Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25348 del 20/09/2021

Cassazione civile sez. III, 20/09/2021, (ud. 10/03/2021, dep. 20/09/2021), n.25348

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9390-2019 proposto da:

L.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI

132, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CIGLIANO, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.G.C.E.T., elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA CAVOUR 17, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI LEVATI,

che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

nonché contro

T.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 7718/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 5/12/2018;

udita la relazione della causa subita nella camera di consiglio del

10/03/2021 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha chiesto il rigetto

del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.G.C.E.T. convenne in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma, L.A. e T.M. per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni subiti a causa della condotta criminosa posta in essere dagli stessi nei confronti di B.L., del quale l’attrice era coniuge separata ed erede. Espose l’attrice che i convenuti avevano abusato dello stato d’incapacità in cui versava il B., inducendolo ad atti di disposizione patrimoniale dannosi anche per gli eredi. Deduceva che i convenuti erano stati condannati in appello nel giudizio penale a loro carico per i reati di cui agli artt. 110 e 643 c.p., giudizio nel quale la medesima attrice si era costituita parte civile.

Si costituirono i convenuti, contestando la domanda avversaria.

Il Tribunale di Roma condannò L.A. e T.M. al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di Euro 1.500.000,00, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo.

L.A. propose appello, denunziando la violazione degli artt. 651,652 e 654 c.p.p., proponendo, in estrema sintesi, questioni relative all’efficacia del giudicato penale nel giudizio civile di danno; lamentò, altresì, il difetto di motivazione della sentenza di prime cure e la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione alla liquidazione del danno.

Si costituì l’appellata; restò invece contumace T.M.. La Corte di appello di Roma accolse l’appello limitatamente al profilo della quantificazione del danno, e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, condannò l’appellante al pagamento, in favore di D.G.C.E.T., a titolo di risarcimento del danno, della somma di Euro 716.000,00, comprensiva del danno morale e calcolata all’attualità, e compensò le spese del giudizio di secondo grado.

Avverso detta sentenza L.A. ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi e illustrato da memoria.

D.G.C.E.T. ha resistito con controricorso. T.M. non ha svolto difese in questa sede.

Fissato per l’udienza pubblica del 10 marzo 2021, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

Il P.G., in prossimità della camera di consiglio, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è (ledotta la “violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 651, 652, 654 c.p.p., quanto alla pronuncia della Corte territoriale di rigetto dei motivi di appello…riportati sub II. b, II.d (del ricorso) avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 16889/2013 sul rilievo che la sentenza della Corte d’appello di Roma sez. III penale n. 7285/2008, passata in giudicato, nel riconoscere a carico della L. e del T. la responsabilità per i fatti di cui al capo di imputazione, ha statuito conseguentemente per le restiluzioni ed il risarcimento del danno, in favore della costituita parte civile D.G.C.E.T. (recte: T.), unica impugnamte”.

Sostiene la ricorrente – nel motivo all’esame, come articolato in ricorso, evidenziandosi che la memoria ha valore meramente illustrativo e tale notazione deve intendersi ripetuta anche in relazione agli ulteriori mezzi proposti più avanti esaminati – che la Corte d’appello (così come il Tribunale) anche alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, avrebbe dovuto rivalutare interamente i fatti dedotti in giudizio a fondamento della domanda risarcitoria proposta dall’attrice, non potendosi riconoscere efficacia extrapenale alla pronuncia della Corte d’appello di Roma, n. 7285/2008, con la quale la Corte capitolina, pronunciando sull’appello proposto dalla parte civile avverso la sentenza del Tribunale penale, che aveva assolto gli imputati con la formula “il fatto non sussiste”, ha dichiarato la responsabilità civilie di L.A., T.M. e di tale V.B. in relazione ai fatti di cui in rubrica, condannandoli in solido al risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede.

Ad avviso della ricorrente, a tale sentenza non potrebbe riconoscersi alcuna efficacia nel presente giudizio di danno, poiché essa non rientrerebbe nelle previsioni di cui agli articoli del codice di rito penale sopra citati.

1.1. Il motivo è infondato.

E’ ben vero, come afferma la ricorrente, che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che le disposizioni di cui agli artt. 651,652,653 e 654 c.p.p. costituiscono eccezione al principio dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile e non sono, pertanto, applicabili in via analogica oltre i casi espressamente previsti. Ne consegue che soltanto la sentenza penale irrevocabile di, assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima), pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativa per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre le sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale, a nulla rilevando che il giudice penale, per pronunciare la sentenza di proscioglimento, abbia dovuto accertare i fatti e valutarli giuridicamente; ne consegue, altresì, che, nel caso da ultimo indicato, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione (Cass., sez. un., 26/01/2011, n. 1768; Cass. 9/10/2014, n. 21299).

Nel caso di specie, però, la sentenza emessa dalla Corte di appello penale di Roma era una sentenza che, nel pronunciare sull’impugnazione proposta ex art. 576 c.p.p. dalla parte civile, aveva dichiarato “la responsabilità civile in relazione ai fatti in rubrica” anche dell’attuale ricorrente, che aveva condannato in solido con altri responsabili, tra cui il T., “al risarcimento del danno in favore della parte civile da liquidare in separata sede, oltre alla refusione delle spese”; non si trattava pertanto di una “mera” sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, bensì di una sentenza di condanna generica ai soli effetti della responsabilità civile, pronunziata nel giudizio penale.

Giova allora ricordare che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la sentenza del giudice penale che, accertando l’esistenza del reato e la sua estinzione per intervenuta prescrizione, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine alla “declaratoria iuris” di generica condanna al risarcimento e alle restituzioni, ferma restando la necessità dell’accertamento, in sede civile, della esistenza e della entità delle conseguenze pregiudizievoli derivate dal fatto individuato come “potenzialmente” dannoso e del nesso di derivazione causale tra questo e i pregiudizi lamentati dal danneggiato (Cass. 9/03/2018, n. 5660; Cass. 27/08/2014, n. 18352); precisandosi pure che la condanna generica al risarcimento del danno contenuta nella sentenza del giudice penale dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione non implica alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questa e il pregiudizio lamentato, restando salva nel giudizio civile di liquidazione del “quantum” la possibilità di escludere l’esistenza di un danno eziologicamente conseguente al fatto illecito (Cass. 4/11/2014, n. 23429; v., in motivazione, p. 10, anche la sopra citata Cass., sez. un., 26/01/2011, n. 1768).

Nel caso all’esame, quindi, né il Tribunale, né la Corte di appello avrebbero potuto procedere al riesame del “titolo” della responsabilità civile, in quanto lo stesso risultava coperto dal giudicato formatosi sul capo di condanna generica della sentenza n. 7285/2008 della Corte di appello penale di Roma. La condanna generica, infatti, presuppone l’accertamento della responsabilità dell’autore dell’illecito, sebbene non implichi alcun vincolo per il giudice civile in ordine all’esistenza di un danno risarcibile (in altri termini: nel giudizio civile possono essere discussi esclusivamente l’effettiva sussistenza del danno risarcibile e il nesso causale tra questo e la condotta già irrevocabilmente accertata dal giudice penale).

La Corte di appello, con L sentenza impugnata in questa sede, risulta aver fatto corretta applicazione dei principi sopra riportati, avendo – come evidenziato pure dal P.G. – ritenuto che correttamente il Giudice di primo grado ha fatto non solo leva sulla valenza, nel giudizio risarcitorio in sede civile, della sentenza resa dalla medesima Corte in sede penale e passata in giudicato, che aveva riconosciuto a carico della L. e del T. la responsabilità dei fatti di cui al capo di imputazione, ma ha anche posto in rilievo che quel Giudice di primo grado aveva, comunque, preso in esame autonomamente tutto il materiale probatorio raccolto in sede penale, ritenendo lo stesso sufficiente per sostenere la sua decisione (tale ultimo aspetto è oggetto di censura formulata con il secondo motivo).

2. Con il secondo motivo è denunziata la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’art. 111 Cost. con riferimento ai capi della detta sentenza di rigetto del secondo, del terzo e del quarto motivo di appello.

La Corte d’appello, rispondendo alle censure articolate dalla L. avverso la sentenza di prime cure, ha affermato: “il giudice di prime cure ha preso comunque in esame autonomamente tutto il materiale probatorio raccolto in sede penale e versato negli atti di causa, documentazione e prove testimoniali, ritenendo lo stesso sufficiente per sostenere la sua decisione”; e ancora, che il giudice “ha autonomamente valutato i fatti di causa da cui ha attinto gli elementi ritenuti concludenti per supportare la sua decisione”. Ad avviso della ricorrente, tale motivazione sarebbe “incompleta, inappagante, non improntata a retti criteri logici giuridici e avulsa da indagine puntuale delle riferite “risultanze dibattimentali emerse in sede di giudizio””.

Sulla base delle medesime considerazioni la ricorrente censura anche la liquidazione del danno contenuta nella sentenza d’appello: “dal capo di imputazione penare elevato avverso la L. sono stati evidenziati atti dannosi che complessivamente considerati possono essere quantificati in Euro 800.000,00 come riconosce del resto anche l’appellata in conclusionale. Si ritiene pertanto di dover rideterminare il danno in Euro 500.000,00 comprensivo del danno morale che all’attualità è pari a Euro 716.000,00 (dal 1997 data del decesso del B., a seguito del quale si è verificato il danno”).

Conclude la ricorrente che in tali capi, la sentenza è motivata in modo meramente apparente, al di sotto del minimo di costituzionalità.

2.1. Si osserva che il mezzo contiene due distinte censure.

Con la prima, la ricorrente censura la seconda ratio decidendi addotta dalla Corte d’appello a sostegno della conferma della sentenza di prime cure, relativamente all’accertamento del “titolo” della responsabilità dell’appellante.

Da un lato, la censura deve ritenersi sostanzialmente carente d’interesse, poiché, alla luce di quanto affermato nell’esame del precedente motivo, non rientrava nell’oggetto del presente giudizio l’accertamento dei fatti e della responsabilità, in astratto, della L., in quanto punti coperti dal giudicato che promana dalla condanna generica.

Dall’altro, però, va rilevato che, nell’atto d’appello, l’odierna ricorrente si doleva del fatto che non era stata compiuto, da parte del primo giudice, alcun accertamento in merito alla sussistenza del danno risarcibile e del nesso causale: elementi questi che, come si già sopra rimarcato, sono effettivamente sottoposti alla cognizione del giudice civile in sede di liquidazione del danno, e dunque, se oggetto di contestazione, devono essere oggetto d’accertamento.

La ratio decidendi in parola si riferisce, all’evidenza, anche all’accertamento del danno e del nesso causale, e al riguardo la sentenza è motivata, pur se in modo stringato. Sul punto si osserva, per un verso, che il giudice civile può utilizzare le prove raccolte in sede penale e porre esclusivamente le stesse a fondamento della sua decisione (Cass. 25/06/2019, n. 16893; Cass. 17/06/2013, n. 15112), e, per altro verso, che “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., sez. un, 7/04/2014, n. 8053) e che la motivazione della sentenza della Corte di appello, per quanto stringata, non scende al di sotto del “minimo costituzionale”. Peraltro, va rilevato che la Corte di appello, con motivazione per relationem, ha pure richiamato (v. sentenza impugnata in questa sede, p. 4) parte della motivazione della sentenza di primo grado (e specificamente quella di cui a p. 3-4) e al riguardo alcuna specifica censura è stata sollevata dalla ricorrente nel motivo all’esame, ma solo in memoria e, quindi, tardivamente.

Inoltre, sempre relazione alla seconda censura contenuta nel mezzo, inerente alla motivazione offerta a sostegno della liquidazione del danno subito dall’attrice, si pone in rilievo la Corte territoriale, nell’accogliere per quanto di ragione le doglianze relative alla liquidazione del danno operata dal Tribunale, ha ridotto l’importo di tali danni facendo riferimento a due elementi, ossia a quanto emerge dal capo d’imputazione penale, che avrebbe messo in evidenza atti dannosi dei quali si fa una valutazione complessiva in Euro 800.000,00 e a quanto emergerebbe dal giudizio civile di impugnazione del testamento del B. intentato dalla stessa G., che aveva riconosciuto alla stessa la sola legittima ex art. 540 c.c., il che ha ridotto le conseguenze dannose prodotte nel patrimonio dell’erede. Ne consegue che la liquidazione del danno c.perata dalla Corte di merito risulta, sia pure sinteticamente motivata e tale motivazione non è meramente apparente.

2.2. Alla luce di quanto sopra evidenziato, il motivo è in toto infondato e va, pertanto, rigettato.

3. Con il terzo motivo è denunziata la violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c. con riferimento al capo della sentenza impugnata con cui è stato liquidato in via equitativa del “il danno ascritto a titolo di responsabilità patrimoniale non patrimoniale alla Dott.ssa L.”.

La ricorrente censura il ricorso alla liquidazione equitativa del danno operato dalla Corte territoriale, sostenendo che a tale metodo di quantificazione, ai sensi dell’art. 1226 c.c., può farsi ricorso solo nel caso in cui il danno non possa essere provato e che, inoltre, quella medesima Corte avrebbe del tutto omesso di esplicitare i parametri di riferimento adottati per la liquidazione e di motivare in ordine all’effettiva difficoltà o impossibilità riscontrata dall’attrice nel precisare il danno nel suo preciso ammontare.

3.1. Anche il terzo motivo va disatteso.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, in sede di liquidazione equitativa del danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c., ciò che necessariamente si richiede è la prova, anche presuntiva, della sua certa esistenza, in difetto della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale, attenendo il giudizio equitativo solo all’entità del pregiudizio medesimo. Inoltre, è stato specificato che il giudice può far ricorso alla valutazione equitativa non solo quando è impossibile stimare con precisione l’entità dello stesso, ma anche quando, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la precisa determinazione di esso sia difficoltosa e che, nell’operare la valutazione equitativa, il giudice non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata della corrispondenza tra ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata (v., a tale ultimo riguardo, Cass. 18/04/2005, n. 8004). A quanto precede va aggiunto che la liquidazione in parola richiede, al fine di non risultare arbitraria, l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico sul quale è fondata (Cass., ord., 17/11/2020, n. 26051).

La Corte di merito risulta aver fatto corretta applicazione dei principi appena richiamati. Non sussiste, infatti, il denunciato vizio atteso che, come pure evidenziato dal P.G., nella specie trattavasi di ricostruire l’originario patrimonio del dante causa dell’attuale controricorrente e di procedere alla quantificazione anche del pregiudizio non patrimoniale, il quale, per sua natura, sfugge ai parametri tipici della scienza estimativa, e tenuto conto che la Corte territoriale ha indicato, sia pure sommariamente, i criteri seguiti per pervenire alla quantificazione del danno, sicché la stessa non risulta arbitraria ed insuscettibile di ogni controllo, avendo quella medesima Corte fatto riferimento a dati economici desumibili dai fatti addebitati in sede penale e alla quota ereditaria attribuita alla controricorrente.

4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza tra le parti costituite, mentre non vi è luogo a provvedere per dette spese nei confronti dell’intimato, non avendo lo stesso svolto attività difensiva in questa sede.

6. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 1591c, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sezione Terza civile della Corte di Cassazione, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2021

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