Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25362 del 11/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 11/11/2020, (ud. 09/07/2020, dep. 11/11/2020), n.25362

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Mar – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13466/2014 R.G. proposto da:

FEDE Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentato e difeso, giusta procura in calce al ricorso, dagli

Avvocati Fabio Falcone del foro di Rimini ed Emanuele Coglitore del

foro di Roma ed elettivamente domiciliato presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 91/9/2013 della Commissione Tributaria

Regionale dell’Emilia Romagna, depositata in data 18 novembre 2013;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 luglio 2020

dal Consigliere Dott. Grazia Corradini.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Srl FEDE, esercente la attività di bar ed altri esercizi analoghi, impugnò l’avviso di accertamento con cui la Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Ravenna, a seguito di una verifica fiscale generale conclusa con processo verbale di constatazione che aveva evidenziato che l’esercizio 2007 e gli esercizi precedenti erano stati chiusi con grave perdita civilistica, così rivelando una condotta commerciale anomala ed inverosimile e che la società era stata più volte sanzionata per mancata emissione di scontrino fiscale, aveva rettificato il reddito di impresa per l’anno 2007, ai fini IRES, IRAP ed IVA, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1, lett. d), attraverso una ricostruzione indiretta dei corrispettivi ricevuti sulla base delle prestazioni più significative offerte, ricavate dai quantitativi di prodotti acquistati risultanti dalle fatture di acquisto e dagli altri elementi emersi in sede di pvc, alle quali era stato applicato il prezzo medio praticato dal contribuente per le singole tipologie di servizi così come esposto nel listino e nelle dichiarazioni rese dal rappresentante legale della società nel corso dei vari contraddittori, mentre per le prestazioni meno importanti dal punto di vista quantitativo i verificatori avevano rinunciato a procedere alla quantificazione di maggiori ricavi.

Con il ricorso la contribuente dedusse, per quanto ancora interessa, la illegittimità della pretesa fiscale, poichè non era stato indicato lo specifico metodo di accertamento adottato e mancavano elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, considerato anche che la società era risultata congrua ai fini dello studio di settore e che fiscalmente, tenuto conto delle variazioni in aumento effettuate in sede di dichiarazione, aveva raggiunto un utile.

La Commissione Tributaria Provinciale di Ravenna, con sentenza n. 66/2/2012, ritenne corretto l’accertamento sulla base di più elementi convergenti, quali le perdite civilistiche per più anni di seguito, la posizione di pregio dei locali aziendali, la mancata emissione di scontrini fiscali per più anni e le dimensioni dell’azienda, ma accolse parzialmente il ricorso riducendo i maggiori ricavi di esercizio del 50% circa poichè “i prodotti considerati nella ricostruzione dei vari servizi offerti venivano utilizzati in quantità molto diverse e le eccezioni poste dalla ricorrente in ordine all’incertezza delle quantità consumate e del conseguente prezzo di vendita consiglia una rideterminazione dei corrispettivi”.

Presentarono appello principale la contribuente, riproponendo le questioni già prospettate in primo grado ed appello incidentale la Agenzia delle Entrate, per quanto di rispettiva soccombenza.

La Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, con sentenza n. 91/2013, depositata il 18 novembre 2013, rigettò sia l’appello principale che l’appello incidentale e compensò fra le parti le spese, ritenendo, quanto all’appello principale della contribuente, che ancora interessa, che la decisione di primo grado avesse correttamente esaminato nel merito la pretesa tributaria operando una motivata valutazione sostitutiva per ricondurre alla corretta misura l’accertamento, nei limiti posti dalle domande delle parti, mentre la contribuente non aveva fornito alcuna convincente giustificazione al fatto che, per più anni di seguito, aveva ottenuto risultati civilistici negativi, pur in presenza di condizioni ottimali di esercizio dalle quali sarebbe stato ragionevole attendersi degli utili, per cui quei risultati negativi dovevano essere ritenuti il frutto di una non veritiera entità dei corrispettivi dichiarati. Ad avviso della Commissione Tributaria Regionale, l’accertamento operato dall’Ufficio era poi basato non solo su studi di settore o medie di ricavi, ma anche su altri elementi conoscitivi desumibili dalla dichiarazione dei redditi, che avevano consentito di pervenire ad una valutazione unitaria ed integrata la quale aveva a sua volta consentito una ricostruzione della realtà economica aziendale, pur in presenza di una contabilità formalmente corretta, ma sostanzialmente inattendibile, che peraltro aveva consigliato una rideterminazione dei corrispettivi più aderente alla realtà aziendale in ordine anche ai maggiori sfridi ed alle maggiori quantità di prodotti utilizzati nella preparazione dei cocktails.

Contro la sentenza di appello, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione la società FEDE Srl con atto notificato in data 16/22 maggio 2014, affidato a tre motivi, cui resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, e al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, la nullità della sentenza impugnata per incoerenza e contraddittorietà del relativo contenuto decisionale.

2. Con il secondo motivo deduce, sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, e al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, la nullità della sentenza impugnata per inesistenza della motivazione.

3. Con il terzo motivo, infine si duole di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, e dell’art. 2729 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello riconosciuto che gli elementi su cui si basava la pretesa erariale non erano dotati dei requisiti di precisione, gravità e concordanza espressamente richiesti del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), ritenendo che l’Ufficio non avesse avuto elementi tali da potere fondatamente addivenire ad una credibile e veritiera ricostruzione dei maggiori ricavi asseritamente conseguiti dalla ricorrente, il che integrava la violazione della norma citata, stante la erroneità della ricostruzione dei cocktails serviti e dei ricavi ritratti dalla vendita delle bottiglie di champagne e, per converso, la concludenza degli elementi opposti dalla contribuente con riguardo alla correttezza della contabilità ed alla congruenza ai fini dello studio di settore.

3. I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente poichè con essi si deduce incoerenza, contraddittorietà ovvero inesistenza del contenuto della decisione e della motivazione della sentenza impugnata.

3.1. Sul punto la ricorrente sostiene – pur non precisando da dove deriverebbe il fondamento di tale asserzione, all’evidenza non condivisibile – che le lacune motivazionali, in passato censurabili sotto il profilo della violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sarebbero attualmente censurabili per nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La nullità della sentenza, nel caso in esame, deriverebbe dalla circostanza che, di fronte alle contestazioni svolte dalla contribuente in sede di appello, con riguardo alla mancanza di presunzioni gravi, precise e concordanti, idonee a legittimare l’accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), con riguardo in particolare alla ricostruzione dei drinks serviti nel corso della annualità di imposta 2007 e dei ricavi ritratti dalla vendita delle bottiglie di champagne e dei prodotti monodose, essendo apparso lo sfrido riconosciuto troppo basso, la sentenza di appello aveva confermato quella di primo grado senza però consentire di comprendere come i giudici di appello fossero giunti a quella conclusione posto che avevano fortemente criticato l’attendibilità e la correttezza della pretesa erariale che avrebbe dovuto essere, in conseguenza, interamente annullata. In relazione alla determinazione dei maggiori ricavi la motivazione della sentenza sarebbe poi stata inesistente poichè nulla era stato specificato dai giudici di appello al fine di comprendere come si fosse pervenuti all’importo da recuperare a tassazione.

3.2. In proposito occorre preliminarmente rilevare che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, comma 1, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (v. Cass. Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013 Rv. 627268 – 01; Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 10862 del 07/05/2018 Rv. 648018 – 01).

3.3. Nella specie la ricorrente ha dedotto, nel titolo dei primi due motivi di ricorso, un vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per “error in procedendo”, il quale implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 c.p.c., da fare valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ma poi ha contraddittoriamente sostenuto, nella esplicitazione dei motivi, che la sentenza impugnata non avrebbe giustificato l’iter logico attraverso il quale avrebbe ritenuto corretta la sussistenza e la ricostruzione concreta dei maggiori ricavi, così incorrendo in un vizio di motivazione che avrebbe impedito l’individuazione delle ragioni che stavano a fondamento del dispositivo e cioè un vizio di carente o insufficiente motivazione che avrebbe potuto essere fatto valere, eventualmente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il quale presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione senza adeguata giustificazione (v. Cass. Sez. L, Sentenza n. 13866 del 18/06/2014 Rv. 631333 – 01).

4.2. Ciò rivela quindi ampi profili di inammissibilità dei motivi, peraltro anche infondati poichè la ricorrente ha trascurato che si è in presenza di una sentenza di appello completamente confermativa della motivazione di quella di primo grado, con la quale la motivazione di appello andava a saldarsi, considerato anche l’espresso richiamo da parte della sentenza di appello agli argomenti già esposti da quella di primo grado, ritenuti corretti ed esaustivi dal giudice di appello (“la sentenza impugnata appare ben motivata sotto il profilo logico – giuridico”, pag. 3 della sentenza di appello).

4.3. La sentenza d’appello può essere infatti motivata anche “per relationem”, purchè il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicchè dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente (v., da ultimo, Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 20883 del 05/08/2019 Rv. 654951 – 01), come è avvenuto nel caso in esame, in cui la sentenza di appello, nonostante uno stile talvolta involuto che richiede particolare attenzione nella lettura e nella comprensione, ha preso in esame tutti i motivi di gravame, anche sotto il profilo della correttezza formale della contabilità e delle risultanze dello studio di settore, nonchè delle critiche rivolte alla percentuale degli sfridi ed alla ricostruzione dei servizi offerti, e li ha rigettati, rilevando che la correttezza formale della contabilità non significava attendibilità sostanziale, che l’accertamento era fondato su elementi ulteriori rispetto alle medie del settore che avevano consentito una ricostruzione ragionevole del reddito della società e che, quanto alla ricostruzione dei maggiori ricavi, i corrispettivi erano stati già rideterminati in primo grado in maniera più aderente alla realtà aziendale.

4.4. La sentenza di appello è quindi motivata e consente di ricostruire l’iter logico giuridico della decisione che, partendo dalla conferma della motivazione di primo grado, ritenuta corretta e non intaccata dai motivi di appello, si è sviluppato attraverso l’esame dei motivi di appello sui quali ha data risposta, così ritenendo, con argomentazione logica che resiste alle censure anche di sola incompletezza della motivazione, che la ricostruzione dei maggiori ricavi, pur se impossibile sotto un profilo strettamente analitico che avrebbe potuto offrire un risultato di certezza, fosse stata peraltro possibile attraverso gli elementi forniti dalla verifica fiscale che avevano consentito di pervenire alla “ragionevole ricostruzione del reddito”, tenuto anche conto del “temperamento” già operato dal primo giudice che aveva corretto la ricostruzione sovrastimata dell’accertamento e della mancanza di prove, da parte della contribuente, in ordine ai motivi per cui per più anni di seguito era stata riscontrata una perdita civilistica pur in condizioni ottimali della attività di impresa. Si tratta d’altronde di una ricostruzione del tutto in linea con i principi giurisprudenziali che presidiano la tipologia di accertamento di cui si tratta, per cui l’Amministrazione finanziaria può determinare il reddito del contribuente in via induttiva, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, ove quest’ultima sia intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, che può desumersi anche da un unico elemento presuntivo (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 27552 del 30/10/2018 Rv. 650956 – 01), posto che l’inesistenza di passività dichiarate o le false indicazioni contenute nella dichiarazione possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, senza necessità che l’Ufficio fornisca prove “certe”. Pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma esclusivamente per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, ove ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli artt. 2727 e ss. c.c., e 2697, comma 2 (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 14237 del 07/06/2017 Rv. 644435 – 01).

5. Incongrua è pure la pretesa violazione di legge indicata nella intitolazione del terzo motivo, con riguardo alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, e dell’art. 2697 c.c., poichè tale motivo di ricorso non indica poi in che cosa tale violazione di legge, da parte della sentenza impugnata, sarebbe consistita, mentre si limita a sostenere che i giudici di appello avrebbero riconosciuto che gli elementi su cui si basava la pretesa erariale non erano dotati dei requisiti di precisione, gravità e concordanza espressamente richiesti del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), il che non è, considerato che, al contrario, la sentenza di appello ha riconosciuto che vi erano numerosi elementi concordanti da cui desumere che i ricavi ragionevolmente derivati dalla attività fossero stati conseguiti, mentre le incongruenze in cui era incorso l’Ufficio sono state sottolineate solo per giustificare la notevole riduzione dei ricavi recuperati, operata dal primo giudice, sulla base dei rilievi della contribuente.

5.1. Comunque, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre, viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, fra l’altro sottratta al sindacato di legittimità e la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8315 del 04/04/2013 Rv. 626129 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015 Rv. 638171 – 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538 – 03); il che dimostra la infondatezza del motivo nel caso specifico poichè la ricorrente ha preso in esame esclusivamente la valutazione della fattispecie concreta da parte del giudice di appello, invocando un diverso scrutinio delle risultanze processuali attraverso un riesame dei dati fattuali che non è consentito nel giudizio di legittimità.

6. In conclusione, il ricorso devè rigettato con condanna della ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità. Poichè il procedimento di impugnazione è iniziato dopo il trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della L. n. 228 del 2012, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che si liquidano in complessivi Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 9 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

 

 

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