Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25349 del 09/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 09/10/2019, (ud. 07/02/2019, dep. 09/10/2019), n.25349

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24383-2017 proposto da:

P.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FALERIA 17,

presso lo studio dell’avvocato MANFREDO PIAZZA, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato EGIDIO LEONE ARTIBANI;

– ricorrente –

contro

SAN CARLO GRUPPO ALIMENTARE S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato NICOLA

DOMENICO PETRACCA, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato EDGARDO DAVIDE RATTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 255/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 11/04/2017 R.G.N. 902/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/02/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato RICCARDO FONTANA per delega verbale Avvocato

MANFREDO PIAZZA;

udito l’Avvocato NICOLA DOMENICO PETRACCA.

Fatto

FATTI di CAUSA

Con ricorso del 22 ottobre 2010 P.R., dipendente della SAN CARLO GRUPPO ALIMENTARE S.p.A., quale capo centro distribuzione denominato (OMISSIS) (centro di (OMISSIS)), inquadrato nel primo livello c.c.n.l. terziario, impugnò il licenziamento per giusta causa intimatogli da parte datoriale il 15 luglio 2010, lamentandone l’illegittimità dell’infondatezza degli addebiti mossi con le contestazioni dei giorni 8 e 25 giugno 2010, e comunque la non proporzionalità della sanzione rispetto alle inadempienze ascrittegli, rivendicando altresì differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori, per lavoro straordinario ed altro ancora.

Chiese, pertanto, di accertare l’illegittimità del recesso impugnato, con conseguente condanna della società convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Chiese, inoltre, la condanna di parte convenuta, previo riconoscimento della qualifica di quadro a decorrere dal 1 settembre 2000 ed accertamento del maggior orario di lavoro osservato, al pagamento in suo favore della complessiva somma di Euro 87.023,80 a titolo di differenze retributive dovute per gli ultimi cinque anni di lavoro, nonchè la restituzione della somma di 4222,82 Euro, che assumeva essere stata indebitamente trattenuta da parte datoriale sulle competenze di fine rapporto spettanti, ed infine risarcimento del danno da mobbing e lesione all’immagine, quantificato complessivamente in Euro 80.000.

L’adito giudice del lavoro di Cosenza con sentenza n. 825 dell’anno 2014 accolse la sola domanda di restituzione della trattenuta operata sulle competenze di fine rapporto, rigettata ogni altra istanza unitamente a quella in via riconvenzionale spiegata da parte convenuta.

Detta pronuncia veniva quindi impugnata dal P. mediante ricorso depositato il 30 giugno 2014, poi rigettato dalla Corte d’Appello di Catanzaro con sentenza n. 225 in data 2 febbraio – 11 aprile 2017 con la condanna dell’appellante al rimborso delle relative spese.

Tale sentenza è stata, quindi, impugnata mediante ricorso per cassazione dal signor P.R., come da atto in data 10-10-2017, affidato a due motivi, cui ha resistito SAN CARLO Gruppo Alimentare S.p.A. mediante controricorso notificato il 1 dicembre 2017.

Non risultano in atti depositate memorie illustrative ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI della DECISIONE

Con il primo motivo, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 dello Statuto (L. n. 300 del 1970), in combinato disposto con gli artt. 2119 e 1455 c.c., sostenendosi che i giudici di merito avevano trascurato la condotta complessiva del dipendente, osservata durante l’intero arco lavorativo, ossia per circa 15 anni alle dipendenze della stessa azienda, senza aver mai ricevuto il benchè minimo richiamo disciplinare. Alla luce di quanto emergente dagli atti di causa, le ispezioni, contrariamente a quanto opinato dai giudici di primo e secondo grado, non potevano ritenersi genuine per le modalità sfacciatamente anomale rispetto ai 15 anni di controlli routinari, bensì finalizzate al licenziamento, sicchè era possibile comprendere meglio come nella fattispecie non potesse applicarsi la giurisprudenza richiamata della sentenza impugnata, la quale faceva riferimento a molteplici condotte disciplinari, ma denotanti nel loro complesso inadempimento grave in quanto produttivo di danni a carico dell’azienda. Nel caso in esame invece i fatti non denotavano condotte dannose per l’azienda. Ogni accesso effettuato non aveva dato nessun esito rilevante, ma si era proseguito ad oltranza fino a adottare un rimedio subdolo e basato sulla malafede e la scorrettezza, quindi in violazione dell’art. 1175 c.c., ossia per individuare una sommatoria di addebiti, di nessun singolare rilievo per tentare di teorizzare una colpa comportamentale complessiva. Anche l’istruttoria aveva dato esiti che ponevano a nudo la individuale e complessiva inconsistenza di tutti i motivi addotti a sostegno di licenziamento.

L’analisi dei singoli motivi portava ad accomunare i singoli fatti contestati nell’arco temporale da febbraio a giugno 2010, suddivisi in due nuclei successivi di addebiti che con riferimento a specifiche rilevanti colpe di P. non avevano trovato alcuna conferma in sede istruttoria. In proposito la sentenza impugnata non aveva considerato due elementi giuridici emersi dal giudizio inconfutabilmente: il primo, attinente alla responsabilità individuale e alla distinzione tra colpe relative a fatti e azioni compiute dai dipendenti diversi dal lavoratore licenziato, dalle colpe eventualmente direttamente riconducibili al P. stesso; l’entità minima degli scostamenti nella contabilità, che a detta dei testi era assolutamente compatibile con l’ordinaria gestione aziendale e che dipendeva con molta probabilità dal sistema informatico adottato dall’azienda.

Nessuna esizialità aveva determinato la condotta ascritta al dipendente e non vi era stato alcun danno di natura funzionale e o patrimoniale rilevante. Di conseguenza, aveva errato la Corte territoriale con riferimento alla pretesa gravità della condotta posta in essere dal P. a non tener conto del principio affermato dalla Cass. lav. 27 maggio 1995 numero 5967, secondo cui è illegittimo il licenziamento inflitto a seguito del comportamento doloso del lavoratore, consistito in false attestazioni documentali finalizzate al rimborso di spese non effettuate, qualora il danno patrimoniale arrecato si esiguo, anche in riferimento alle dimensioni dell’impresa.

In terzo luogo (v. lett. c a pag. 20 del ricorso), è stata dedotta l’assoluta infondatezza degli addebiti riferiti alla condotta personale e diretta di esso dipendente, dovendosi aver riguardo alla distinzione tra comportamenti dei singoli dipendenti e quelli dello stesso PERONE, altrimenti pervenendosi ad esiti assurdi e paradossali, con i quali si annette importanza anche ad ammanchi di entità infinitesimale rispetto al volume di affari prodotti dalla struttura facente capo all’incolpato. E’ stata quindi richiamata la

giurisprudenza di legittimità, secondo cui nei casi di licenziamento disciplinare la gravità dell’inadempimento deve essere valutata in base al parametro più rigoroso

dell’inadempimento notevole degli obblighi contrattuali, ovvero tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, in senso accentuativo rispetto alla regola

generale della non scarsa importanza dettata dall’art. 1455 c.c.. Inoltre, le specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza del fatto dedotto in giudizio degli elementi integranti il parametro normativo e le sue specificazioni nonchè della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito, incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali, come quelle di cui agli artt. 2119 o 2106, che dettano tipiche norme elastiche, ben poteva essere scrutinata in sede di legittimità sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale (Cass. 13 dicembre 2010 n. 25.144).

In relazione al caso di specie, secondo il ricorrente, la proporzione tra la condotta e la sanzione estrema applicata e quindi la lesione del rapporto fiduciario, erano state sostanzialmente ribaltate, essendosi infatti chiesto al lavoratore di dimostrare di aver adempiuto correttamente ai propri doveri ed obblighi, mentre la scarsa rilevanza, nonostante i costanti, ripetuti e ravvicinati controlli ispettivi, avevano dato luogo a fatti per un verso non imputabili al P. e per l’altro denotanti una estrema rilevanza rispetto all’applicabilità della sanzione massima del recesso. Infatti, P. era stato chiamato a rispondere anche per condotte dei propri subordinati, con riferimento a perdite economiche, relative a pacchi di patatine dispersi del valore di Euro 38, oppure per errori contabili di Euro 11 rispetto ad un volume di affari annuo mediamente di circa 2 milioni di Euro. Una tale responsabilità, sotto il profilo disciplinare, da determinarsi alla stregua di una culpa in vigilando, si sarebbe potuta configurare soltanto in presenza di gravi fatti, compiuti dai dipendenti, di cui il P. avesse avuto immediata e diretta percezione e che avessero determinato un danno rilevante per l’azienda, non necessariamente ed esclusivamente di natura economica, ma da valutare ovviamente anche in relazione alle dimensioni della stessa e ai risultati complessivi attribuibili alla condotta di quel determinato dipendente. Gli unici fatti contestati al P., con riferimento assumere azioni dirette si erano rivelati tutti privi di fondamento o di rilievo disciplinare (cfr. fatti di cui ai nn. da 1 a 12, pagine 21 e 22 del ricorso). La Corte territoriale, ad avviso del ricorrente, si era limitata ad affermare che i fatti contestati erano tali da giustificare il provvedimento disciplinare di licenziamento, laddove l’art. 2119 c.c. e la nozione di giusta causa e proporzione della sanzione rispetto all’inflazione esigono un riferimento specifico alla connessione tra i comportamenti del lavoratore ed il provvedimento disciplinare ritenuto legittimo. Per contro, la sentenza impugnata conteneva un mero richiamo di precedenti giurisprudenziali fuorvianti, in quanto non inerenti alla fattispecie in questione, laddove il giudicante avrebbe dovuto spiegare le ragioni per le quali attribuiva al P. le colpe dei suoi dipendenti e perchè considerava accertati in giudizio fatti che invece apparivano tutt’altro che provati. Non risultava alcuna valutazione critica sulla proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti addebitati, mancando argomentazioni in merito al rapporto tra la proporzionalità dei fatti contestati, di quelli poi accertati in giudizio e del loro rapporto con la sanzione disciplinare applicata.

Inoltre, la Corte distrettuale aveva errato anche nel metodo di valutazione dei singoli comportamenti, non avendo adeguatamente esplicitato le ragioni che avevano portato a non dare rilievo a numerosi addebiti, la cui infondatezza era risultata inequivocabilmente agli atti, essendosi invece limitata ad alcuni sui quali solo allusivamente poteva intuirsi sussistere i presupposti per la massima sanzione disciplinare. Detta valutazione, quindi, risultava in contrasto con il principio affermato da Cass. lav. 30 maggio 2014 n. 12195, secondo cui qualora il licenziamento venga intimato per giusta causa e previa contestazione di diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione, salvo che la parte interessata provi che soltanto presi in considerazione congiuntamente, per la loro complessiva gravità, essi siano tali da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro, di guisa che, ove emerga l’infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, quelli residui mantengano la loro astratta idoneità a giustificare il recesso. La Corte d’Appello non aveva dato conto della scarsissima entità degli addebiti riferibili direttamente al P., avendo fatto, invece, riferimento ad una non meglio precisata responsabilità dello stesso rispetto all’operato degli agenti, tra i quali qualcuno aveva anche ammesso le proprie dirette responsabilità. Per contro, nessun dubbio sussisteva circa la sproporzione tra i fatti contestati e per come accertate nella loro infondatezza e la irrilevanza in giudizio e la sanzione applicata. Dunque, nella sentenza impugnata non vi era alcun cenno all’assenza di dolo nelle condotte contestate al P., così come la scarsa rilevanza patrimoniale degli errori contabili dovuti al sistema e comunque posti a carico dello stesso P.. In altri termini, non era stata attribuita alcuna rilevanza ai fattori soggettivi ed oggettivi determinanti per attribuire la colpa e la relativa sanzione (Cass. n. 18404/2016).

Pertanto, era palese la violazione dei canoni ermeneutici in relazione all’entità dei fatti accertati soprattutto all’inesistenza di dolo da parte del lavoratore, nonchè di danni aventi un minimo di rilevanza rispetto al complesso dei compiti richiesti al dipendente, cui era affidato un intero centro di distribuzione. Discostarsi di pochi Euro o decine di Euro, oppure non inventariare qualche pacchetto di patatine non poteva costituire condotta sanzionabile con licenziamento, sia valutando i fatti nel loro complesso, sia esaminati singolarmente.

Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è stata denunciata la violazione dell’art. 2103 c.c., la violazione ed errata applicazione delle declaratorie contrattuali di cui al c.c.n.L. di categoria – terziario commercio, in relazione al mancato riconoscimento della qualifica superiore di quadro, nonchè l’omessa motivazione sul punto della corrispondenza tra qualifica rivestita e quella superiore alla quale il lavoratore aspira. In proposito, il sig. P. ha sostenuto che, contrariamente a quanto opinato dalla Corte d’Appello, egli veniva considerato dalla stessa azienda alla stregua di un quadro, come dedotto fin dall’atto introduttivo del giudizio. La descrizione analitica, effettuata dall’azienda, era invece perfettamente sovrapponibile alla declaratoria di cui all’art. 4 del contratto collettivo terziario, riguardante il livello superiore “quadro”.

L’azienda resistente aveva riconosciuto, sostanzialmente in modo confessorio, che le mansioni di esso P. consistevano, sotto l’aspetto commerciale, nella gestione indiretta dei clienti importanti, nonchè altre circostanze significative, sotto l’aspetto dello sviluppo e della condizione degli agenti, sotto l’aspetto amministrativo, contabile e della gestione del Centro. Tali compiti erano assolutamente più aderenti alla declaratoria di quadro che a quella minore posseduta dal ricorrente, laddove egli di fatto veniva utilizzato dall’azienda in quei compiti e funzioni comportanti poteri di discrezionalità decisionale e responsabilità gestionali anche nella condizione nel coordinamento di risorse persone, in settori o servizi di particolare complessità operativa, ovvero preposti in condizioni di autonomia decisionale, responsabilità ed elevata professionalità di tipo specialistico, alla ricerca e alla definizione di progetti di rilevante importanza per lo sviluppo e l’attuazione degli obiettivi dell’impresa.

D’altra parte, risultava manifestamente contraddittorio, rincarare la dose delle responsabilità del P., affermando che egli era dotato di maggiore responsabilità per essere il vertice del centro di distribuzione, quale responsabile delle azioni inadempienti degli agenti orbitanti presso la sua sede e poi al contrario asserire che ai fini del riconoscimento delle mansioni superiori gli stessi poteri di gestionali sulle risorse umane e sul patrimonio economico dell’azienda non avevano rilievo.

Dunque, si assisteva ad un’interpretazione manifestamente illogica dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 4 del c.c.n.l. terziario. Infatti, era del tutto irrazionale ed abnorme pretendere dal lavoratore la reggenza per anni e in assoluta autonomia di un centro di distribuzione alimentare e pretendere, altresì, di attribuire al dipendente colpe anche per omessa sorveglianza sul personale di cui si afferma egli avere la diretta responsabilità gestionale -trattandosi di diverse decine di unità – senza però riconoscere che anche tale ruolo comportava relative conseguenze sul piano del corretto inquadramento nella corrispondente superiore qualifica.

Sotto tale profilo era, dunque, evidente che la sentenza impugnata risultava errata per aver interpretato in modo illogico e incoerente l’art. 2103 e l’art. 4 del contratto collettivo in relazione alle mansioni svolte dal lavoratore, così come pacificamente descritte in atti dalla medesima parte convenuta. La stessa, infatti, se avesse correttamente applicato la declaratoria invocata, non avrebbe potuto respingere la sua domanda di accertamento del diritto al superiore inquadramento, essendo agli atti perfettamente visibili l’autonomia, i poteri e le responsabilità tipiche del ruolo di quadro, come delineato dalla contrattazione collettiva, regolarmente posseduti dal lavoratore nell’espletamento delle mansioni di fatto attribuito agli da parte datoriale.

Tanto premesso, entrambe le anzidette doglianze vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni.

Ed invero, preliminarmente va rilevato come, almeno stando alla rubricazione delle due censure, parte ricorrente abbia limitato la sua impugnazione alle pretese violazioni o false applicazioni di legge e di contrattazione collettiva anazionale, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, senza quindi ritualmente individuare eventuali fatti, storici e decisivi, non esaminati dai giudici di merito, con possibile rilevanza di vizi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nuovo testo, nella specie ratione temporis applicabile, visto che la sentenza d’appello qui impugnata risale all’anno 2017). Per giunta, trattandosi di c.d. doppia conforme, per cui il ricorrente non ha evidenziato nemmeno diversità di ragioni tra le due sentenze di merito, l’eventuale vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non sarebbe neppure denunciabile, operando sul punto la preclusione ai sensi all’art. 348 ter c.p.c., u.c., norma quest’ultima anch’essa nella specie applicabile in forza dello speciale regime transitorio di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 2, conv., con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, con riferimento alla sentenza di primo grado, appellata poi nell’anno 2014 (v. il ricorso iscritto al n. 902 del ruolo gen. affari conteziosi della Corte d’Appello di Catanzaro per il 2014).

Da tutto ciò deriva che le asserite violazioni di legge, ovvero di errata applicazione del c.c.n.l. vanno esaminate esclusivamente in base a quanto in punto di fatto già accertato dai giudici di merito, le cui corrispondenti valutazioni poi, come è noto secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte in materia, nemmeno sono sindacabili in sede di legittimità. Infatti, in tema di ricorso per cassazione, la deduzione del vizio di violazione di legge consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (c.d. vizio di sussunzione) postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (in tal sensi v. tra le altre Cass. III civ., ordinanza n. 6035 del 13/03/2018, che in motivazione così risulta, in particolare, motivata: “…Tutto ciò rende, altresì, evidente quanto innanzi accennato circa l’insussistenza di una effettiva denuncia di error in iudicando.

La ricorrente, infatti, si duole non tanto dell’erronea interpretazione delle norme che presiedono al governo della fattispecie di diffamazione a mezzo stampa o dei principi giuridici a tal riguardo enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, quanto della cattiva applicazione degli stessi rispetto ai fatti allegati siccome integranti l’ipotesi dell’anzidetto illecito, ossia, nel concreto, agli articoli giornalistici relativi alla vicenda per cui è causa, e non solo quanto ai contenuti degli stessi, ma anche al quomodo del loro confezionamento, giacchè rivolto a propalare notizie suggestive, inventate, ingannevoli o distorte (quelle che la stessa società ricorrente definisce, nella memoria successivamente depositata, come “fake news”). Tuttavia, una siffatta doglianza – veicolabile in base all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e da qualificarsi come “vizio di sussunzione”, in quanto attinente all’erronea riconduzione della fattispecie materiale in quella legale (e, dunque, del fatto alla norma che è deputata a dettarne la disciplina e regolarne gli effetti) – non può che essere costruita se non assumendo l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del paradigma dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente (ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. in tale prospettiva, tra le altre, Cass., 23 settembre 2016, n. 18715 e Cass., 14 febbraio 2017, n. 3965). E’ dunque estraneo alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investe la ricostruzione e l’accertamento del fatto materiale, da cui, invece, nella sua portata, come giudizialmente definita, deve muovere la censura di erronea riconduzione di esso alla norma di riferimento. Sicchè, nella specie, come già posto in risalto, ciò che viene criticato è anzitutto e proprio l’accertamento del giudice del merito sulla realtà materiale che le risultanze di causa, secondo la prospettiva della stessa parte ricorrente, avrebbero dimostrato come “vera”…”.

V. anche Cass. III civ. n. 3205 del 18/03/1995: il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione – art. 360 c.p.c., n. 3 – ricorre quando si prospetta l’errata applicazione di una norma ad un fatto sulla cui fissazione non c’è discussione, mentre quello di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione – art. 360 c.p.c., n. 5 – si risolve in una doglianza che investe la ricostruzione della fattispecie concreta, addebitando a questa ricostruzione di essere stata effettuata in una massima la cui incongruità emerge dalla insufficiente, contraddittoria o omessa motivazione della sentenza. Pertanto, il vizio dell’incongruità della motivazione comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto, mentre quello sulla falsa applicazione della legge si risolve in un giudizio sul fatto contemplato dalla norma di diritto applicabile al caso concreto, in maniera tale che tra i due momenti non vi siano giustapposizioni.

Conforme id. n. 1624 del 16/02/1998. Analogamente, secondo Cass. III civ. n. 1430 del 20/02/1999, l’espressione normativa, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 si riferisce all’accertamento dei punti di fatto che hanno assunto rilevanza per la decisione e non a quelli riguardanti l’affermazione e l’applicazione dei principi giuridici, posto che in questo secondo caso è configurabile una falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360, n. 3. Parimenti, secondo Cass. 1I civ. n. 6224 del 29/04/2002, non può ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione “ex” art. 360 c.p.c., n. 3), la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito, non di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia, bensì di avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, giacchè siffatta valutazione comporta, non un giudizio di diritto, ma un giudizio di fatto, da impugnarsi, se del caso, sotto il profilo del vizio di motivazione.

Cfr. ancora Cass. I civ. n. 15499 in data 11/08/2004: il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 Ord. Giud.; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione -secondo il testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 vigente all’epoca di tale pronuncia – Conforme, tra le altre Cass. sez. un. civ. n. 10313 del 5/5/2006, secondo cui, di conseguenza, il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa. In senso analogo Cass. iav. n. 7394 del 26/03/2010 e n. 16698 del 16/07/2010, nonchè Sez. 6 – 2 con ordinanza n. 24054 del 12/10/2017.

V. altresì Cass. II civ. n. 6653 del 30/03/2005: non può ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione “ex” art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3, la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito non di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia bensì di avere erroneamente ravvisato, nella situazione di

fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, giacchè siffatta valutazione comporta un giudizio

non già di diritto bensì di fatto, eventualmente impugnabile sotto il profilo del vizio di motivazione – anche qui ex art. 360 c.p.c., n. 5, vecchio testo.

Ancora, similmente v. Cass. n. 8315 del 04/04/2013: il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Conformi Cass. V civ. n. 26110 del 30/12/2015 e sez. lav. n. 195 in data 11/01/2016. Ancor più recentemente Cass. I civ. n. 24155 del 13/10/2017 ha confermato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità.

Di conseguenza, nella specie veniva dichiarato inammissibile il motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con il quale era stata proposta una lettura alternativa delle risultanze di causa rispetto a quella fatta propria dal giudice di merito, in assenza di qualsivoglia censura dei criteri ermeneutici asseritamene violati o di specifica indicazione di un preciso “error in indicando”).

Orbene, la sentenza impugnata, quanto al licenziamento, ha osservato, circa la prima contestazione di cui alla nota 8 giugno 2010, avente ad oggetto l’omissione di controlli inerenti alla merce presa in carico dagli agenti, ovvero presente nei furgoni in dotazione a questi ultimi e da effettuarsi congiuntamente agli stessi, che l’appellante aveva sostenuto di non essere tenuto ad un controllo quotidiano della merce, ma soltanto ad una verifica a campione, ribadendo che da giugno 2009 a marzo 2010 aveva soltanto diminuito tali verifiche. Il giudice di primo grado inoltre aveva errato nel ritenere ammessa l’omissione contestata. Al riguardo la Corte distrettuale ha rilevato che secondo le mansioni riportate nella missiva 8 giugno 2010, concernenti il ruolo di capo centro distribuzione e non contestate, il P. era tenuto “al controllo sulla fatturazione, anche tramite l’effettuazione di verifiche incrociate con i documenti di carico dei singoli agenti, alla gestione contabile del Centro, tramite l’inserimento delle fatture e delle bolle PC nel programma M4 Europa e/o tramite prelievo dati da M5 e successiva chiusura contabile, alla verifica e alla trasmissione telematica dei dati giornalieri in sede, alla gestione della merce e delle giacenze onde evitare la scadenza di prodotti di assicurare sempre un costante rifornimento clienti del Centro”. Di conseguenza, secondo la Corte territoriale, era evidente che il controllo sulla merce presente sui furgoni non poteva certamente essere a campione, ma sistematico, seppure in collaborazione con gli stessi agenti, e quindi almeno mensile, come da menzionata contestazione, allo scopo di valutare l’effettivo valore della merce in carico ai singoli furgoni. Il teste F., sentito in merito all’ispezione condotta sull’attività di P., poi sfociata nella contestazione dell’8 giugno 2010, aveva confermato che l’appellante aveva omesso, nei mesi di febbraio e marzo 2010, di effettuare i controlli inerenti alla merce presa in carico dagli agenti del deposito di Cosenza, ovvero presente nei furgoni in dotazione a questi ultimi e da effettuarsi congiuntamente agli stessi. Peraltro, lo stesso appellante non aveva negato tale inadempienza, avendo piuttosto sostenuto di non essere tenuto ad espletare il controllo richiesto. Il teste aveva, altresì, confermato di aver verificato che in data 20 marzo 2010, al momento di sostituire l’agente PO.Fa., il P. aveva omesso di effettuare la verifica sulla merce presente all’interno del furgone in dotazione a quest’ultimo (cosa avvalorata dallo stesso Po. nella sua deposizione), automezzo sul quale dopo qualche giorno fu riscontrata una significativa differenza inventariale di circa Euro 5000. Non costituiva esimente la dichiarazione del suddetto agente, prodotta nel fascicolo di parte, secondo cui le differenze inventariali riscontrate sarebbero stato frutto della sua negligenza nel gestire alcune attività promozionali, sia in quanto tale dichiarazione risultava, alla luce di altra successiva allegata nella produzione della convenuta, rilasciata a seguito di pressioni da parte dello stesso P. e quindi inattendibile, sia in quanto non escludeva la responsabilità dell’appellante, il quale rivestiva, come capo centro distribuzione, una posizione di controllo proprio allo scopo di impedire che si verificasse il fenomeno delle differenze inventariali, differenze che peraltro il teste F. aveva dichiarato di aver riscontrato anche su altri furgoni, così emergendo chiaramente il risvolto negativo dell’inadempienza contestata con riferimento all’incombenza di verifiche sistematiche e non già a campione. In relazione all’addebito di cui al n. 3 della nota 8 giugno 2010, la Corte calabrese ha rilevato, altresì, che l’ispettore escusso aveva confermato che nell’occasione della verifica in data 29 marzo 2010 il P. aveva ammesso di aver gettato 30 – 40 cartoni, in quanto merce asseritamente scaduta. Peraltro, nella lettera di giustificazioni in data 15 giugno 2010 l’incolpato aveva riconosciuto l’addebito e, quindi, ammesso di aver gettato via la merce senza aver ottenuto preventiva autorizzazione del Controllo Qualità e senza aver rispettato la procedura, che prevedeva l’invio della merce in questione al magazzino centrale distribuzione finito, con apposita modulistica, secondo le regole procedurali interne imposte dall’azienda. Non assumeva, allora, secondo la Corte di merito, alcuna rilevanza la circostanza di non aver fatto – l’incolpato – in tempo ad effettuare la contabilizzazione della merce scaduta a causa dell’intervento degli ispettori, secondo quanto sostenuto con l’atto d’appello, poichè la stessa ammissione di averla gettata via era sufficiente ad integrare una condotta di rilievo disciplinare.

Quanto alla contestazione, di cui al punto 4 della nota in data 8 giugno 2010, circa l’aver nel corso dell’anno 2010 registrato su sistema informatico M4 (software centrale) quantitativi di merce in realtà mai allocata sugli automezzi in dotazione agli agenti -come confermato dal teste F.- contrariamente agli assunti dell’appellante, volti a sminuire la portata disciplinare dell’addebito, sottolineando l’esiguo valore economico delle divergenze di carico di merce riscontrate, la Corte di merito ha rilevato che la corretta contabilizzazione della merce rappresentava lo strumento attraverso il quale la società poteva verificare e monitorare i flussi di merce in entrata e in uscita e di gestire correttamente il business sotto il profilo amministrativo e commerciale, dovendosi, peraltro, convenire con il giudice di primo grado che gli asseriti errori di intercomunicazione tra il software centrale M4 e i terminali M5, errori peraltro solo genericamente confermati dai testi N. e B., pur ammettendo fossero stati sussistenti, non sollevavano da responsabilità il P., il quale nella sua qualità di capo centro distribuzione non risultava essersi attivato con denunce di tali anomalie del sistema alla datrice di lavoro.

Anche la quinta contestazione, di cui alla nota 8 giugno 2010, ovvero di avere richiesto agli agenti di emettere nei confronti di alcuni clienti note di consegna o fatture, sebbene la merce relativa non fosse stata presa in consegna dagli agenti, nè consegnata ai clienti e dunque non venduta, aveva trovato supporto probatorio nella deposizione del suddetto ispettore, il quale aveva dichiarato di aver appreso la circostanza dagli stessi agenti quali B.. Costui, sentito come testimone, aveva confermato la dichiarazione (datata 1806-10 circa la precedente dichiarazione estortagli dal capo centro P.), allegata al fascicolo della società, ovvero di avere emesso in data 29 marzo 2010 una fattura inesistente al cliente Joker di Rende e di essersene assunto la responsabilità con dichiarazione del 15 giugno 2010, soltanto in quanto sottoposto a pressioni da parte di P..

Quanto, poi, alla deposizione dell’agente G., la Corte d’Appello ha rilevato che fa denunciata omessa valutazione da parte del giudice non minava il quadro probatorio emerso in merito alla contestazione, per le ragioni specificamente all’uopo dettagliate (v. la decima pagina della sentenza n. 255/17). In ogni caso, secondo la Corte territoriale, anche una sola richiesta di emissione di fattura per merce in realtà non venduta – ciò che era senz’altro avvenuto in relazione a quella emessa dall’agente B.- assumeva un rilievo disciplinare particolarmente pregnante, in quanto denunciava l’intento di far risultare come venduta la merce, invece mancante sugli automezzi.

In ordine alla contestazione di cui alla nota 25 giugno 2010, concernente l’utilizzo in data (OMISSIS) della (OMISSIS), associata al furgone affidato all’agente G., con lo scopo di due rifornimenti sulla propria autovettura, la circostanza risultava acclarata dalla testimonianza BA., per come correttamente già ritenuto dal primo giudicante, mentre la deposizione del G. non valeva a giustificare la condotta contestata, ma anzi ne confermava l’irregolarità laddove si evidenziava che il P. utilizzò la ESSO card in uso a detto agente per pareggiare un proprio credito nei confronti dello stesso, laddove il teste aveva confermato la circostanza, secondo cui era “vero che nelle date (OMISSIS) il ricorrente corrispose personalmente Euro 143 circa al G., che poi recuperò dalla ESSO card aziendale del medesimo per bilanciare la contabilità”.

Da ultimo, la Corte territoriale, quanto agli addebiti di cui al punto 2 della nota in data 25 giugno 2010, osservava che nella lettera di contestazione erano state indicate nello specifico le operazioni irregolari, di cui il primo giudicante aveva rilevato di riscontro documentale, come da allegato 15 del fascicolo di parte convenuta, senza però che sul punto l’appellante avesse mosso alcuna censura.

Tanto premesso, la Corte d’Appello, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità ivi citata, ha ritenuto che nel caso di specie il Tribunale aveva fatto corretta applicazione di tali principi, prendendo in considerazione soltanto alcune delle inadempienze contestate nelle missive dell’otto e del 25 giugno 2010, giudicate provate e valutate complessivamente, pervenendo ad un giudizio di gravità tale da ritenere sussistente la giusta causa del recesso, avuto riguardo, per un verso, alla molteplicità delle violazioni agli obblighi contrattuali, e, per un altro verso, al ruolo rivestito all’interno dell’azienda dal P., il quale come responsabile di un centro di distribuzione avrebbe dovuto assicurare un puntuale adempimento dei doveri, cui era connesso un elevato grado di affidamento da parte datoriale. Tale giudizio è stato, quindi, condiviso dalla Corte d’Appello, non risultando minato dall’affermazione di parte appellante, secondo cui il licenziamento per giusta causa sarebbe stato possibile esclusivamente nell’ipotesi di insubordinazione, nel caso di specie non ravvisabile, nè contestata dalla società, in quanto la giusta causa era ravvisabile anche in violazioni reiterate degli obblighi nascenti dal contratto di lavoro, accompagnate da una portata oggettiva in termini di intenzionalità o di colposità, nel caso di specie pienamente rilevabile nelle modalità esecutive e nella stessa tipologia delle riscontrate inadempienze.

Quanto, poi, alle differenze retributive vantate da parte appellante per l’invocato superiore inquadramento, la Corte distrettuale ha rilevato che sarebbe stata superflua l’invocata prova testimoniale, peraltro genericamente articolata, sulle mansioni assegnate, risultando queste esposte nel loro contenuto nella nota del 8 giugno 2010, e che consistevano nella gestione operativa del centro di distribuzione C51, al quale faceva capo una rete di agenti, incaricata di promuovere i prodotti a marchio San Carlo, con incombenze di controllo ed affiancamento dell’attività di questi ultimi, gestione contabile del centro con attività di contabilizzazione, controllo sulla fatturazione, gestione della merce e delle giacenze. Operando, quindi, il confronto con le declaratorie contrattuali ex art. 2103 c.c., la Corte di merito è pervenuta alla conclusione che le stesse mansioni risultavano perfettamente in linea con il primo livello retributivo, concernente i lavoratori con funzioni ad alto contenuto professionale anche con responsabilità di direzione esecutiva, che sovrintendono alle unità produttive quali gestore, o gerente di negozio, filiale, capo di servizio e d’ufficio tecnico, amministrativo, commerciale, capo centro EDP. Peraltro, l’appellante non aveva affatto allegato quali fossero stati i tratti salienti delle mansioni attribuitegli, per i quali sarebbe spettato il superiore inquadramento come quadro, la cui attività – secondo la declaratoria di cui all’art. 4 c.c.n.l. terziario- era caratterizzata dalla preposizione alla ricerca o alla definizione di progetti di sviluppo aziendale, o ancora da poteri di discrezionalità decisionale, nella specie non ravvisabili. Infine, risultava documentato che il P. godeva di un superminimo, idoneo a neutralizzare ogni differenza retributiva all’uopo invocata, come da allegazione difensiva della società sul punto non contestata ex adverso.

Quanto, poi, al principio di diritto, su cui in parte si fonda il primo motivo di ricorso nel richiamare la sentenza di questa Corte sez. lav. n. 5967 del 27/05/1995 (secondo cui non è affetta da violazione dell’art. 2106 c.c. la sentenza di merito che ritenga non sufficientemente grave da giustificare il licenziamento, ancorchè abbastanza grave da determinare l’irrogazione di una sanzione disciplinare conservativa, il comportamento doloso dei lavoratore consistito in false attestazioni documentali finalizzate al rimborso di spese non effettuate, quando l’esiguità del danno patrimoniale arrecato, anche in riferimento alle grandi dimensioni dell’impresa, seppure idonea a diminuire il necessario legame di fiducia tra le parti del rapporto di lavoro, sia tale da non giustificare l’inflizione di una sanzione capace di privare il lavoratore dei mezzi sufficienti ad assicurare a sè ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa), lo stesso risulta del tutto isolato, siccome difforme rispetto alla prevalente giurisprudenza di legittimità, sia anteriore che successiva (v. in fatti Cass. nn. 2139 del 1989, 6814 del 1991, 4126 del 1994), poichè è irrilevante, ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, l’assenza (o la modesta entità) di un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro, ove il comportamento illecito del prestatore abbia determinato il venir meno del requisito della fiducia (Cass. lav. n. 4212 del 14/05/1997. Conformi id. n. 113 del 09/01/1998, id. n. 8208 del 19/08/1998. Parimenti secondo Cass. lav. n. 5434 del 07/04/2003, in tema di licenziamento è irrilevante, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, e, quindi, della sussistenza della giusta causa di licenziamento, l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale a carico del datore di lavoro, mentre ciò che rileva è la idoneità della condotta tenuta dal lavoratore a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento della prestazione lavorativa, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti.

V. altresì Cass. lav. n. 13536 del 16/09/2002, secondo cui la legittimità della sanzione deve essere valutata, ai fini della configurabilità della giusta causa di recesso ai sensi dell’art. 2119 c.c. o del giustificato motivo soggettivo di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3, tenendo conto della idoneità del comportamento a produrre un pregiudizio potenziale per sè stesso valutabile nell’ambito della natura fiduciaria del rapporto, indipendentemente dal danno economico effettivo, la cui entità ha un rilievo secondario e accessorio nella valutazione complessiva delle circostanze di cui si sostanzia l’azione commessa. Cfr. ancora la decisione di questa Corte n. 12798 del 23/05/2018, che ha cassato la pronuncia di merito, la quale aveva ritenuto sproporzionato il licenziamento intimato ad un lavoratore, che si era appropriato di due paia di scarpe detenute dall’azienda per avviarle alla distruzione in quanto corpo del reato, senza considerare il discredito derivatone all’azienda stessa ed il disvalore giuridico e sociale del fatto, a prescindere dalla tenuità del valore del bene sottratto ed indipendentemente dall’esito del procedimento penale.

Cfr. pure Cass. lav. n. 8816 del 5/4/2017, secondo cui la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonchè all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro. Conforme Cass. lav. n. 19684 del 18/09/2014 ed altre).

Circa, inoltre, la nozione legale di giusta causa, oggetto anch’essa della prima censura, in punto di diritto, va osservato che la doglianza appare infondata alla luce di quanto motivatamente e conformemente apprezzato in proposito da dai giudici di primo e secondo grado, nei sensi sopra indicati, tenuto conto dei principi elaborati in materia da questa Corte di legittimità, in base ai quali, in particolare (cfr. in part. Cass. lav. n. 7305 del 23/03/2018), l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma c.d. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità allorquando detta applicazione rappresenti la risultante logica e motivata della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto, mentre rimane praticabile il sindacato di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 3 nei casi in cui gli “standards” valutativi, sulla cui base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente (in senso analogo Cass. lav. n. 16037 del 17/08/2004). Dunque, l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (v. altresì Cass., lav. n. 18247 del 12/08/2009: la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto. A tale processo non partecipa, invece, la soluzione del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma mediante una massima di giurisprudenza. Ne consegue che, mentre l’integrazione giurisprudenziale della nozione di giusta causa a livello generale ed astratto si colloca sul piano normativo, e consente, pertanto, una verifica di legittimità sotto il profilo della violazione di legge,

l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito, e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria.

Cfr. pure Cass. lav. n. 7426 in data 6/12/2017 – 26/03/2018, secondo cui i concetti di giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione disciplinare costituiscono clausole generali, vale a dire disposizioni di limitato contenuto, che richiedono di essere concretizzate dall’interprete tramite valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, a condizione però che la contestazione in tale sede contenga una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli “standards” esistenti nella realtà sociale e non si traduca in una richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo, accertamento che è riservato ai giudici di merito. In motivazione, in particolare, la sentenza n. 7426/18 ha così testualmente e condivisibilmente argomentato:

“Trasversale ai rilievi è la denunciata violazione dell’art. 2119 c.c. che però non sussiste. E’ pure vero che è sindacabile, da parte della Corte di cassazione, l’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito con riferimento ad una norma cd. “elastica”, che indichi solo parametri generali e che necessiti di attribuzione di concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico – sociale. Tale principio (come ancora recentemente ritenuto da Cass. 15 aprile 2016, n. 7568, cui adde: Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095) trova applicazione in tema di giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare, nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla oggettività da regolare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la disposizione di cui all’art. 2119 c.c., tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica, ma contenga invece una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (v. Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095). L’accertamento della concreta ricorrenza, nel singolo rapporto, degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone, invece, sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici (cfr. Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144). Nel caso in esame, le censure, in tutti i motivi in cui sono articolate, senza che siano adeguatamente isolati e specificati gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale asseritamente violati, consistono piuttosto in contestazioni meramente contrappositive, che sollecitano una rivisitazione critica della ricognizione e della valutazione probatoria, di competenza esclusiva del giudice di merito, cui esso ha provveduto con argomentata ed esauriente motivazione, esente da vizi logici e giuridici…. Com’è noto, l’accertamento del fatto ed il giudizio sulla prova integrano esercizio di un potere insindacabile dal giudice di legittimità, solo al quale appartiene la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio (v. Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694). E’ sempre al giudice di merito che spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge e così anche il compito di valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro (cfr., ex multis, Cass. 26 luglio 2010, n. 17514)….”).

La l’anzidetta complessiva valutazione, effettuata nella specie dalla Corte di merito, risulta altresì aderente al principio affermato da Cass. lav. con sentenza n. 18836 del 28/07/2017, secondo cui qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione. Non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia il lavoratore, a dover provare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (v. anche in senso analogo Cass. lav. n. 12195 del 30/05/2014: qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione, salvo che la parte che vi abbia interesse provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro complessiva gravità, essi siano tali da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro e pertanto, ove emerga l’infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, quelli residui mantengono la loro astratta idoneità a giustificare il recesso. Ne consegue che la nullità della contestazione per alcuni addebiti, per mancato rispetto del termine a difesa del lavoratore, si estende all’atto di recesso nel suo complesso solo ove risulti provato, ed accertato, che le mancanze ritualmente contestate siano di per sè insufficienti a giustificare il licenziamento. V. similmente anche Cass. lav. n. 19343 del 18/09/2007).

Ugualmente infondate appaiono le doglianze di parte ricorrente per quanto concerne l’elemento soggettivo, o psichico, occorrente ai fini del valido recesso, non essendo al riguardo indispensabile soltanto il dolo (v. tra le altre Cass. lav. n. 13512 in data 01/07/2016: al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento, non è necessario che l’elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto. Nella specie, quindi, è stata cassata sul punto la sentenza di appello, che aveva disposto conversione del licenziamento per giusta causa in recesso per giustificato motivo soggettivo, ritenendo che la mancata appropriazione delle somme, oggetto delle operazioni compiute senza autorizzazione da dipendente di banca, escludesse il dolo e comportasse automaticamente la qualificazione dei fatti contestati in termini di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro. Cfr. in proposito anche Cass. lav. n. 28962 del 4/12/2017, che ha cassato con rinvio la sentenza di merito, la quale aveva escluso la natura dolosa delle violazioni ai doveri di ufficio di una dipendente perchè non intenzionalmente orientate a perseguire interessi personali, così presupponendo la necessità di un dolo specifico, non previsto dalla specifica normativa di riferimento. In senso analogo, v. altresì Cass. lav. n. 20931 del 22/08/2018 per l’ipotesi di giusta causa di licenziamento, ex art. 64 del c.c.n.l. Settore Mobilità Area “Attività Ferroviarie” del 20 luglio 2012 in ordine a licenziamento senza preavviso, non essendo richiesto che il comportamento sia dettato dallo scopo specifico di arrecare un forte pregiudizio all’azienda o a terzi).

Nei sensi anzidetti va, pertanto, disatteso il primo motivo di ricorso e parimenti deve affermarsi in relazione alla seconda censura, laddove con idonee argomentazioni, la Corte di merito ha accertato in punto di fatto le mansioni svolte dal sig. P., alla stregua di quanto dedotto dalla stessa parte datoriale con la lettera di contestazione disciplinare in data 8 giugno 2010, nonchè la loro corrispondenza alla qualifica d’inquadramento del dipendente (primo livello retributivo), e non già alla invocata categoria di quadro ex art. 4 del c.c.n.l. di settore, pertanto applicando correttamente la disciplina di riferimento, sia contrattuale che legale ex art. 2103 c.c. (v., peraltro anche Cass. lav. n. 18943 del 27/09/2016, secondo cui nel giudizio relativo all’attribuzione di una qualifica superiore, l’osservanza del c.d. criterio “trifasico”, da cui non si può prescindere nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore, non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni). Ogni altra doglianza in proposito fatta valere con la seconda censura si palesa, quindi, del tutto inconferente ed inammissibile, oltre che infondata, soprattutto ove si consideri, quanto al sindacato di legittimità consentito in questa sede, ai sensi degli artt. 360 e 366 c.p.c., che non viene precisato alcun errore di diritto nell’operata interpretazione dei succitati artt. 2103 e 4, laddove poi l’asserita manifesta illogicità, per la verità assolutamente insussistente siccome non riscontrabile nella specie, deriva in effetti dalle opinioni e attese soggettive della parte istante, contrapposte al ragionamento decisorio seguito invece in modo lineare dai giudici di merito, donde la loro estraneità alla c.d. critica vincolata consentita nei limiti rigorosamente fissati dall’art. 360.

Atteso l’esito negativo dell’impugnazione qui proposta, la parte rimasta soccombente va condannata alle relative spese, risultando peraltro anche in presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente in complessivi Euro 4000,00= per compensi professionali ed in Euro 200,00= per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a..

come per legge, in relazione a questo giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuti per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2019

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