Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25378 del 25/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 25/10/2017, (ud. 13/06/2017, dep.25/10/2017),  n. 25378

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8379-2016 proposto da:

B.M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ANTONIO BERTOLONI 44/46, presso lo studio dell’avvocato XAVIER

SANTIAPICHI, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCA BENCINI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 18,

presso lo studio dell’avvocato MAURO MONTINI, rappresentato e difeso

dall’avvocato MARCO LOVO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 833/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 22/01/2016 R.G.N. 46/15;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/06/2017 dal Consigliere Dott. ALFONSINA DE FELICE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCESCA BENCINI;

udito l’Avvocato MARCO LOVO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Firenze con sentenza in data 22/01/2016, in riforma della sentenza del Tribunale di Grosseto n.365/2014, ha accertato la legittimità della sanzione disciplinare di otto giorni di sospensione dal servizio con privazione della retribuzione irrogata dal Comune di (OMISSIS) nei confronti di B.M.A., vice comandante della Polizia Urbana Municipale, per omissioni e ritardi nella gestione dell’istruttoria di numerosi ricorsi amministrativi (circa trecento pratiche) avverso la contestazione della violazione delle norme del codice della strada, ai sensi dell’art. 3, comma 4, lett. c) del c.c.n.l. vigente per i dipendenti delle Regioni e delle autonomie locali, con le aggravanti previste dallo stesso per il ritardo nell’esecuzione delle disposizioni di servizio e per il danno economico e di immagine causato dal disservizio.

La Corte territoriale non ha ravvisato irregolarità formali nel procedimento disciplinare, nè sotto il profilo della specificità degli addebiti contestati nè sotto quello della proporzionalità della sanzione, essendo risultato chiaro, dall’istruttoria, il disvalore della condotta contestata e posta dall’amministrazione comunale a base dell’adozione del provvedimento sospensivo. Le negligenze emerse, riguardanti gravi e reiterati comportamenti omissivi o dilatori di adempimenti prevalentemente procedurali nella gestione delle pratiche assegnate (mancato rispetto del termine perentorio per l’invio dei ricorsi al Prefetto e delle relative controdeduzioni previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 203, comma 2, nonchè inadempimenti relativi alle modalità di trattamento dei ricorsi in opposizione alle sanzioni comminate per violazioni del codice della strada, impartite con disposizione operativa del dirigente del servizio) avevano reso impossibile alla Prefettura assumere le proprie conseguenti determinazioni entro i termini di legge, causando un danno economico al Comune (danno che il B. era stato condannato a rifondere dalla Corte dei Conti con sentenza n. 112/2013, in seguito alla quale l’ente si era risolto ad aprire il procedimento disciplinare), e ledendo la credibilità dell’amministrazione in quanto condotte idonee a ingenerare il sospetto di illeciti favoritismi.

Avverso questa decisione interpone ricorso in Cassazione B.M.A. con cinque censure cui resiste con tempestivo controricorso il Comune di (OMISSIS).

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La prima censura contesta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 St.lav. e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 2, modif. dal D.Lgs. n. 150 del 2009 e confermato dalla Circ. Dip. Funz. Pubbl.14/2010; art. 25, comma 10 c.c.n.l. per il personale del comparto Regioni e autonomie locali, per avere, la Corte territoriale, considerato irrilevante il mancato aggiornamento del codice disciplinare in relazione alle fattispecie di illecito previste dal D.Lgs. n. 150 del 2009, ritenendo nella specie, i fatti attribuiti al lavoratore, astrattamente rientranti nelle ipotesi di illecito disciplinare già contemplate dalla contrattazione collettiva applicabile ratione temporis.

Secondo parte ricorrente, la mancata integrale affissione del codice disciplinare equivarrebbe all’assenza di pubblicità dello stesso e determinerebbe, pertanto, la nullità dell’intero procedimento disciplinare.

L’aver ritenuto soddisfatto, come vuole la sentenza gravata, il requisito della pubblicità attraverso il sito Intranet del Comune, avrebbe violato inoltre, l’art. 25, comma 10 del c.c.n.l. vigente.

Il motivo è infondato.

Sul punto giova richiamare la giurisprudenza di questa Corte, assestatasi ormai sul principio che “…in tutti i casi in cui il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perchè contrario al cosiddetto minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario che sia data adeguata pubblicità al codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, dell’illiceità della propria condotta” (Cass. 19183/2016 e, conformemente in argomento: Cass. n.1926/2011; Cass. n.22626/2013 nonchè, da ultimo, Cass. n.4826/2017).

La censura non dà prova di tener conto di tale orientamento consolidato, nè si rivela adeguata nel contestare le due principali affermazioni della sentenza a riguardo: a) che l’onere di pubblicità potesse dirsi assicurato dalla pubblicazione del codice disciplinare sul sito Intranet del Comune; b) che il fatto che gli illeciti non fossero stati “aggiornati” in base alla L. n. 150 del 2009 era del tutto irrilevante, poichè i fatti contestati erano già sanzionabili sotto la vigenza del c.c.n.l. temporalmente applicabile.

Il ricorrente, sul punto sub a) richiama l’art. 25, comma 10, c.c.n.l. per il personale del comparto Regioni e autonomie locali, il quale così dispone: “Al codice disciplinare di cui al presente articolo deve essere data la massima pubblicità mediante affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti. Tale forma di pubblicità è tassativa e non può essere sostituita con altre”.

Così richiamata la norma non è tuttavia in grado di fornire al ricorrente uno strumento interpretativo utile a confutare l’affermazione del Giudice d’Appello in merito all’esistenza della pubblicazione del codice disciplinare con modalità informatica, nè a spiegare in qual modo, una siffatta forma di diffusione, si ponga in contrasto con i canoni di accessibilità e tassatività prescritti dall’autonomia collettiva.

Quanto poi al punto sub b), la censura esprime un dissenso immotivato rispetto all’affermazione, contenuta nella decisione di seconde cure, circa l’irrilevanza del mancato aggiornamento del codice disciplinare in ragione del fatto che le condotte contestate fossero comunque contemplate dalla disciplina contrattuale vigente, dunque sanzionabili.

In ogni caso, anche se tale diversa opinione fosse stata in qualche modo argomentata, su ogni altra considerazione prevale l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte innanzi richiamato, che avverte l’interprete circa la diversa e meno rigida rilevanza da attribuire al requisito di pubblicità del codice disciplinare laddove il lavoratore abbia potuto rendersi conto, al di là di un’analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, dell’illiceità della propria condotta, del che la Corte d’Appello ritiene sia emersa piena prova in giudizio.

2. La seconda censura si appunta sul difetto di specificazione (tassatività e tipicità) della contestazione, che avrebbe inibito al lavoratore un’adeguata difesa delle sue ragioni. A sostegno della deduzione di assenza di specificità della contestazione, parte ricorrente rileva come in corso di causa fosse emerso che la stessa era stata erroneamente identificata con la violazione dell’art. 3, comma 4, lett. c) del c.c.n.l. (negligenza dei compiti assegnati), piuttosto che la violazione dell’art. 3, comma 4, lett. a) (inosservanza delle violazioni di servizio).

Anche la seconda censura è infondata.

Nulla si dice in merito ai presupposti della presunta assenza di specificità della contestazione disciplinare. In particolare non si dimostra, a parte il vago riferimento a due diverse tipologie contrattuali, in che modo il ricorrente ritenga di non essere stato reso edotto dei fatti contestati e ostacolato ad espletare il suo diritto di difesa. Tale censura, così genericamente formulata, non è in grado di contrastare minimamente l’iter argomentativo della sentenza, che si mostra di contro rigoroso nel dare puntuale riscontro dell’ascrivibilità al B. di tutte le condotte contestate, considerate nella loro materialità fattuale.

La sentenza gravata (pag. 5) attesta come le contestazioni abbiano avuto a oggetto il mancato rispetto del termine perentorio per l’invio dei ricorsi al Prefetto e delle relative controdeduzioni previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 203, comma 2, nonchè inadempimenti relativi alle modalità di trattamento dei ricorsi in opposizione alle sanzioni comminate per violazioni del codice della strada impartite con disposizione operativa del dirigente del servizio.

Tali accertamenti di fatto sono stati ritenuti sufficienti a identificare con chiarezza l’oggetto della contestazione dal Giudice dell’appello. Va, infatti, in questa sede rimarcato che in tale ottica, l’iter motivazionale soddisfa pienamente il costante orientamento di questa Corte, opportunamente, richiamato nella memoria difensiva di parte controricorrente, secondo cui il requisito della specificità della contestazione disciplinare è da ritenersi integrato “…quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti assunti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.” (Cass. n.10154/2017).

3. La terza censura contesta violazione dell’art. 203 del codice disciplinare da parte della sentenza gravata, nel punto in cui quest’ultima ha attribuito la responsabilità dell’invio dei ricorsi corredati dai documenti e dalle deduzioni agli organi giudicanti non già al dirigente e comandante responsabile del servizio e della funzione specifica, ma al ricorrente, sulla base del mero dato fattuale che questi aveva trattato tutte le procedure oggetto della contestazione.

Il motivo è anzitutto inammissibile in quanto, così come prospettato, risulta proposto per la prima volta. Anche qualora si volesse intenderlo come riferito al profilo riguardante la linearità della “catena di comando” dell’Ufficio e delle reciproche responsabilità, esso va ritenuto infondato, in quanto non confuta la sentenza nel punto in cui la stessa menziona il dirigente quale soggetto che ha impartito le disposizioni, al precipuo scopo di dimostrare l’ascrivibilità in capo al ricorrente di tutte le condotte dalle stesse divergenti.

4. Nella quarta censura si deduce il difetto di grave illogicità e contraddittorietà e di motivazione apparente (art. 360 c.p.c., n. 4) per avere, la Corte d’Appello, imputato al ricorrente la condotta illecita anche in relazione a due periodi nei quali egli era stato impossibilitato a ricoprire le specifiche funzioni involgenti le condotte contestate, circostanza che sarebbe stata puntualmente comprovata nel corso del giudizio (disp. datoriali n.6 dell’8/01/2010 e n. 91 dell’8/09/2010), e di aver ritenuto ciò motivando, in modo del tutto generico, che sarebbe risultato che il ricorrente si era occupato di fatto di tutti i dossier oggetto di contestazione.

La quarta censura è inammissibile.

Per com’è prospettata, essa non rivela alcuna specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata, e non appare sostenuta da ragioni che possano far richiamare il paradigma normativo d cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

Parte ricorrente, infatti, non deduce un’ipotesi di nullità della sentenza contestando che il giudice, non avrebbe motivato circa l’attribuzione al B. delle funzioni inerenti l’invio dei ricorsi all’Autorità prefettizia e l’esclusione della responsabilità in capo al suo superiore gerarchico.

La censura dedotta parrebbe piuttosto voler prospettare un’omessa o carente motivazione su un punto controverso decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5), consistente nell’avere il Giudice d’Appello motivato genericamente sulla circostanza che al B. sarebbero state ascritte anche condotte riferentesi a periodi in cui era legittimamente assente dal servizio.

Tuttavia, anche nel caso in cui la censura si fosse appuntata più rigorosamente sul vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, trattandosi di impugnativa avverso una sentenza d’appello emessa il 22/01/2016, essa avrebbe subito la limitazione del sindacato sulla motivazione in sede di legittimità introdotta dalla riforma del 2012 (D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012).

Secondo l’orientamento delle Sezioni Unite (Sez. Un. n.8053/2014) la norma processuale, così come riformulata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, ha introdotto una sostanziale limitazione del sindacato sulla motivazione da parte del Giudice di legittimità, limitato, alla luce dei canoni interpretativi dettati dall’art. 12 preleggi, al “minimo costituzionale”.

Pertanto, in base al consolidato orientamento di questa Corte, è denunciabile in Cassazione unicamente un’anomalia motivazionale che si traduca in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. L’elencazione delle anomalie si limita alla “mancanza assoluta di motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico”, alla “motivazione apparente”, al “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e alla “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, escludendo qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Per fattispecie ricadenti ratione temporis nel nuovo regime dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il vizio di motivazione si riduce, dunque, inevitabilmente alla violazione di legge, circostanza che questa Corte non ritiene sia da configurarsi nel caso di specie in quanto, anche con riguardo alle possibili anomalie rilevabili in sede di legittimità in base alla versione riformulata dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la motivazione della Corte d’Appello di Firenze appare accurata, coerente e esente da vizi logico argomentativi.

5. Nella quinta censura il ricorso si appunta sulla violazione del principio di proporzionalità della sanzione, e sulla violazione dell’art. 3, commi 4 e 5 del c.c.n.l., per non avere la Corte territoriale vagliato l’incidenza della malattia del ricorrente in ordine alla gravità dell’inadempimento.

Il motivo è inammissibile perchè tende a censurare l’apprezzamento e il convincimento della sentenza d’appello, in quanto difforme da quello auspicato, mirando così a un riesame del merito inibito al Giudice di legittimità.

In definitiva, essendo le cinque censure inammissibili e infondate, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento nei confronti della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 13 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2017

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