Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25379 del 25/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 25/10/2017, (ud. 14/06/2017, dep.25/10/2017),  n. 25379

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amalia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11934-2016 proposto da:

C.T., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BORGO PIO

44, presso lo studio dell’avvocato STEFANO SACCHETTO, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUCA PUSATERI, ANDREA

ZUCCOLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DI BACINO “LAGUNA DI VENEZIA”, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CRESCENZIO 58, presso lo studio dell’avvocato BRUNO COSSU, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARIA LUISA MIAZZI,

CARLO CESTER, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 560/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 13/11/2015 R.G.N. 559/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/06/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANDREA ZUCCOLO;

udito l’Avvocato BRUNO COSSU.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’ing. C.T., titolare di incarico dirigenziale quale Direttore dall’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale A.A.T.O. “Laguna di Venezia” (ora Consiglio di Bacino “Laguna di Venezia”), in esito a giudizio penale, conclusosi con sentenza di patteggiamento alla pena di due anni di reclusione per il reato di concussione, riceveva in data 4 giugno 2012 dal competente Ufficio disciplinare la contestazione di addebito di cui all’art. 7, comma 9, punto 2, lett. c), punti 1 e 3 CCNL Personale Dirigente del Comparto Regioni e Autonomie locali. L’audizione a difesa, originariamente fissata per il 2 agosto 2012, veniva differita, per impedimento del ricorrente, al 6 settembre 2012. In tale occasione il ricorrente eccepiva l’illegittimità della composizione e della costituzione dell’Ufficio disciplinare e la decadenza dall’azione. Seguiva il licenziamento senza preavviso del 27 settembre 2012, impugnato con lettera del 19 ottobre 2012.

2. In sede giudiziale, il C. deduceva l’illegittimità del licenziamento disciplinare: a) per essere stato il relativo procedimento avviato ed istruito dall’Ufficio per i procedimenti disciplinari della Provincia di Venezia costituito in violazione delle disposizioni regolatrici, che ne prevedevano la composizione con personale munito di laurea in discipline giuridiche, mentre uno dei componenti dell’ufficio, il dott. B.G., era laureato in economia e commercio; b) per essere la contestazione tardiva rispetto al termine di quaranta giorni dalla notizia dell’infrazione; c) per essere il licenziamento stato intimato oltre il termine di centoventi giorni previsto per la conclusione del procedimento dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4.

3. Il Giudice del lavoro del Tribunale di Venezia respingeva la domanda e la sentenza veniva confermata dalla Corte di appello di Venezia sulla base delle seguenti considerazioni.

3.1. Nè il Regolamento sull’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi della Provincia di Venezia, nè il D.Lgs. n. 165 del 2001 in materia procedimento disciplinare prevedono che, all’eventuale irregolarità della costituzione dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari, consegua l’illegittimità dell’intero procedimento e della sanzione irrogata all’esito. In ogni caso, la mancanza di uno dei requisiti richiesti per la nomina, riferito alla laurea in discipline giuridiche da parte di uno solo dei componenti dell’ufficio, non poteva risolversi in un vizio della costituzione dell’organo collegiale, in quanto il possesso del titolo di studio da parte degli altri componenti garantiva che l’organo collegiale agisse sulla base di quelle conoscenze giuridiche la cui rilevanza era stata rimarcata dall’appellante.

3.2. Quanto alla previsione di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4, il termine era stato rispettato, poichè la contestazione disciplinare era stata effettuata il 4 giugno 2012 e il termine decorreva dal 7 maggio 2012, ossia dal momento in cui l’U.p.d. aveva acquisito la sentenza penale nella sua interezza, completa di dispositivo e di motivazione, non potendosi condividere la tesi dell’appellante secondo cui il termine doveva decorrere dal 12 aprile 2012, quando l’Ufficio aveva dichiarato di essere venuto a conoscenza del solo dispositivo della sentenza di patteggiamento. Era nuova – e dunque inammissibile – l’eccezione di tardività formulata con riferimento ad un precedente iter disciplinare, relativo ai fatti di cui alla richiesta di rinvio a giudizio, conclusosi con archiviazione; l’eccezione di tardività formulata in giudizio era stata prospettata con esclusivo riferimento al rilievo per cui l’acquisizione della notizia era da riferire al dispositivo della sentenza di patteggiamento e non alla sua motivazione. Era comprovato in giudizio che soltanto il 7 maggio 2012 l’U.p.d. acquisì la sentenza di suddetta, così venendo posto nelle condizioni di formulare la contestazione come poi eseguita.

3.3. Quanto alla decadenza dall’azione disciplinare per tardività della conclusione del procedimento in relazione al mancato rispetto del termine di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4, occorreva considerare che al termine di legge, decorrente dall’acquisizione della notizia dell’infrazione, avvenuta il 7 maggio 2012, si doveva aggiungere il differimento concesso per il termine a difesa, chiesto dall’incolpato D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55-bis, comma 2. Non poteva condividersi la pretesa del ricorrente di limitare la proroga del termine alla stessa durata dell’impedimento (gg. 13, dal 2 al 14 agosto); se a causa di un impedimento del dipendente viene concesso un differimento del termine difesa, la proroga corrisponde al differimento concesso. Nella fattispecie, era pacifico che il differimento dell’audizione dell’incolpato era conseguito ad una richiesta di rinvio formulata dal dipendente per lo stato di malattia protrattosi fino al 14 agosto.

3.4. Restavano assorbite le restanti censure concernenti un secondo licenziamento irrogato 17 dicembre 2012, la cui disamina era in concreto superflua per il fatto che il rapporto tra le parti era già definitivamente e legittimamente venuto meno in forza del primo licenziamento del 27 settembre 2012.

4. Per la cassazione di tale sentenza il C. propone ricorso affidato a otto motivi. Resiste con controricorso il Consiglio di Bacino “Laguna di Venezia”, che ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I primi quattro motivi denunciano error in iudicando, in relazione al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 1, art. 55-bis, commi 1 e 4, all’art. 107, comma 3, Regolamento sull’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi della Provincia di Venezia, nonchè error in procedendo per nullità della sentenza in relazione all’art. 132 c.p.c. e all’art. 118 disp. att. c.p.c.. Il procedimento disciplinare era viziato per illegittima costituzione dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari, in quanto il suo componente dott. Giovanni Braga non possedeva il titolo prescritto, ossia la laurea in giurisprudenza; la previsione della norma regolamentare non consentiva equipollenti. Poichè la disciplina del procedimento dettata dall’articolo 55-bis, comma 4, cit. è norma imperativa, ne consegue che l’illegittima composizione dell’U.p.d. deve essere sanzionata con la nullità, poichè la violazione di norme imperative è sempre colpita nullità “salvo che la legge non disponga diversamente” (art. 1418 c.c.). Se è vero che è la fonte normativa inferiore (quella regolamentare) a porre la regola da osservare in concreto, nondimeno è la fonte legislativa (dalla prima integrata) a imporne l’osservanza. La composizione del Collegio di disciplina in difformità dalla prescrizione regolamentare si risolve in violazione del citato precetto di legge, che appunto costituisce norma imperativa, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55. La sentenza impugnata si basava su una motivazione apparente per non avere enunciato le ragioni poste a base del rigetto della tesi sostenuta dall’appellante e per avere apoditticamente affermato l’idoneità del titolo costituito dalla laurea in economia e commercio. Neppure condivisibile era l’assunto secondo cui la legittimità della costituzione del collegio dipenderebbe dagli altri componenti dell’ufficio, posto che l’organo collegiale deve necessariamente essere pluripersonale e come tale deve operare.

2. Con il quinto, il sesto e il settimo motivo si denuncia error in procedendo ed error in iudicando in relazione al rigetto dell’eccezione di decadenza dall’azione disciplinare per tardività della contestazione dell’addebito. La sentenza erroneamente aveva affermato che non era stata impugnata l’affermazione del primo Giudice secondo cui la data di acquisizione della notizia dell’infrazione si ebbe il giorno 7 maggio 2012. Inoltre, il dispositivo della sentenza di patteggiamento alla pena di due anni di reclusione per il delitto di corruzione propria era sufficiente a costituire notizia del fatto disciplinarmente rilevante. L’esito del giudizio penale, nella sua oggettività, era conosciuto dall’Ufficio per i procedimenti disciplinari sin dall’8 marzo 2012 e, di conseguenza, era tardiva la contestazione effettuata soltanto il 4 giugno 2012.

3. Con l’ottavo motivo si denuncia error in iudicando quanto al rigetto dell’eccezione di decadenza dall’azione disciplinare per tardività della conclusione del procedimento, in relazione al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4. Il provvedimento conclusivo del procedimento era stato assunto dall’Amministrazione appellata il giorno 27 settembre 2012 e notificato il giorno 28 settembre, a distanza di centoquarantaquattro giorni dalla data dell’acquisizione della notizia dell’infrazione, secondo la stessa interpretazione fornita dalla Corte territoriale. Nella fattispecie, il differimento era stato richiesto sulla scorta di un impedimento del dipendente di soli dodici giorni. Nè potrebbe accogliersi la tesi della Corte territoriale secondo cui sarebbe rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione la durata del differimento.

4. I motivi di ricorso sono infondati.

5. Dal comma 4 dell’art. 55-bis, introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009, si evince che ciascuna Pubblica Amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari e che tale ufficio “contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento…”. Ai sensi dell’art. 55-bis, quarto comma, del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, tutte le fasi del procedimento disciplinare relative alle infrazioni di maggiore gravità devono essere svolte esclusivamente dall’Ufficio per i procedimenti disciplinari (U.P.D.), il quale è anche l’organo competente alla irrogazione delle relative sanzioni. Il procedimento instaurato da un soggetto diverso dal predetto ufficio è illegittimo e la sanzione è affetta da nullità, risolvendosi in una violazione di norme di legge inderogabili sulla competenza (v. per tutte: in epoca più risalente Cass. 5 febbraio 2004 n. 2168; v. altresì per applicazioni più recenti, nella vigenza del regime di cui al D.Lgs. n. 150 del 2009, Cass. n. 11632 del 2016, n. 22487 dei 2016, n. 1753 del 2017). Devono nondimeno distinguersi le regole legali sulla competenza da quelle regolamentari che disciplinano la costituzione, e il funzionamento dell’organo collegiale secondo l’ordinamento interno di ciascuna Pubblica Amministrazione, per le quali occorre procedere di volta in volta ad una specifica disamina.

5.1. il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 1, prevede che le disposizioni contemplate dal medesimo articolo e da quelli seguenti, fino all’art. 55-octies, “costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2”, per cui – in relazione ai fatti disciplinarmente rilevanti ai quali si applica ratione temporis la riforma – non possono più trovare applicazione le previsioni contrattuali difformi, ossia quelle che dettano regole diverse da quelle ricavabili in via diretta dalle previsioni legali. Dal combinato disposto dell’art. 55, comma 1 e dell’art. 55-bis, comma 4 si desume il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i procedimenti disciplinari, ma è rimessa a ciascuna Pubblica Amministrazione, secondo le proprie peculiarità, l’individuazione dell’organo legittimato ad esercitare il potere disciplinare. Il carattere imperativo riguarda, dunque, la non derogabilità della disciplina legale ad opera dell’autonomia negoziale (come è noto uno degli obiettivi della riforma di cui al D.Lgs. n. 150 del 2009 è la riaffermazione della centralità della Legge in materia disciplinare).

5.2. Nel caso in esame, è del tutto pacifico che il procedimento venne istaurato e concluso dall’Ufficio che, secondo la normativa regolamentare interna del’Ente, era l’ufficio “competente” e tanto è sufficiente ad escludere ogni ipotesi di nullità del procedimento, che non è prevista nè dal Regolamento, come interpretato dalla Corte territoriale, nè dal D.Lgs. n. 165 del 2001, che certo non attribuisce natura imperativa “riflessa” al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’U.p.d..

5.3. Nel caso in esame, la circostanza che uno dei tre componenti dell’organo collegiale fosse laureato in economia e commercio e non in giurisprudenza è stato ritenuto dalla Corte di appello, alla stregua dell’interpretazione complessiva delle previsioni regolamentari, una mera irregolarità, come evidenziato in narrativa. L’interpretazione che la Corte territoriale ha fornito del Regolamento sull’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi della Provincia di Venezia, suscettibile di essere censurata solo per vizi di ermeneutica negoziale, non ha formato oggetto di una specifica denuncia sotto tale profilo.

5.4. Deve osservarsi, al riguardo, che l’interpretazione di un negozio giuridico, costituisce un accertamento di fatto istituzionalmente riservato al giudice di merito. L’erroneità di tale interpretazione per violazione dei canoni ermeneutici impone al ricorrente di indicare sia la regola interpretativa violata, sia in qual modo il ragionamento del giudice si sia da essa discostato, non potendo la relativa censura limitarsi ad un generico richiamo alla violazione di uno o più criteri astrattamente intesi ovvero ad una mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza (cfr. ex plurimis, Cass. n. 1893 del 2009, n. 29322 del 2008, nn.18661, 12786, 3015 e 696 del 2006, n.8293 del 2005).

6. Anche il secondo motivo è infondato.

6.1. Come recentemente affermato da questa Corte (Cass. n. 7134 del 2017), con principio cui si intende dare continuità, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55-bis, comma 4), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte costituzionale (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione; ciò vale anche nell’ipotesi in cui il procedimento predetto abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in corso un procedimento penale, per cui sarebbe ammessa la sospensione del primo, e che, comunque, ai fini disciplinari, vanno valutati in modo autonomo e possono portare anche al licenziamento del dipendente.

6.2. La censura verte sulla omessa considerazione di fatti che, se valorizzati dal giudice di merito e ad avviso del ricorrente, avrebbero consentito di retrodatare il dies a quo del termine per la contestazione disciplinare. Tale tesi muove da una diversa ricostruzione degli elementi di fatto ritenuti decisivi e non verte, contrariamente alla natura del vizio denunciato, all’interpretazione e applicazione alla fattispecie di norme di legge o di contratto collettivo.

6.3. Al riguardo, va ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.

6.4. La Corte di appello, sulla base delle risultanze istruttorie, ha affermato che il momento della completa conoscenza dei fatti da parte dell’Amministrazione, nei termini di cui alla contestazione poi mossa al ricorrente, si ebbe solo nel momento in cui l’Ente acquisì copia della sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. completa di motivazione e dispositivo. La ricostruzione del momento della conoscenza dei fatti è questione di merito e non ricade negli errores in procedendo, nè negli errores in iudicando denunciati con quinto, il sesto e il settimo motivo.

7. La censura di cui all’ottavo motivo verte sull’interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 2, quarto periodo, che, nel regolare il sistema difensivo incentrato sull’audizione dell’incolpato, prevede che “In caso di differimento superiore a dieci giorni del termine a difesa, per impedimento del dipendente, il termine per la conclusione del procedimento è prorogato in misura corrispondente”.

7.1. Secondo il tenore testuale della norma, la proroga del termine per la conclusione del procedimento corrisponde alla durata del differimento, mentre l’impedimento costituisce solo la ragione giustificatrice dell’accoglimento dell’istanza di rinvio, senza che tale interpretazione comporti la rimessione della durata del procedimento al mero arbitrio datoriale, dovendo la Pubblica Amministrazione, quale datrice di lavoro, pur sempre attenersi ai principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. nell’emanazione di atti implicanti valutazioni con margini di discrezionalità.

7.2. Nel caso concreto, l’impedimento per malattia si era protratto, per oltre dieci giorni, dal giorno originariamente fissato per l’audizione fino al 14 agosto 2012; la convocazione venne differita al 6 settembre 2012, a distanza di meno di un mese dal termine dell’impedimento. Al riguardo, non risulta neppure dedotta in giudizio l’esorbitanza del differimento in relazione all’eventuale violazione dei principi di buona fede e correttezza.

8. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del quindici per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

9. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, il rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 1 5 % e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2017

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