Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25359 del 20/09/2021

Cassazione civile sez. III, 20/09/2021, (ud. 11/03/2021, dep. 20/09/2021), n.25359

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12123/2019 R.G. proposto da:

L.M.N., rappresentata e difesa dall’Avv. Prof.

Giacomo Porcelli, e dall’Avv. Fabio Ciccariello, con domicilio

eletto in Roma, Via Amiterno, n. 2 presso lo studio dell’Avv.

Angioletto Calandrini, (Studio Legale Cento);

– ricorrente –

contro

V.A., e V.M., rappresentati e difesi dall’Avv.

Girolamo Giancaspro, con domicilio eletto in Roma Via Gavinana, n.

2, presso lo studio dell’Avv. Francesco De Facendis;

– controricorrenti –

e contro

B.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Pasquale Caso, con

domicilio eletto in Roma Via Gavinana, n. 2, presso lo studio

dell’Avv. Francesco De Facendis;

– controricorrente –

e nei confronti di:

S.A.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari, n. 261/2019

depositata il 4 febbraio 2019;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 marzo

2021 dal Consigliere Emilio Iannello.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

la Corte d’appello di Bari ha confermato la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda di riscatto agrario proposta da L.M.N. – sul presupposto di essere proprietaria coltivatrice diretta del terreno confinante con quello oggetto di retratto – in relazione alla vendita effettuata, con contratto del 29/12/2000, da N.M.N. (alla quale, nel corso del giudizio di primo grado, era subentrato l’avente causa B.V.M.) in favore di A. e V.M.;

ha infatti ritenuto, anzitutto, quale ragione più liquida della decisione, ed in via assorbente, che difettasse in capo all’appellante il requisito della capacità lavorativa minima per l’esercizio del riscatto agrario, essendo emerso dalla c.t.u. un fabbisogno minimo di manodopera di 6,64 unità lavorative uomo (u.l.u.) ed essendo invece i lavoratori dell’azienda L. soltanto due;

ha comunque soggiunto che:

– l’appellante non risultava essere piena proprietaria del terreno confinante con quello oggetto di riscatto, ma solo “livellaria”, essendo precisato, nel relativo titolo di acquisto (atto di compravendita in notar Be. del 5/11/1975), che l’immobile veniva trasferito all’acquirente libero, “ad eccezione del canone enfiteutico innanzi citato”;

– in tale atto il dante causa della signora L. affermava di avere usucapito il fondo e tuttavia tale usucapione non era in alcun modo documentata, se non attraverso la mera dichiarazione del venditore, da ritenersi insufficiente “posto che l’usucapione avrebbe potuto e dovuto previamente accertarsi in via giudiziale”, come affermato dalla S.C. con sentenza n. 24114 del 2014;

– a maggior ragione tale previo accertamento era da considerarsi nella specie necessario, per essere proprietario del fondo un comune e non conoscendosi se il fondo medesimo facesse parte del demanio disponibile o di quello indisponibile, circostanza quest’ultima che non avrebbe consentito l’usucapione;

– inoltre, nell’atto di compravendita si dichiarava formalmente l’esistenza del livello e dunque si ammetteva l’altruità del bene compravenduto e, comunque, la non piena proprietà dello stesso;

– non era condivisibile l’assunto dell’appellante di essere comunque divenuta proprietaria del terreno in questione a titolo originario, per averlo posseduto pacificamente fin dal momento del suo acquisto, non avendo la stessa proposto, contestualmente alla domanda di riscatto, anche quella, pregiudiziale, di accertamento dell’usucapione della proprietà del bene;

avverso tale sentenza L.M.N. propone ricorso con tre mezzi, cui resistono, con separati controricorsi, A. e V.M. e B.A., quest’ultimo dichiarandosi figlio ed unico erede di B.V.M., deceduto nelle more della pubblicazione della sentenza d’appello, avendo la vedova rinunciato all’eredità;

l’altra intimata S.A. (vedova di B.V.M.) non svolge difese;

non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero;

le parti, tutte, hanno depositato memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

RITENUTO

che:

con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione e falsa applicazione degli artt. 922 e 1158 c.c. (per avere la corte di appello erroneamente escluso l’acquisto del diritto di proprietà in forza di compravendita contenente dichiarazione di usucapione da parte del dante causa); violazione e falsa applicazione della L. n. 817 del 1971, art. 7 e della L. n. 590 del 1965, art. 8 (per avere la corte di appello, presupponendo l’acquisto a non domino del fondo da parte della ricorrente, erroneamente escluso il diritto di prelazione della medesima); violazione e falsa applicazione degli artt. 2967 (recte: 2697) e 948 c.c. (per avere la Corte di appello, presupponendo l’acquisto a non domino, escluso il diritto di prelazione, ritenendo erroneamente applicabile alla domanda di accertamento del diritto di prelazione l’onere probatorio gravante su chi agisce ex art. 948 c.c.”;

con il secondo motivo la ricorrente deduce, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, per avere la corte d’appello omesso di valutare l’ammissibilità dei nuovi documenti – sopravvenuti e quindi prodotti in appello nella prima occasione utile, alle udienze del 23 marzo 2016 e del 14 settembre 2016 – a dimostrazione dell’insussistenza di oneri e gravami sul fondo;

con il terzo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti o, in subordine, difetto assoluto di motivazione (o, comunque, motivazione puramente apparente);

lamenta la mancata considerazione del dedotto uso di mezzi meccanici ai fini della coltivazione del fondo, in tesi di decisiva rilevanza ai fini della valutazione della sussistenza del requisito della capacità lavorativa minima per l’esercizio del riscatto agrario (valutazione che la ricorrente assume, peraltro, anche inficiata dalla mancata considerazione dell’apporto degli altri familiari, già di per sé sufficiente, in tesi, a garantire l’apporto lavorativo richiesto); e ciò benché tale circostanza fosse – assume la ricorrente -: “i) dimostrata documentalmente (cfr. doc. 12 fasc. 1 grado attrice); ii) non contestata dai convenuti; iii) confermata dal c.t.u., il quale aveva esplicitamente riconosciuto che l’azienda agricola L. disponeva di un “parco macchine molto fornito” (consulenza integrativa, pag. 4; cfr. all. 7)”;

il terzo motivo, di rilievo logico preliminare, in quanto investe la prima e assorbente ratio decidendi, è inammissibile;

occorre anzitutto rilevare che, al di là dell’evocazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., ciò che si lamenta è sostanzialmente l’omessa decisione su una questione rimasta assorbita in primo grado e riproposta con l’appello ai sensi dell’art. 346 c.p.c.;

ne segue che il mezzo con cui si doveva denunciare l’omesso esame della questione riproposta era quello della violazione dell’art. 112 c.p.c. (omessa pronuncia, error in procedendo);

infatti, il discrimine fra la censura di violazione dell’art. 112 c.p.c. e quella di omesso esame ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – posto che quest’ultimo, come chiarito da Cass. Sez. U. 07/04/2014 nn. 8053-8054, può concernere un fatto principale o secondario – va ravvisato nella circostanza che la doglianza è da esprimersi con denuncia di violazione dell’art. 112 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, quando la parte che ha interesse all’esame del fatto ne aveva rilevato l’esistenza ed aveva chiesto di esaminarlo, mentre è da esprimersi con il mezzo del n. 5 se ed in quanto la parte non avesse chiesto l’esame di quel fatto ancorché esso fosse stato introdotto in giudizio, senza appunto attività di rilevazione;

ebbene, nella specie, poiché la ricorrente ha affermato di avere dedotto e dunque rilevato con l’appello (ed anzi di averlo dedotto e rilevato già criticando la c.t.u. in primo grado) il fatto (secondario), rappresentato dall’esistenza di macchinari nella propria azienda, in astratto rilevante per la dimostrazione del fatto costitutivo della domanda inerente alla forza lavoro, la censura avrebbe dovuto proporsi ai sensi dell’art. 112 c.p.c. ed in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4;

pur esaminando in tale prospettiva la censura, nell’esercizio del potere/dovere di qualificare la censura secondo l’criteri indicati da Caos. Sez. U. n. 17931 del 2013, se ne dovrebbe comunque rilevare l’inammissibilità;

le allegazioni con cui il motivo vorrebbe indentificare il fatto oggetto di omissione di pronuncia, per come esposte sia in chiusura del punto 10 (pag. 7) nell’esposizione del fatto, sia al punto 41, sottoparagrafo li (pag. 19), risultano infatti del tutto generiche e tali da non individuare un fatto;

nel primo passaggio la ricorrente si limita infatti a riferire di avere riproposto, in appello, “le difese svolte in primo grado in riferimento al requisito soggettivo della capacità lavorativa – in relazione al quale il giudice di prime cure aveva omesso di pronunciarsi ritenendo… il profilo de quo “assorbito”) – censurando, inter alia, l’erroneità della c.t.u. per “non aver considerato, ai fini del calcolo della capacità lavorativa della famiglia dell’attrice, che la coltivazione dei fondi avviene con l’ausilio dei mezzi meccanici elencati del documento n. 12 (…)” (Atto di appello, p. 26)”;

nel secondo ribadisce, negli stessi termini, di avere “… riproposto espressamente le censure relative alla erroneità della CTU, anche per “non aver considerato, ai fini del calcolo della capacità lavorativa della famiglia della attrice, che la coltivazione dei fondi avviene con l’ausilio dei mezzi meccanici elencati nel documento n. 12 (allegato alla memoria 184 c.p.c.) (Atto di appello, pag. 17)”;

come appare evidente, si tratta di affermazioni che, oltre ad essere del tutto generiche – in quanto non specificano consistenza, qualità e numero dei mezzi meccanici menzionati, né soprattutto e conseguentemente spiegano la rilevanza del loro utilizzo nella coltivazione ai fini del requisito del diritto fatto valere escluso dalla corte territoriale – sono pure tali da esprimere una valutazione e non un fatto;

ne discende che il motivo, pur riconvertito in denuncia di violazione dell’art. 112 c.p.c. non identifica effettivamente un fatto su cui la corte abbia omesso di pronunciare;

in ogni caso, se anche si volesse ritenere il contrario, il motivo sarebbe inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 2 in quanto difetterebbe di decisività, giacché, proprio per l’assoluta genericità e l’assenza di specifica spiegazione di come in concreto l’ausilio dei mezzi meccanici dovesse rilevare ai fini della forza lavoro, dell’omessa pronuncia non risulterebbe dimostrata la rilevanza effettiva;

va in proposito rammentato che, come costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, per evidenziare la violazione di una norma del procedimento agli effetti dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è necessario rispettare il requisito di ammissibilità di cui all’art. 360-bis c.p.c., n. 2: è necessario cioè che la censura di violazione della norma del procedimento (nella specie per omessa pronuncia su un fatto espressamente dedotto a fondamento del gravame) venga evidenziata con caratteri tali da palesare che sono stati violati “i principi regolatori del giusto processo”;

tale formulazione, sebbene evocativa dei contenuti dell’art. 111 Cost., comma 1, siccome poi specificati dal comma 2 e dagli altri commi della norma, secondo la ricostruzione preferibile si presta a sottendere, piuttosto che la necessità che l’inosservanza della norma del procedimento abbia violato il principio secondo qualcuna di quelle specificazioni (posto che ogni violazione di norma del procedimento si concreta almeno in una lesione del contraddittorio e/o del diritto di difesa come regolato dalle forme previste e, dunque, risulterebbe lesiva delle regole del giusto processo, con conseguente inutilità dell’art. 360-bis, n. 2), in realtà il carattere che la violazione della norma del procedimento deve avere, perché possa denunciarsi in Cassazione; carattere che, anche prima dell’introduzione dell’art. 360-bis, n. 2 si esprimeva nell’essere stata la violazione denunciata decisiva, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denunciava (così Cass. n. 22341 del 26/09/2017, cui adde conff. ex multis, tra le più recenti, in motivazione, Cass. n. 2926 del 08/02/2021; n. 29903 del 30/12/2020; n. 28440 del 14/12/2020; n. 17966 del 27/08/2020; n. 26087 del 15/10/2019);

a fortiori la mancanza di decisività del fatto, così come dedotto, renderebbe inammissibile la censura ove apprezzabile alla stregua del diverso paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 ivi tale carattere costituendo requisito espressamente previsto dalla norma;

l’incidentale rilievo secondo cui la ratio censurata sarebbe viziata anche dalla mancata considerazione dell’apporto di altri familiari: a) non è indicato, dalla stessa ricorrente, come effettivo oggetto e fondamento della censura (a pag. 18, righe 3-4 del ricorso, si precisa che “ciò che qui rileva censurare” è la mancata considerazione della dotazione di mezzi meccanici e, più esplicitamente ancora, nella memoria, si rimarca che la valutazione sul punto dei giudici a quibus “non è stata investita da specifica censura in questa sede”); b) si pone, comunque, al di fuori del paradigma censorio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, essendo ben evidente che la corte di merito in realtà considera espressamente ed analiticamente la posizione di altri componenti della famiglia, motivatamente escludendo che essi possano fornire un apporto rilevante, di guisa che la censura si risolve nella mera assertiva contrapposizione di una conclusione diversa ovvero nella sollecitazione di una nuova valutazione di merito estranea al sindacato di legittimità;

la subordinata censura di motivazione apparente prima che manifestamente infondata – la motivazione sul punto essendo ben comprensibile – è inammissibile perché dedotta secondo argomenti estranei al tipo di vizio;

va ricordato in proposito che, secondo fermo insegnamento, “e’ denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali” (Cass., Sez. U. 07/04/2014 n. 8053);

la ricorrente invece la prospetta facendo riferimento a presunte carenze argomentative, in relazione alle critiche che si dice (in termini peraltro inosservanti della specificità richiesta dall’art. 366 c.p.c., n. 6) essere state svolte alle valutazioni del c.t.u. (condivise dai giudici di merito), risolvendosi dunque, tale doglianza, in una mera contestazione della ricognizione del fatto operata dalla corte territoriale, secondo logiche estranee al paradigma censorio di cui all’art. 360 c.p.p., comma 1, n. 5;

l’inammissibilità del terzo motivo fa sì che resti ferma la principale ed autonoma ratio decidendi adottata in sentenza e rende conseguentemente ultroneo l’esame del primo e del secondo motivo di ricorso;

il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo;

va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese processuali, che liquida – per ciascuno dei due controricorsi – in Euro 7.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2021

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