Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25363 del 11/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 11/11/2020, (ud. 09/07/2020, dep. 11/11/2020), n.25363

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Mar – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16228/2014 R.G. proposto da:

P.R., elettivamente domiciliata in Roma, via Domenico Fontana

n. 12, presso lo studio dell’Avv. Gennaro Maria Amoruso, che la

rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 158/7/2013 della Commissione Tributaria

Regionale delle Marche, depositata in data 18 dicembre 2013;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 luglio 2020

dal Consigliere Dott. Grazia Corradini.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

P.R., esercente la attività di vendita al dettaglio di abbigliamento, impugnò gli avvisi di accertamento con cui la Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Macerata – a seguito di una verifica fiscale conclusa con processo verbale di constatazione che aveva evidenziato che l’esercizio 2008 e gli esercizi precedenti erano stati chiusi in perdita in anni in cui il titolare non aveva percepito alcuna retribuzione pur utilizzando un dipendente, che taluni incassi POS non erano stati contabilizzati e che inoltre le dichiarazioni erano incongruenti rispetto agli studi di settore ed erano emerse incongruenze di magazzino, così rivelando una condotta commerciale anomala – aveva rettificato il reddito di impresa per l’anno 2008, ai fini IRES, IRAP ed IVA, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1, lett. d), attraverso una ricostruzione del volume di affari mediante la valorizzazione del costo del venduto sulla base del ricarico medio di esercizio, e, quindi, il reddito per l’anno 2009, come conseguenza dell’azzeramento della rilevante perdita di esercizio dichiarata per l’anno 2008.

Con il ricorso la contribuente dedusse, per quanto ancora interessa, la insussistenza dei presupposti per procedere ad accertamento analitico induttivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), a causa dei lavori di ristrutturazione delle infrastrutture che avevano interessato il Comune di Camerino che giustificavano la contrazione dei ricavi, nonchè la erroneità, comunque, della ricostruzione dei ricavi poichè la percentuale di ricarico utilizzata si riferiva alla annualità 2011, gli scontrini erano relativi a più capi venduti e la discordanza degli incassi POS era dipesa delle vendite effettuate a clientela di fiducia e non riscosse.

La Commissione Tributaria Provinciale di Ravenna, con sentenza n. 259/2/2012, ritenne corretto l’accertamento sulla base di più elementi convergenti che lo giustificavano, ma accolse parzialmente il ricorso riducendo i maggiori ricavi di esercizio dal 58,54% al 40%, valorizzando la circostanza della scarsa agibilità della via in cui era ubicato il negozio in ragione dei lavori di ristrutturazione per un non breve arco temporale nel corso del 2008.

Presentarono appello principale la Agenzia delle Entrate ed appello incidentale la contribuente, per quanto di rispettiva soccombenza.

La Commissione Tributaria Regionale delle Marche, con sentenza n. 158/7/2013, depositata il 18 dicembre 2013, rigettò sia l’appello principale che l’appello incidentale e compensò fra le parti le spese, ritenendo, quanto all’appello incidentale della contribuente, che ancora interessa, che, in primo luogo, l’accertamento fosse stato correttamente eseguito in presenza dei criteri legislativamente previsti, quali la incongruenza con gli studi di settore, la negativa percentuale di ricarico, le perdite di esercizio in anni in cui il titolare non aveva percepito la retribuzione pure utilizzando un dipendente, la presenza di dati POS non contabilizzati e le incongruenze di magazzino che consentivano la ricostruzione induttiva dei ricavi, mentre gli elementi addotti dalla contribuente non potevano spiegare la antieconomicità della gestione per tre anni di seguito. Ritenne poi corretto altresì il criterio di ricarico operato dal Fisco, applicato sulla base della media ponderata rilevata su campioni rappresentativi della merce commercializzata in anno prossimo, correttamente “rivisitato” dai primi giudici sulla considerazione dell’andamento “anomalo” dell’anno di imposta oggetto della verifica, come documentato dalla certificazione del Comune di Camerino relativa ai lavori che avevano interessato proprio la strada in cui era collocato il negozio della contribuente dal giugno al novembre del 2008.

Contro la sentenza di appello, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione la contribuente con atto notificato in data 17/23 giugno 2014, affidato ad un unico, cui resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con unico motivo di ricorso la contribuente deduce nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 bis, convertito dalla L. n. 427 del 1993 e dall’art. 2729 c.c., per avere i giudici di appello ritenuto legittimo l’accertamento impugnato in assenza dei presupposti di cui alle disposizioni normative sopra citate, in quanto nessun rilievo contabile era stato contestato alla contribuente, nulla avendo i verificatori rilevato in merito alla regolarità delle scritture contabili se non ininfluenti irregolarità contabili ed irregolarità di magazzino, oltre alla pretesa antieconomicità della condotta, mentre gli elementi portati dalla contribuente a propria difesa avevano indotto i giudici di appello a definire “anomalo” l’esercizio 2008, il che avrebbe dovuto condurre all’annullamento dell’accertamento. L’accertamento era illegittimo anche perchè fondato su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza poichè le percentuali di ricarico applicate dall’Ufficio per motivare lo scostamento non erano adeguatamente coerenti e ponderate alla varietà degli articoli in vendita e ad un campione scelto in modo appropriato e gli altri elementi considerati dall’accertamento (quali, incongruenze con gli studi di settore, perdite di esercizio per più anni di seguito nel corso dei quali il titolare della attività non aveva percepito retribuzione pur avendo utilizzato un dipendente, incassi POS non contabilizzati, incongruenze di magazzino) non integravano i requisiti di gravità, precisione e concordanza, mentre non erano state considerate le situazioni che avevano ostacolato la attività dell’impresa, quali la ristrutturazione dell’immobile nel 2000, un furto subito nel 2003 ed i lavori di rifacimento della fognatura da parte del Comune di Camerino nel 2008 che avevano reso difficoltoso l’accesso al negozio, tutti fattori che giustificavano la condotta antieconomica e che dimostravano che non sussisteva alcuna analogia tra l’attività considerata e quella “normale”.

2. Il motivo presenta in primo luogo ampi profili di inammissibilità poichè, a fronte della pretesa violazione di legge, indicata nella intitolazione, con riguardo alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 bis, convertito dalla L. n. 427 del 1993 e dall’art. 2697 c.c., lo stesso si limita poi, nello sviluppo delle argomentazioni, a sostenere che gli elementi indicati nell’accertamento non integrerebbero presunzioni gravi, precise e concordanti e non legittimerebbero, quindi, le rettifiche apportate ai redditi dichiarati, in presenza oltretutto di fattori eccezionali che autorizzerebbero comunque la esclusione della tipologia di accertamento applicato in quanto giustificativi della antieconomicità della attività.

4. In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre, viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, fra l’altro sottratta al sindacato di legittimità e la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8315 del 04/04/2013 Rv. 626129 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015 Rv. 638171 – 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538 – 03); il che dimostra la inammissibilità del motivo nel caso specifico poichè la ricorrente ha preso in esame esclusivamente la valutazione della fattispecie concreta da parte del giudice di appello, invocando un diverso scrutinio delle risultanze processuali, al fine di escludere la gravità e la concordanza degli elementi presuntivi che, secondo la sentenza impugnata, avrebbero giustificato l’accertamento analitico – induttivo, attraverso un riesame dei dati fattuali, quali la regolarità della contabilità e la determinazione della percentuale di ricarico, che non è consentito nel giudizio di legittimità.

5. Il motivo è peraltro pure infondato.

6. Occorre premettere che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, il discrimine tra l’accertamento con metodo analitico extracontabile e quello con metodo induttivo sta, rispettivamente, nella parziale o assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili, poichè, nel primo caso, la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, in quanto l’Ufficio accertatore può solo completare le lacune riscontrate, utilizzando ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 c.c., mentre nel secondo caso “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” risultano tali da inficiare l’attendibilità – e dunque l’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), sicchè l’amministrazione finanziaria può “prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti” ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c., con l’ulteriore conseguenza che l’eventuale errore qualificatorio del giudice di merito, sul tipo di accertamento, non rileva “ex se” come violazione di legge, ma refluisce in un errore sull’attività processuale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 o in un errore sulla selezione e valutazione del materiale probatorio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 6861 del 08/03/2019 Rv. 653077 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 17952 del 24/07/2013 Rv. 628484 – 01). Nella specie, peraltro, è del tutto pacifico che la Agenzia delle Entrate abbia utilizzato il metodo di accertamento analitico – induttivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), ritenendo che la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non fosse tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, ma fosse pur sempre sussistente in considerazione di elementi specificamente indicati, quali, a mero titolo di esempio, la incongruenza delle scritture di magazzino, le discordanze dalle risultanze degli studi di settore, la mancata contabilizzazione di alcune operazioni eseguite con POS, ma soprattutto la antieconomicità della attività, in conseguenza di risultati negativi per più anni di seguito che giustificava quel tipo di accertamento, indipendentemente dalla regolarità cd. “formale” della contabilità. Infatti è principio consolidato in giurisprudenza, cui si ritiene di dare continuità in questa sede, quello per cui, l’Amministrazione finanziaria può determinare il reddito del contribuente in via induttiva, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, ove quest’ultima sia intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, che può desumersi anche da un unico elemento presuntivo, purchè preciso e grave (v., per tutte, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 27552 del 30/10/2018 Rv. 650956 – 01).

7. Non è quindi vero quanto assume la ricorrente e cioè che la pretesa regolarità formale della contabilità fosse ostativa alla tipologia di accertamento applicata dall’Ufficio, alla luce del principio di diritto sopra indicato e del rilievo per cui in tema di accertamento induttivo dei redditi d’impresa, consentito dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), sulla base del controllo delle scritture e delle registrazioni contabili, l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio e dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perchè proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 27804 del 31/10/2018 Rv. 651084 – 01). E non è vero neppure che gli elementi indicati dall’Ufficio non integrino, se valutati globalmente, una serie di presunzioni gravi e concordanti, anche perchè, in base alla giurisprudenza di questa Corte, sarebbe stata sufficiente la sola grave antieconomicità protratta per più anni di seguito.

8. La ricorrente ha sostenuto che, peraltro, avrebbe offerto la prova giustificativa della antieconomicità della condotta in conseguenza delle difficoltà di accesso ai locali dell’impresa per diversi mesi di seguito nel corso del 2008, il che avrebbe impedito l’accertamento; tuttavia neppure tale argomentazione appare condivisibile poichè la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la attività dal modello normale per un limitato periodo temporale nel corso dell’anno non impediva l’accertamento, potendo invece determinare una congrua riduzione dei ricavi, come avvenuto nel caso in esame in cui il giudice di primo grado aveva operato una riduzione dei ricavi presunti in sede di accertamento, da 175.207,17 Euro a 87.537,60 Euro e cioè di circa la metà, in sostanza di una percentuale del tutto congrua con riferimento alle difficoltà connesse alle vendite per alcuni mesi nel corso dell’anno.

9. Ingiustificate sono pure le critiche mosse dalla ricorrente al calcolo da parte dei verificatori della percentuale di ricarico, poichè la sentenza impugnata ha indicato dettagliatamente il metodo seguito e cioè quello della media ponderata che costituisce il metodo che offre maggiori garanzie per il contribuente.

10. In conclusione, il ricorso va rigettato con condanna della ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità. Le spese del giudizio di merito restano compensate come già disposto dalla sentenza di appello.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si deve infine dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che si liquidano in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 9 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

 

 

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