Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25352 del 25/10/2017


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Cassazione civile, sez. II, 25/10/2017, (ud. 31/05/2017, dep.25/10/2017),  n. 25352

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 20243/2013 R.G. proposto da:

C.G., c.f. (OMISSIS) – rappresentato e difeso in virtù

di procura speciale a margine del ricorso dall’avvocato Cesare Paoli

ed elettivamente domiciliato in Roma, al viale Gorizia, n. 52,

presso lo studio dell’avvocato Luca Bruno;

– ricorrente –

contro

C.A., c.f. (OMISSIS) – rappresentato e difeso in virtù di

procura speciale a margine del controricorso dall’avvocato Fabio

Dirozzi ed elettivamente domiciliato in Roma, alla via dei

Guidubaldo del Monte, n. 61, presso lo studio dell’avvocato Giuseppe

Romano Amato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1364 dei 18.8/22.10.2012 della corte d’appello

di Firenze;

udita la relazione nella Camera di consiglio del 31 maggio 2017 del

Consigliere Dott. Luigi Abete;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del sostituto

procuratore Generale Dott. SALVATO Luigi, che ha chiesto rigettarsi

il ricorso.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con atto notificato in data 29.4.2002 C.A. citava a comparire innanzi al tribunale di Arezzo C.G..

Deduceva che aveva posseduto e coltivato pacificamente, pubblicamente ed ininterrottamente due porzioni di terreno, in comune di Poppi, località (OMISSIS); che il possesso ad usucapionem aveva avuto inizio il 23.11.1978, allorchè aveva siglato atto di divisione con il convenuto nonchè con C.L. e F.P. e si era protratto sino al maggio del 2001, allorchè C.G. aveva infisso nel terreno una serie di pali, impedendone l’utilizzo.

Chiedeva dichiararsi l’intervenuto acquisto per usucapione da parte sua ed in danno del convenuto della proprietà delle anzidette due porzioni di terreno.

Si costituiva C.G..

Deduceva che i terreni erano stati coltivati sulla scorta di “accordi di scambio”, tant’è che negli anni tra il 1983 ed il 1987 e tra il 1990 ed il 1992 aveva lavorato sia i propri terreni che quelli dell’attore; che dunque l’attore aveva avuto la mera detenzione delle particelle asseritamente usucapite.

Instava per il rigetto dell’avversa domanda.

Assunte le prove articolate, espletata c.t.u., con sentenza n. 131/2008 l’adito tribunale accoglieva la domanda e, tra l’altro, dichiarava l’intervenuto acquisto per usucapione da parte dell’attore delle porzioni di terreno.

Interponeva appello C.G..

Resisteva C.A..

Con sentenza n. 1364 dei 18.8/22.10.2012 la corte d’appello di Firenze rigettava il gravame e condannava l’appellante alle spese del grado.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso C.G.; ne ha chiesto sulla scorta di quattro motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.

C.A. ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese del giudizio di legittimità.

Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa e/o errata applicazione degli artt. 1803 c.c. e segg..

Deduce che aveva siglato con la controparte un accordo in virtù del quale avrebbero atteso reciprocamente alla coltivazione dei rispettivi terreni; che siffatto accordo, da qualificare alla stregua di un contratto di comodato, ha dato vita in capo all’originario attore ad una posizione di mera detenzione inidonea ai fini dell’usucapione.

Deduce in particolare che, contrariamente all’assunto della corte di merito, il contratto di comodato non è da provare per iscritto, atteso che, pur quando ha ad oggetto beni immobili, il comodato non richiede la forma scritta, nè ad substantiam nè ad probationem.

Deduce conseguentemente che alla stregua alle risultanze istruttorie, segnatamente alla stregua delle dichiarazioni testimoniali rese da C.F., M.G., P.S. e L.L., si ha ragione della stipulazione dell’accordo di reciproca coltivazione dei rispettivi terreni, sicchè la corte distrettuale pur in via presuntiva avrebbe dovuto disconoscere l’animus possidendi in capo all’originario attore ed il possesso ad usucapionem da costui preteso.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 1141 c.c. e segg..

Deduce che l’onere probatorio su di lui gravante deve reputarsi assolto con la dimostrazione dell’accordo verbale in virtù del quale le parti avrebbero coltivato reciprocamente i rispettivi terreni.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia “violazione e/o erronea applicazione dell’art. 1144 c.c. (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” (così ricorso, pag. 19).

Deduce previamente che al caso di specie non si applica il novello art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, giacchè l’appello è stato introdotto con citazione notificata il 3.12.2008.

Deduce ulteriormente che lo stretto rapporto di parentela che lo lega al controricorrente, giustifica e rende plausibile l’atteggiamento da parte sua di mera tolleranza, atteggiamento inidoneo, ancorchè protratto per un lungo arco temporale, a fondare l’acquisto del possesso ex adverso preteso.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza.

Deduce che la sentenza impugnata è nulla, giacchè la corte territoriale non ha motivato in ordine all’esistenza di accordi di reciproca coltivazione dei rispettivi terreni nè ha valutato specificamente le dichiarazioni testimoniali rese dal pubblico ufficiale P.S..

I motivi di ricorso sono strettamente connessi.

Se ne giustifica perciò la disamina contestuale.

I motivi in ogni caso sono tutti destituiti di fondamento.

Si rappresenta, con precipuo riferimento al primo motivo di ricorso, che la corte fiorentina ha puntualizzato che l’originario convenuto – in questa sede ricorrente – aveva in comparsa di risposta fatto esplicito riferimento ad una sorta di accordo di reciproca coltivazione dei rispettivi fondi intercorso con il nipote – il controricorrente in questa sede – e che il primo giudice aveva precisato che “tale accordo, interpretabile come di reciproco comodato, dovesse comunque essere provato per iscritto e non lo fosse stato” (così sentenza d’appello, pag. 3).

Ed ha dipoi soggiunto che “su queste considerazioni l’appellante (ovvero l’attuale ricorrente) nulla dice” (così sentenza d’appello, pag. 3), cioè nulla contesta.

E’ evidente che, in questi termini, C.G. precipuamente col primo mezzo, anzichè dedurre che “le affermazioni del Tribunale aretino, confermate dalla Corte di Appello, si pongono quindi in netto contrasto con le norme che regolano la materia (e con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità)” (così ricorso, pag. 10), avrebbe dovuto piuttosto censurare in modo specifico l’affermazione da ultimo riferita del secondo giudice, dimostrando in particolare, contrariamente all’assunto della corte toscana, di aver “colpito” specificamente con l’atto di gravame in parte qua il primo dictum.

Propriamente il primo motivo di ricorso non si correla alla ratio cui in parte qua agitur è ancorata la decisione di secondo grado.

Siffatto rilievo al contempo assorbe e rende sterile la ragione di censura veicolata dal secondo motivo di ricorso.

Invero a nulla vale dedurre di aver dato dimostrazione “di un accordo verbale intercorso tra le parti” (così ricorso, pag. 19): C.G. avrebbe dovuto censurare specificamente l’affermazione della corte di merito a tenor della quale “nulla dice”, nulla cioè aveva dedotto con l’atto di appello a censura dell’affermazione del primo giudice circa la necessità della prova scritta del preteso “reciproco comodato”.

Si rappresenta, con precipuo riferimento al terzo motivo di ricorso (e ben vero al di là della indubitabile non applicabilità ratione temporis al caso di specie dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5), che la corte distrettuale ha ulteriormente puntualizzato che l’appellante, originario convenuto, “nulla dice” (così sentenza d’appello, pag. 3) – cioè nulla contesta – “anche in relazione alla affermazione (del primo giudice) relativa alla omessa prova del fatto materiale della permissio” (così sentenza d’appello, pag. 3) e, “quel che più rileva, nulla dice sulla considerazione fatta dal giudice, il quale correttamente rileva che il fatto dedotto nei capitoli di prova (il 4 in particolare) appare generico al riguardo e non riferisce atti di tolleranza, ma propone un esplicito consenso riferibile dunque semmai al tipo di accordo già in precedenza rappresentato” (così sentenza d’appello, pag. 3).

E’ evidente che, in questi termini, C.G. precipuamente col terzo mezzo avrebbe dovuto specificamente censurare tali ultime affermazioni del secondo giudice, dimostrando in particolare, contrariamente all’assunto della corte territoriale (“le considerazioni rese al riguardo dal (primo) giudice non sono state in alcun modo contraddette dall’appellante, il quale ha insistito inutilmente, e per la prima volta inoltre, sulla ricorrenza dei requisiti giuridici della tolleranza”: così sentenza d’appello, pag. 3), di aver censurato con l’atto di gravame pur in parte qua la prima statuizione.

Analogamente dunque il terzo motivo di ricorso non si correla alla ratio cui in parte qua agitur è ancorata la pronuncia di seconde cure.

Di conseguenza a nulla vale dedurre che “il rapporto di parentela intercorrente tra le parti (…) è elemento di fatto più volte richiamato dalla difesa del C.G. e, ciononostante, del tutto ignorato nel ragionamento (…) alla base della sentenza d’appello (…) come pure della pronuncia di primo grado” (così ricorso, pag. 26).

Da ultimo, del tutto ingiustificata è la deduzione, precipuamente veicolata dal quarto motivo di ricorso, secondo cui la decisione della corte d’appello sarebbe sorretta “da un impianto motivazionale viziato o lacunoso, (…) strutturalmente inidoneo ad assolvere lo scopo cui è destinato” (così ricorso, pag. 26).

Al riguardo si rappresenta che la corte di Firenze ha, per un verso, ripreso il rilievo dell’attore secondo cui i fratelli Giuseppe, Dionisio – padre del controricorrente – ed C.I., “a causa di un errore nella divisione corsa tra loro, si erano trovati con l’attribuzione formale di un terreno diverso da quello effettivamente voluto e coltivato (…) al che era seguita la continuazione dell’esercizio del diritto di proprietà da parte di ciascuno sul terreno formalmente attribuito all’altro” (così sentenza d’appello, pag. 4); ha, per altro verso, dettagliatamente delibato i periodi di asserita interruzione del corso dell’usucapione; ha, per altro verso ancora, disaminato specificamente le dichiarazioni rese dal teste P.S..

L’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito è quindi in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo e esaustivo sul piano logico-formale.

E ciò viepiù se si tiene conto che l’ipotetico vizio motivazionale rileverebbe nei limiti della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (quale introdotta dal D.Lgs. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione; è il caso de quo: la sentenza della corte di Firenze è stata depositata in data 22.10.2012) e nei termini che le sezioni unite di questa Corte hanno esplicitato con la pronuncia n. 8053 del 7.4.2014.

Limiti e termini entro i quali il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito (“la Corte, sulla base delle presunzioni e delle risultanze istruttorie emerse in corso di causa (che hanno comprovato l’esistenza di tale accordo) avrebbe dovuto trarre la logica conseguenza dell’assoluta insussistenza di un possesso ad usucapionem (…). Basti solo fare riferimento: (…)”: così ricorso, pag. 11) non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).

Il rigetto del ricorso giustifica la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

La liquidazione segue come da dispositivo.

Il ricorso è stato notificato in data 3.9.2013.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, a decorrere dall’1.1.2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit..

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, C.G., a rimborsare al controricorrente, C.A., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, cit..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 31 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2017

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