.Lgs. n. 267, art. 7-bis, il quale è però privo di efficacia retroattiva.

1.1. Il motivo è infondato.

E’ pur vero, infatti, che la potestà sanzionatoria dei Comuni per la violazione delle norme contenute nei regolamenti comunali, già prevista dal R.D. n. 383 del 1934, art. 106, è venuta meno per effetto dell’abrogazione di tale disposizione, prevista dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 274 (non potendosi ritenere mantenuta in vita in virtù del mero rinvio alle norme dell’a-brogato testo unico contenuto nel D.Lgs. n. 267 cit., art. 275), ed è stata nuovamente istituita soltanto con il D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 7-bis, introdotto dalla L. n. 3 del 2003, con la conseguenza che, anche alla stregua della L. n. 689 del 1981, art. 1, che ha esteso il principio della riserva di legge alla materia delle sanzioni amministrative, devono considerarsi esenti da sanzione le violazioni commesse nel periodo compreso tra l’abrogazione del R.D. n. 383 del 1934 e l’entrata in vigore del citato art. 7-bis (cfr. Cass., Sez. II, 26/03/2009, n. 7371).

Nella specie, tuttavia, al di là del preliminare rilievo dell’avvenuta accettazione delle penali sotto la vigenza del regolamento comunale n. 91 del 1997 (da ritenersi certamente errato, in quanto l’abrogazione dell’art. 106 cit. aveva comportato il venir meno della norma primaria che ne costituiva il fondamento), la fonte della penale applicata alla ricorrente è stata ravvisata dalla sentenza impugnata nell’accordo delle parti, essendo stato rilevato che il Comune aveva espressamente condizionato il rilascio della concessione all’accettazione da parte dell’Acea delle clausole contenute nel regolamento, alle quali è stata pertanto riconosciuta efficacia negoziale, nonostante l’inquadramento delle stesse in un rapporto di tipo pubblicistico. Premesso infatti che la disciplina di un rapporto derivante da un provvedimento di concessione può ben contenere un regolamento negoziale, fonte di diritti ed obblighi delle parti regolati esclusivamente dal diritto privato, la Corte territoriale ha evidenziato da un lato la natura civilistica testualmente attribuita dal regolamento alla penale prevista dall’art. 19, dall’altro l’interesse presidiato dalla relativa pattuizione, consistente nell’immediato riacquisto della disponibilità materiale dell’area al termine dei lavori di scavo, concludendo per l’estraneità di tale aspetto del rapporto all’area dei poteri autoritativi spettanti all’Amministrazione.

L’ammissibilità di siffatte pattuizioni nell’ambito di rapporti di tipo concessorio è ricollegabile alla natura complessa della fattispecie della concessione-contratto, con la quale la Pubblica Amministrazione, sia pure sulla base di un proprio provvedimento, attribuisce ad un soggetto privato la facoltà di svolgere un’attività che di regola si accompagna al trasferimento al concessionario di funzioni pubblicistiche, ma che in concreto può anche prescinderne: tale figura, come precisato da questa Corte, è caratterizzata dalla contemporanea presenza di elementi pubblicistici e privatistici, per effetto della quale, come si è detto, un soggetto privato può divenire titolare di prerogative pubblicistiche, mentre l’Amministrazione viene a trovarsi in una posizione particolare e privilegiata rispetto all’altra parte, in quanto dispone, oltre che dei pubblici poteri che derivano direttamente dalla necessità di assicurare il pubblico interesse in quel particolare settore al quale inerisce la concessione, anche dei diritti e delle facoltà che nascono comunemente dal contratto (cfr. Cass., Sez. III, 25/09/1998, n. 9594; 3/09/1998, n. 8768), tra i quali può essere previsto anche quello di esigere dalla controparte il pagamento di una penale in caso d’inadempimento degli obblighi posti a suo carico. La stessa giurisprudenza amministrativa, pur osservando che il rapporto fondato sulla concessione-contratto, proprio in ragione delle peculiarità originate dall’inerenza all’esercizio di pubblici poteri, non ricade in modo immediato, e tanto meno integrale, nell’ambito di applicazione delle disposizioni del codice civile, non ha escluso in linea di principio la legittimità della previsione di clausole penali: ha infatti evidenziato la riferibilità della disciplina dettata dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 11, anche ad accordi con contenuto patrimoniale, ma afferenti al previo esercizio di potestà pubbliche, confermando l’applicabilità agli stessi dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, ai sensi dei commi secondo e quarto dell’art. 11 cit., e limitandosi a precisare che, ove manchi ogni substrato patrimoniale, l’immanenza dell’esercizio di pubbliche potestà e le finalità di pubblico interesse cui le predette potestà sono teleologicamente orientate impongono necessariamente un adattamento dei predetti principi; ha osservato in proposito che, nelle ipotesi di esercizio di un potere amministrativo ampliativo della sfera giuridica dei privati (e quindi non solo concessorio, ma anche autorizzatorio), pur essendo chiara la natura latamente contrattuale dell’atto bilaterale, volto a regolare aspetti patrimoniali, l’inosservanza delle condizioni concordate si riflette sull’interesse pubblico che costituisce la causa della concessione o dell’autorizzazione ed il fine al quale dev’essere orientata l’azione del concessionario (al di là delle ovvie finalità individuali), con la conseguenza che la penale svolge una duplice funzione, quella di sanzione per l’interesse pubblico violato e quella più squisitamente civilistica di determinazione preventiva e consensuale della misura del risarcimento del danno derivante dall’inadempimento o dal ritardo nell’adempimento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3/12/2015, n. 5492).

In un siffatto contesto, contraddistinto dalla compresenza di profili sovraindividuali ed aspetti strettamente patrimoniali strettamente intrecciati tra loro, il cui modo di atteggiarsi in concreto dipende dalle caratteristiche specifiche della fattispecie e la cui disciplina è destinata a confluire nell’accordo complessivamente raggiunto tra le parti, pretendere di ravvisare il fondamento della penale nel potere sanzionatorio attribuito agli enti territoriali per garantire il rispetto delle disposizioni dettate dai rispettivi regolamenti, con le conseguenti ripercussioni in termini di assoggettamento al principio della riserva di legge, soprattutto ai fini della determinazione della sanzione, significa voler ignorare la complessità degli accordi di cui al L. n. 241 del 1990, art. 11 e la loro autonomia rispetto al potere regolamentare dei predetti enti, nonchè la natura prettamente pubblica degl’interessi presidiati dalle sanzioni contemplate in passato dal R.D. n. 383 del 1934, art. 106 ed oggi dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 7-bis, che impone di riconoscere alle stesse una funzione radicalmente diversa da quella di una penale contrattualmente concordata. Nella specie, d’altronde, la stessa ricorrente, pur ponendo in risalto i poteri autoritativi riservati al Comune per l’ipotesi dell’inadempimento dell’accordo, è costretta ad ammettere che quest’ultimo era volto a contemperare il diritto dell’Acea di operare sui propri impianti interrati, in qualità di gestore dei servizi pubblici, e l’interesse collettivo alla fruizione della strada, cui occorre aggiungere quello prevalentemente patrimoniale ad un corretto ripristino dello stato dei luoghi, nonchè l’interesse dello stesso Comune al funzionamento dei predetti servizi. Nella interpretazione dell’accordo, non occorre infatti trascurare la particolarità della posizione dell’Acea Distribuzione, la quale non era un qualsiasi soggetto privato intenzionato ad eseguire lavori nel sottosuolo della strada pubblica per finalità esclusivamente individuali, ma una società cui era affidata la gestione del servizio di distribuzione dell’energia elettrica nel territorio comunale, nonchè una controllata dell’Acea, avente a sua volta come azionista di riferimento proprio il Comune. A ciò occorre aggiungere l’innegabile convenienza per l’Amministrazione dell’inserimento di una clausola penale nel regolamento del rapporto autorizzatorio, sia pure attraverso un rinvio recettizio all’art. 19 del Regolamento Scavi, in modo tale da tutelarsi contro l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento delle condizioni imposte alla società autorizzata, nonchè da liquidare anticipatamente il pregiudizio dallo stesso derivante, e ciò anche al fine di sopperire all’intervenuta abrogazione del R.D. n. 383 del 1934, art. 106, che, escludendo l’operatività delle sanzioni previste dal Regolamento, aveva lasciato privo di tutela l’interesse collettivo sotteso all’autorizzazione dell’attività di scavo.

Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha conferito rilievo per un verso al tenore letterale della norma regolamentare recepita nell’accordo, che attribuiva espressamente natura civilistica alle penali contemplate per il caso dell’inadempimento, prevedendone l’applicazione in aggiunta alle altre sanzioni, e per altro verso all’assetto complessivo degli interessi coinvolti nella fattispecie autorizzatoria, in tal modo pervenendo all’esclusione della riconducibilità della penale all’abrogato del R.D. n. 383 del 1934, art. 106, ed al conseguente rigetto della richiesta di disapplicazione formulata dalla ricorrente.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce, in via subordinata, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1364,1370 e 1371 c.c., osservando che, in quanto volto ad assicurare la disponibilità della strada per l’uso collettivo, l’art. 19 del Regolamento comunale prevedeva l’applicazione della penale esclusivamente in caso di ritardo nell’ultimazione dei lavori, e non anche in caso di ritardo nella relativa comunicazione. In tal senso deponevano sia la lettera della clausola, sia la disciplina dalla stessa complessivamente dettata, non applicabile in via analogica, trattandosi di sanzione afflittiva; la predisposizione unilaterale della clausola da parte del Comune ne imponeva d’altronde l’interpretazione contra auctorem, mentre la natura onerosa del rapporto richiedeva che fosse assicurato un equo contemperamento degli interessi delle parti.

2.1. Il motivo è infondato.

Nel ricollegare l’applicazione della penale al ritardo nella riconsegna dell’area interessata dalla posa dei cavi, indipendentemente dall’avvenuta ultimazione dei lavori nel termine previsto dall’autorizzazione, la sentenza impugnata ha correttamente conferito rilievo alla ratio del predetto termine, consistente nell’assicurare il riacquisto della piena disponibilità dell’area da parte dell’Amministrazione, in modo da destinarla nuovamente all’uso collettivo, evidenziando la necessità, a tal fine, di un preventivo controllo della agibilità della stessa, che non avrebbe potuto aver luogo in assenza della comunicazione da parte della società autorizzata dell’avvenuta ultimazione dei lavori.

Tale interpretazione, apparentemente contraria alla lettera della clausola, nella quale si faceva riferimento a “lavori eseguiti oltre il termine di ultimazione fissato nell’autorizzazione”, deve considerarsi in realtà conforme al tenore complessivo dell’accordo intervenuto tra le parti e degl’interessi allo stesso sottesi, come ricostruiti dalla sentenza impugnata: essa può quindi ritenersi rispettosa del dettato dell’art. 1363 c.c., in virtù del quale il giudice non può arrestarsi ad una considerazione atomistica delle singole clausole, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta senza incertezze sulla base del senso letterale delle parole, dal momento che il relativo significato dev’essere ricostruito in base all’intero testo della dichiarazione negoziale, onde le varie espressioni che in essa figurano vanno coordinate fra loro e ricondotte ad armonica unità e concordanza (cfr. Cass., Sez. V, 30/01/2018, n. 2267; Cass., Sez. I, 4/05/2011, n. 9755; 14/04/2006, n. 8876). E’ noto d’altronde che, sebbene i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., siano governati da un principio di gerarchia interna, in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi, tanto da escluderne la concreta operatività quando l’applicazione dei primi risulti da sola sufficiente a rendere palese la volontà negoziale, la necessità di ricostruire quest’ultima senza limitarsi al senso letterale delle parole, impone di tenere conto di tutti gli elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, e segnatamente del criterio funzionale, che attribuisce rilievo alla ragione pratica dell’atto, in conformità agli interessi che si sono intesi tutelare mediante la dichiarazione negoziale (cfr. Cass., Sez. III, 22/11/2016, n. 23701; 6/07/2018, n. 17718).

Non può condividersi, in contrario, il richiamo della ricorrente al criterio di cui all’art. 1370 c.c., per la cui applicazione non è sufficiente che l’intero testo del contratto sia stato predisposto da uno dei contraenti e l’altra parte si sia limitata a prestarvi adesione, come si afferma che sarebbe accaduto nel caso di specie, ma è necessario anche che lo schema negoziale fosse precostituito e le condizioni generali siano state predisposte mediante moduli e formulari, al fine di poter essere utilizzate in una serie indefinita di rapporti (cfr. Cass., Sez. III, 27/05/2003, n. 8411; 8/03/2001, n. 3392). Quanto infine all’art. 1371 c.c., che impone di interpretare il contratto nel senso meno gravoso per l’obbligato, se è a titolo gratuito, e nel senso che esso realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, se è a titolo oneroso, tale criterio ha carattere espressamente supplementare, ed è quindi applicabile soltanto nel caso in cui, malgrado il ricorso a tutti gli altri criteri previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg., la volontà delle parti rimanga dubbia (cfr. Cass., Sez. III, 23/06/2014, n. 14206; Cass., Sez. I, 6/11/2008, n. 26626; Cass., Sez. lav., 4/01/1995, n. 74): esso deve ritenersi pertanto inutilizzabile nel caso in esame, essendo il Giudice di merito pervenuto ad una plausibile ricostruzione della volontà negoziale attraverso l’utilizzazione degli altri criteri ermeneutici, e non essendo consentito a questa Corte un sindacato sui risultati raggiunti, alla stregua del mero squilibrio asseritamente determinato dalla predetta interpretazione in danno di uno dei contraenti (cfr. Cass., Sez. II, 28/07/2000, n. 9921).

3. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 15 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2019

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