Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25347 del 11/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 11/11/2020, (ud. 13/02/2020, dep. 11/11/2020), n.25347

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso iscritto al n. 23225 del ruolo generale dell’anno 2015

proposto da:

Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi,

n. 12;

– ricorrente –

contro

Centro Assistenza Doganale (CAD) Italia s.r.l., in liquidazione, in

persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, per

procura speciale a margine del controricorso, dagli Avv.ti Cristina

Zunino, Valentina Picco e Maria Antonelli, elettivamente domiciliata

in Roma, Piazza Gondar, n. 22, presso lo studio di quest’ultimo

difensore;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Liguria, n. 1039/5/2014, depositata il giorno 3

ottobre 2014;

nonchè

Sul ricorso iscritto al n. 20852 del ruolo generale dell’anno 2017,

proposto da:

Centro Assistenza Doganale (CAD) Italia s.r.l., in liquidazione, in

persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, per

procura speciale a margine del controricorso, dagli Avv.ti Cristina

Zunino, Valentina Picco e Maria Antonelli, elettivamente domiciliata

in Roma, Piazza Gondar, n. 22, presso lo studio di quest’ultimo

difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi,

n. 12;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Liguria, n. 816/6/2017, depositata il giorno 9

giugno 2017;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 febbraio 2020

dal Consigliere Giancarlo Triscari;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore

generale Dott.ssa Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del ricorso iscritto al R.G. n. 23225/2015 e il

rigetto del ricorso iscritto al R.G. n. 20852/2017;

udito per l’Agenzia delle dogane l’Avvocato dello Stato Francesco

Meloncelli e per la società l’Avv. Maria Antonelli.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con riferimento al procedimento iscritto al n. R.G. 23225/2015, dall’esposizione in fatto della sentenza censurata si evince che: CAD Italia s.r.l., quale rappresentante indiretto, aveva svolto per conto di Alioto Group s.r.l. delle operazioni di importazione di partite di cavi di acciaio acquistate dalla società sudcoreana Ys Wire Rope Ltd; l’Agenzia delle dogane aveva proceduto all’accertamento in rettifica della dichiarazione di importazione, relativamente all’anno 2005, avendo verificato, sulla base di un’informativa OLAF, che le merci non erano di origine coreana ma cinese, sicchè aveva richiesto il pagamento del dazio antidumping; avverso il suddetto atto impositivo CAD Italia s.r.l. aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di La Spezia; avverso la pronuncia del giudice di primo grado l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli aveva proposto appello principale e la società appello incidentale.

La Commissione tributaria regionale della Liguria ha rigettato l’appello principale e dichiarato assorbito quello incidentale, in particolare ha ritenuto che: se, da un lato, doveva essere riconosciuta la responsabilità solidale di CAD Italia s.r.l. quale spedizioniere doganale, tuttavia, con riferimento al merito della pretesa, l’importazione era stata compiuta da un fornitore che operava, al tempo stesso, sia quale produttore di cavi di acciaio sia quale esportatore di cavi di acciaio cinesi, sicchè l’Agenzia delle dogane avrebbe dovuto procedere al controllo sul certificato di origine della merce ed attivare, a seguito delle informazioni dell’OLAF sui possibili traffici illeciti di cavi cinesi dalla Corea del Sud, la cooperazione amministrativa; rilevava, inoltre, la violazione del contraddittorio preventivo, di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e la mancata applicazione dell’art. 220 CDC.

Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso dinanzi a questa Corte l’Agenzia delle dogane affidato a cinque motivi di censura, cui ha resistito la società depositando controricorso, illustrato con successiva memoria.

Con riferimento al procedimento iscritto al n. R.G. 20852/2017, dall’esposizione in fatto della sentenza censurata si evince che: l’Agenzia delle dogane, a seguito della notifica a CAD Italia s.r.l. dell’avviso di accertamento in rettifica n. prot. n. (OMISSIS) del 6 febbraio 2009, relativo alla dichiarazione di importazione (OMISSIS) del 14 febbraio 2006, aveva ad essa notificato un successivo atto di contestazione della sanzione; avverso il suddetto atto sanzionatorio la società aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di La Spezia che lo aveva accolto sul presupposto che il prodromico avviso di accertamento in rettifica era stato annullato dalla Commissione tributaria provinciale nel diverso giudizio instaurato; avverso la pronuncia del giudice di primo grado l’Agenzia delle dogane aveva proposto appello.

La Commissione tributaria regionale della Liguria ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: la circostanza che avverso il prodromico avviso di accertamento in rettifica era ancora pendente il giudizio di cassazione non era preclusiva del potere di decidere comunque la controversia relativa all’atto sanzionatorio oggetto del giudizio; era, quindi, legittima la pretesa in quanto: non vi era violazione dell’art. 303 TULD, in quanto la sanzione da esso prevista riguardava anche l’ipotesi della diversa origine della merce, nè della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, in materia di contraddittorio preventivo; sussisteva la responsabilità solidale della società, in quanto aveva operato quale rappresentante indiretto; non sussisteva il difetto di motivazione dell’accertamento in rettifica; doveva essere riconosciuta la valenza probatoria della relazione OLAF; non potevano trovare applicazione il Reg. Cee n. 2913 del 1992, artt. 220 e 239, in materia di buona fede e legittimo affidamento.

Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso la società affidato a undici motivi di ricorso, illustrato con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane depositando controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va disposta la riunione al procedimento iscritto al n. R.G. 23225/2015 di quello portante il n. R.G. 20852/2017, ai sensi dell’art. 274 c.p.c., per connessione soggettiva e oggettiva, in base al principio generale secondo cui il giudice può ordinare la riunione in un solo processo di impugnazioni diverse, oltre i casi espressamente previsti, ove ravvisi in concreto elementi di connessione tali da rendere opportuno, per ragioni di economia processuale, il loro esame congiunto (Cass., Sez. U., 4 agosto 2010, n. 18050; Cass., Sez. U., 23 gennaio 2013, n. 1521; Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27550).

Nella fattispecie, sussiste connessione soggettiva e oggettiva tra i ricorsi, trattandosi nel secondo procedimento di sanzione relativa ad avviso di accertamento oggetto del primo procedimento ed essendo la controversia relativa alle medesime parti.

Relativamente al procedimento iscritto al n. R.G. 23225/2015.

1. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e degli artt. 22 e 26 CDC, e degli artt. 93 – 94 DAC, per avere ritenuto che la procedura di controllo a posteriori nell’ambito della cooperazione amministrativa riguardasse anche l’ipotesi, quale quella di specie, di presentazione di certificati di origine non preferenziale, per la quale, quindi, non poteva essere escluso che, sulla base delle risultanze dell’indagine eseguita dall’OLAF, si potesse procedere al recupero a posteriori del dazio antidumping.

2. Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., del Reg. Ce n. 515 del 1997, art. 12, nonchè del Reg. Ce n. 1073 del 1999 e del Reg. Cen. 88 del 2013, per avere affermato che non era stata raggiunta la prova della origine cinese della merce importata, tenuto invece conto delle risultanze delle indagini dell’OLAF.

2.1. I motivi sopra indicati, relativi alla impugnazione della statuizione secondo cui in materia di certificati di origine è necessario attivare il procedimento di cooperazione amministrativa allo scopo di privarli di efficacia, per procedere, successivamente, all’accertamento di una diversa origine della merce anche mediante le risultanze delle indagini OLAF, vanno esaminati congiuntamente. Va osservato, in primo luogo, che la censura della ricorrente, secondo cui il giudice del gravame avrebbe erroneamente qualificato le merci importate di cui all’avviso di accertamento impugnato quali merci di origine preferenziale, laddove le stesse (cavi di acciaio di origine sudcoreana) costituirebbero merci di origine comune o commerciale, è inammissibile, in quanto nella sentenza impugnata non si fa riferimento all’origine preferenziale della merce, ma unicamente a certificati di origine, per i quali, in termini generali, è prospettata la necessità di attivare, comunque, la cooperazione amministrativa prima di procedere al recupero a posteriori del dazio antidumping.

Sotto tale prospettiva, tuttavia, nella valutazione generale compiuta dal giudice del gravame della necessità di procedere alla attivazione della cooperazione amministrativa in ogni caso in cui è contestata la falsità del certificato di origine, va precisato che l’attività di cooperazione amministrativa è prevista, nel solo caso di accertamenti della dichiarazione doganale che ineriscano a merci di origine preferenziale, dagli artt. da 93 a 95 DAC, i quali disciplinano i metodi di cooperazione amministrativa fra i paesi beneficiari del sistema di preferenze tariffarie generalizzate (SPG) e la Commissione Europea.

2.2. In linea di principio, il procedimento di revisione doganale con recupero a posteriori dei dazi su merci di origine preferenziale presuppone l’attivazione preventiva del procedimento di cooperazione amministrativa ai fini della invalidazione da parte dell’autorità emittente del Paese di esportazione del certificato di origine preferenziale delle merci (Cass. Civ., 25 gennaio 2019, n. 2148), essendo l’amministrazione doganale dello Stato di importazione tenuta a riconoscere le valutazioni effettuate secondo la legge dalle autorità dello Stato di esportazione (Corte di Giustizia UE, 9 febbraio 2006, Sfakianakis, C-23/04 a C-25/04, punto 23; Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, Afasia Knits Deutschland, C-409/10, punto 29).

Tuttavia, l’attivazione preventiva del procedimento di cooperazione amministrativa non è necessaria, ancorchè si veda in ambito del sistema di preferenze tariffarie generalizzate, laddove “le autorità doganali dello Stato di importazione continuano a nutrire dubbi sull’origine reale delle merci, nonostante tali certificati d’origine non siano stati dichiarati invalidi” (Corte di Giustizia UE, 8 novembre 2012, Lagura Vernnógensverwaltung, C-438-11, punto 36), nel qual caso “le autorità dello Stato di esportazione non possono vincolare quest’ultima e i suoi Stati membri alla loro valutazione in merito alla validità dei certificati d’origine” (ibid.).

Tale soluzione si impone per il fatto che, in caso contrario, si priverebbero le autorità doganali dello Stato di importazione della possibilità di domandare la prova che il certificato d’origine si basa su una situazione fattuale riferita in maniera inesatta dall’esportatore (Corte di Giustizia UE, Lagura, cit., punto 37).

Invero, nel caso in cui non sussistano dubbi sulla falsità del certificato di origine, ancorchè preferenziale, l’Ufficio può basarsi su ulteriori elementi al fine di inferire l’origine ignota della merce asseritamente di origine preferenziale, anche ai fini dell’applicazione del dazio antidumping, ancorchè in assenza di un procedimento volto ad accertarne la falsità ideologica, purchè l’adozione delle misure recuperatorie sia legittimata anche solo in base alle risultanze delle indagini effettuate dagli organi ispettivi dell’unione Europea (Cass. Civ., 30 ottobre 2013, n. 24439).

Tali principi sono stati riaffermati anche di recente da questa Corte (Cass. civ., 3 maggio 2019, n. 11631) che ha precisato che l’acquisizione della certezza della falsità non postula comunque l’espletamento della procedura: da un lato, difatti, il certificato di corredo delle merci non è precostituito a garanzia della pubblica fede (tra varie, con riguardo al certificato FORM A, Cass. 6 marzo 2013, n. 5531; 15 marzo 2013, n. 6637 e 30 ottobre 2013, n. 24439), sicchè per superarne le risultanze non è ineludibile il ricorso a procedure formali; d’altro lato, sicura rilevanza probatoria va riconosciuta alla relazione dell’OLAF, ufficio Europeo per la lotta antifrode, a meno che essa non si limiti a contenere una mera descrizione dei fatti (Corte giust. 16 marzo 2017, causa C-47/16, Veloserviss SIA, punto 48; nella giurisprudenza interna, tra varie, Cass. 21 aprile 2017, n. 10118).

Da ultimo questa Corte (Cass. civ., 17 gennaio 2020, n. 893) sul punto, ha affermato il seguente principio di diritto: “in caso di preferenze tariffarie generalizzate non è obbligatorio il ricorso alla cooperazione amministrativa con lo Stato di esportazione a termini del Reg. (CEE) del 2 luglio 1993, n. 2454 del 1993, laddove le autorità doganali dello Stato di importazione non nutrano dubbi sull’origine reale delle merci, ancorchè fondati su una informativa dell’OLAF, nonostante tali certificati d’origine non siano stati dichiarati invalidi”

2.3. Nel caso di specie, la sentenza impugnata non contesta le risultanze dell’informativa OLAF, limitandosi ad affermare che “non risulta effettuato da parte dell’Agenzia delle Dogane della Spezia, alcun controllo sul certificato d’origine che accompagnava la merce importata” e che “a seguito delle informazioni dell’OLAF sui possibili traffici illeciti di cavi cinesi dalla Corea del Sud, la Dogana avrebbe dovuto attivare la cooperazione amministrativa sottoponendo al controllo della Dogana Sud – Coreana la documentazione presentata per ogni singola importazione”.

Emerge, peraltro, dalla stessa sentenza impugnata come sia l’informativa (OMISSIS) dell’OLAF, sia una “nota delle autorità doganali sudcoreane acquisita agli atti dall’OLAF con prot. N. (OMISSIS)” danno atto che la società esportatrice dalla quale si è rifornita l’attuale controricorrente “è risultata riesportare cavi in acciaio di origine cinese”.

Non può sorgere dubbio alcuno sulla valenza probatoria in sede giurisdizionale degli accertamenti compiuti dagli organi esecutivi dell’OLAF ai sensi del Reg. (CE) n. 1073 del 1999, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria (Cass., Sez. V, 21 aprile 2017, n. 10118; Cass., Sez. V, 3 agosto 2012, n. 14036; Cass., Sez. V, 27 luglio 2012, n. 13496; Cass., Sez. V, 2 marzo 2009, n. 4997; Cass., Sez. V, 24 settembre 2008, n. 23985), tanto che tali accertamenti possono essere posti, anche da soli, a fondamento degli avvisi di accertamento (Cass., Sez. V, 8 marzo 2013, n. 5892), sicchè la motivazione degli avvisi di accertamento può avvenire anche per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dall’autorità ispettiva, nè l’ufficio viene meno all’onere di una autonoma valutazione degli elementi acquisiti in sede ispettiva, in quanto si limita a condividere le motivazioni espresse dall’autorità ispettiva (Cass. civ., 20 dicembre 2018, n. 32957; Cass. civ., 4 giugno 2018, n. 14275; Cass. civ., 23 febbraio 2018, n. 4396).

Tali conclusioni possono essere estese anche alle altre relazioni ispettive OLAF, posto che tutti gli accertamenti compiuti dall’OLAF hanno rilevanza probatoria nell’Unione Europea in forza di quanto previsto dal Reg. (CE) n. 1073 del 1999 (applicabile al caso di specie), poichè non solo il citato Reg., art. 9, comma 1, riconosce efficacia probatoria privilegiata ai fatti accaduti in presenza degli ispettori (il medesimo art. 9, comma 2, stabilisce l’equipollenza della relazione redatta al termine delle indagini a quella redatta agli ispettori amministrativi dello Stato membro), ma anche l’art. 9, comma 3, e l’art. 10, comma 1 (che prevedono la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di “ogni documento utile” acquisito, nonchè della comunicazione di “qualsiasi informazione” ottenuta nel corso delle indagini), inducono a ritenere utilizzabili anche altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dal suddetto organismo antifrode, e quindi anche dei verbali delle operazioni di missione (Cass., Sez. V, 27 luglio 2012, n. 13496).

2.4. Pertanto, l’esistenza di specifiche risultanze conseguenti all’attività ispettiva attivata dall’OLAF comporta la insussistenza di ogni dubbio sulla falsità del certificato di origine preferenziale, che non richiede la preventiva attivazione della cooperazione amministrativa, sicchè la pronuncia censurata non è conforme ai suddetti principi, avendo ritenuta la necessità, pur in presenza di informazioni dell’OLAF, sui possibili traffici illeciti di cavi cinesi dalla Corea del Sud, di attivare la cooperazione amministrativa.

3. Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, per avere ritenuto violato il diritto al contraddittorio preventivo della società contribuente.

3.1. Il motivo è fondato.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di avvisi di rettifica in materia doganale, è inapplicabile la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, operando in tale ambito lo jus speciale di cui al D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11, nel testo utilizzabile ratione temporis, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all’impugnazione in giudizio del suddetto avviso, come confermato dalla normativa sopravvenuta (D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 27), la quale, nel disporre che gli accertamenti in materia doganale sono disciplinati in via esclusiva dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, ha introdotto un meccanismo di contraddittorio assimilabile a quello previsto dallo Statuto del contribuente (Cass. Civ., 1 ottobre 2018, n. 23669; Cass. Civ., 2 luglio 2014, n. 15032; Cass. Civ., 5 aprile 2013, n. 8399).

Inoltre, va precisato che la Corte di giustizia (20 dicembre 2017, Preqù Italia, C-276/16) ha ritenuto compatibile con il diritto dell’Unione la normativa italiana, nella versione antecedente alla novella del 2012, applicabile anche nel caso in questione, che senza definire direttamente la fase procedimentale lasciava all’iniziativa del contribuente la contestazione della rettifica idonea a instaurare l’interlocuzione con l’Amministrazione (v. Cass. Civ., n. 23669 del 2018, cit.).

4. Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e dell’art. 132 c.p.c., per avere reso una motivazione inesistente sulla questione della applicabilità al caso di specie della previsione di cui all’art. 220 CDC, non avendo in alcun modo esposto l’iter logico giuridico seguito.

4.1. Il motivo è fondato.

Al riguardo va precisato che il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), e cioè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4 (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata.

Pertanto, la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. cit.; v. anche Cass., Sez. un., n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata).

Sicchè, ove la sentenza, affrontando una determinata questione, sebbene dia risposta graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture, la stessa è da considerarsi nulla sul punto per violazione della regola processuale di cui all’art. 132 c.p.c. (Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 2016; conf. Cass. Civ., n. 14927 del 2017).

4.2. Nella fattispecie, differentemente da quanto sostenuto dalla controricorrente a fondamento della eccepita inammissibilità del motivo di censura in esame, il giudice del gravame, dovendo pronunciare sulla questione dell’applicabilità dell’art. 220 CDC, al caso di specie, si è limitato a dare atto della “mancata applicazione dell’art. 220 CDC, essendo ricorrente nel caso in esame l’ art. 220 CDC, comma 2, lett. b),” senza esplicitare, in particolare, sulla base di quali specifici elementi, in fatto ed in diritto, ha ritenuto che, nella fattispecie, poteva dirsi esistente l’errore attivo dell’autorità doganale, la possibilità della sua conoscenza da parte del debitore e la sua buona fede.

Si tratta, quindi, di una motivazione nulla ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), in quanto meramente apparente.

5. Con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del Reg. (CE) n. 2913 del 1992, art. 220, non avendo il giudice del gravame accertato la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della suddetta disposizione, con particolare riferimento alla sussistenza dell’errore attivo dell’autorità doganale competente, all’impossibilità per la parte di accorgersi di tale errore e al rispetto delle prescrizioni formali per il compimento dell’operazione doganale.

5.1. L’accoglimento del quarto motivo di ricorso comporta l’assorbimento del motivo di ricorso in esame.

In conclusione, sono fondati i motivi di ricorso dal primo al quarto, assorbito il quinto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Commissione tributaria regionale, anche per l’eventuale esame delle domande ed eccezioni riproposte dalla controricorrente su questioni ritenute assorbite dal giudice del gravame e per la liquidazione delle spese di lite.

Relativamente al procedimento iscritto al n. R.G. 20852/2017.

Come già esposto, il procedimento in esame ha riguardo al successivo atto di contestazione della sanzione conseguente alla notifica a CAD Italia s.r.l. dell’avviso di accertamento in rettifica n. prot. (OMISSIS), relativo alla dichiarazione di importazione (OMISSIS), che costituisce uno degli avvisi di accertamento oggetto del giudizio iscritto al n. R.G. 23225/20015.

La circostanza che, in questa sede, si è provveduto alla riunione dei giudizi, comportando una trattazione unitaria sia della legittimità del prodromico avviso di accertamento che dell’atto sanzionatorio, fa venire meno la rilevanza delle questioni prospettate che attengono al rapporto tra i giudizi in esame ed ai limiti del potere del giudice dinanzi al quale è in contestazione l’atto sanzionatorio di sindacare anche sulla legittimità del prodromico avviso di accertamento in rettifica.

Sotto tale profilo perdono di rilevanza: il primo motivo di ricorso, con il quale si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 16 e 17, per avere ritenuto di potere pronunciare sulla sanzione anche se altro giudice aveva annullato il prodromico avviso di accertamento in rettifica; il secondo motivo di ricorso, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per omessa applicazione dell’art. 295 c.p.c., per non avere sospeso il giudizio relativo alla pretesa sanzionatoria, stante la pendenza del giudizio relativo al prodromico atto impositivo; il terzo, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, per avere pronunciato in modo contraddittorio, avendo, da un lato, affermato la natura accessoria della sanzione e, dall’altro, dichiarato di potere comunque pronunciare sull’atto di contestazione della sanzione, conferendo natura autonoma alla medesima sanzione.

Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303, per avere ritenuto che anche l’errore sull’origine della merce rientra tra le ipotesi sanzionate.

Il motivo è infondato.

Questa Corte (Cass. civ., 7 febbraio 2019, n. 3594) ha più volte affermato che in materia di dazi doganali, la qualità di una merce rappresenta il coacervo degli elementi distintivi di essa e ricomprende tra i medesimi anche il dato di origine, che assume una connotazione del tutto pregnante sia in relazione alle caratteristiche del bene a fini civilistici, sia in relazione alla correttezza delle dichiarazioni doganali in funzione della circolazione delle merci e dell’efficienza dei controlli, tanto più in considerazione delle eventuali preferenze tariffarie a taluni prodotti originari di Paesi in via di sviluppo accordate dall’Unione Europea, sicchè la sanzione prevista dall’art. 303 T.U.L.D., riguarda ogni ipotesi di difformità o falsità della dichiarazione doganale in ordine ai suoi elementi essenziali, afferenti, cioè, oltre che a valore, quantità, qualità delle merci, anche, all’origine delle merci stesse, atteso che la norma in esame, comma 3, non pone distinzioni di fattispecie e che, il comma 1, menziona le difformità di qualità da interpretarsi estensivamente (e non analogicamente) come comprensive, anche, delle diversità di origine (Cass., Sez. 5, 3.8.2012, n. 14042, Rv. 623866-01). Nè osta ad una simile possibilità di indagine ermeneutica la natura sanzionatoria della norma in questione, essendo finanche le norme penali incriminatrici suscettibili di interpretazione estensiva tale criterio ermeneutico incontrando un limite, unitamente all’analogia, esclusivamente nella natura “eccezionale” della norma (ipotesi che non ricorre nella fattispecie disciplinata dal D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303) ovvero nel caso in cui il risultato dell’esegesi normativa dovesse incidere, ulteriormente limitandolo, su un diritto costituzionalmente tutelato.

Peraltro, neppure rileva, in senso contrario all’applicazione delle sanzioni in commento, l’eventuale inconsapevolezza che l’importatore abbia delle irregolarità della dichiarazione, oggetto di successiva contestazione: in proposito questa Corte ha già chiarito (Cass. civ., 3 febbraio 2012, n. 1583) che, accertata la falsità

(ideologica o materiale) del certificato di origine della merce, è irrilevante che il dichiarante abbia agito in buona fede ed in modo diligente, ignorando un’irregolarità che ha comportato la mancata riscossione dei dazi che egli, altrimenti, avrebbe dovuto pagare, non essendo l’Unione Europea tenuta a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini rientranti nel rischio dell’attività commerciale, contro il quale gli operatori economici ben possono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali (cfr. Corte di giustizia CE, sent. 17 luglio 1997, in causa C-97/95).

Nè rileva, ai fini di una diversa valenza interpretativa, la circostanza, evidenziata dalla ricorrente, che con l’intervento compiuto dal D.L. n. 16 del 2012, pur essendo stata rivista la previsione normativa in esame, non è stata espressamente inserita, tra le condotte sanzionate, la violazione in materia di origine della merce, in quanto tale circostanza non muta il presupposto di fondo, su cui si fonda la linea interpretativa seguita da questa Corte, secondo cui la qualità di una merce è espressione che ricomprende, tra i diversi elementi distintivi della merce, anche il dato di origine.

Con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, per avere ritenuto che nella fattispecie non era stato violato il principio del contraddittorio. Le considerazioni espresse con riferimento al terzo motivo di ricorso di cui al procedimento iscritto al n. R.G. 23225/2015 hanno valore assorbente del presente motivo.

Con il sesto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del Reg. Cee n. 2913 del 1992, artt. 76, 201 e 202, per avere ritenuto sussistente la responsabilità solidale della società in considerazione del fatto che la stessa aveva operato quale rappresentante indiretto, posto che, in tal modo, si prescinderebbe dal principio di colpevolezza, dunque dalla verifica del fatto che tutti i soggetti che hanno partecipato all’operazione doganale sapessero o avrebbero dovuto ragionevolmente sapere che i dati versati nella dichiarazione non erano corretti.

Con il settimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5 e 10, per avere escluso la sussistenza, al caso di specie, dell’esimente dell’autore mediato. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono al profilo della responsabilità della società, sono infondati.

Nella vicenda in esame è incontroverso che le importazioni sono avvenute in base alla presentazione, da parte della società, quale rappresentante indiretto, di dichiarazioni doganali, sicchè la fattispecie resta sussunta nell’art. 201 CDC.

Questa Corte (Cass. civ., 19 dicembre 2019, n. 34077) ha chiarito, infatti, che l’art. 4 CDC, punto 9, definisce l’obbligazione doganale come l’obbligo di una persona di corrispondere l’importo dei dazi all’importazione applicabili a una determinata merce, sicchè è l’immissione in libera pratica, ossia l’atto di introdurre, nel territorio comunitario, merce di provenienza extracomunitaria, che rappresenta il presupposto dell’obbligazione doganale.

Tale atto, nelle operazioni doganali regolari, è preceduto dalla dichiarazione doganale, che costituisce la manifestazione di volontà dell’importatore o, comunque, dell’operatore che la presenta, di rendere liberamente commerciabili i beni esteri in un mercato diverso da quello di origine, e tale fattispecie è espressamente regolata dall’art. 201 CDC; l’art. 202 CDC, invece, prevede che l’obbligazione doganale sorge con l’immissione in libera pratica nel territorio comunitario anche nei casi di “introduzione irregolare” e di “sottrazione indebita al controllo doganale”.

In altri termini, nelle ipotesi contemplate dall’art. 201 CDC, la nascita dell’obbligazione è collegata – come per la vicenda in esame – alla dichiarazione doganale, mentre negli altri casi, venendo a mancare l’elemento dichiarativo e l’indicazione della destinazione della merce, opera una presunzione legale di immissione in libera pratica.

Ne deriva che il rappresentante indiretto è, in quanto tale, soggetto passivo dell’obbligazione doganale in pari misura rispetto all’importatore.

Va poi escluso, diversamente da quanto sostenuto dalla società, che il rappresentante indiretto sia esente da responsabilità per il solo fatto dell’inconsapevolezza della irregolarità della merce, gravando su di esso “l’obbligo di vigilare, con la diligenza qualificata da ragguagliare, ex art. 1176 c.c., comma 2, alla natura dell’attività esercitata, sull’esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore allo Stato di esportazione, al fine di evitare abusi, posto che l’Unione Europea non è tenuta a subire le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini, rientranti nel rischio dell’attività commerciale, e contro i quali gli operatori economici ben possono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali” (Cass. civ., 8 febbraio 2019, n. 3739; Cass. civ., 12 febbraio 2019, n. 4059; Cass. civ., 26 febbraio 2019, n. 5560; Cass. civ., 23 maggio 2018, n. 12719), obbligo a cui corrisponde l’onere di provare la ricorrenza delle condizioni idonee a soddisfare i richiesti parametri di diligenza.

Il giudice del gravame si è conformato ai suddetti principi, avendo preso in considerazione il particolare obbligo di diligenza cui il rappresentante indiretto è tenuto ed avendo precisato che la società non aveva, peraltro, offerto elementi di valutazione che avrebbero potuto consentire di escludere l’inosservanza agli obblighi di diligenza dalla stessa esigibili (osserva il Collegio che la qualificazione professionale degli operatori del CAD si presume tale da porli in grado di rilevare, salvo, ovviamente, gli approfondimenti del caso da parte di CAD, che qui non risultano effettuati, eventuali incongruenze tra dichiarato e realmente trattato).

Le considerazioni sopra espresse assumono valenza anche con riferimento alla ragione di censura di cui al settimo motivo di ricorso, relativo all’applicabilità dell’esimente dell’autore mediato, posto che, nella fattispecie, la responsabilità della società, come precisato, viene configurata in relazione ad una condotta alla stessa riconducibile.

Sul punto, questa Corte (Cass. civ., 28 febbraio 2019, n. 5909) ha affermato il seguente principio di diritto: “In tema di sanzioni tributarie in materia di dazi, la disciplina dell’autore mediato di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 10, non trova applicazione in favore del rappresentante indiretto dell’importatore (in procedura di domiciliazione), in quanto autore della dichiarazione in dogana, nel caso di indicazione di un valore della merce inferiore a quello di vendita dovuto a colpa dello stesso dichiarante, per difetto della relativa diligenza esigibile e ragguagliata, a norma dell’art. 1176 c.c., alla natura dell’attività professionale esercitata, che implica un obbligo di informazione ma anche di attenta verifica dell’esattezza dei dati dichiarati, strumentali rispetto al corretto espletamento dell’incarico conferito”.

Con l’ottavo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5-bis, per difetto di motivazione dell’avviso di accertamento, in quanto nel caso di specie la pretesa impositiva era priva di motivazione, non essendo stati comunicati alla società nè l’esito delle indagini svolte dalle competenti autorità estere nè gli atti relativi ai riscontri compiuti per accertare l’origine cinese delle merci importate.

Il motivo è infondato.

Il D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5-bis, prevede che: “La motivazione dell’atto deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto non conosciuto nè ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale ai fini della difesa. L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la motivazione di cui al presente comma”.

Sul punto, questa Corte (Cass. civ., 4 febbraio 2020, n. 2471) ha più volte affermato che “L’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso va inteso, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3, in relazione alla “finalità integrativa” delle ragioni che sorreggono l’atto impositivo: il contribuente ha il diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare la motivazione, ma non anche di tutti quelli cui, comunque, vi sia un riferimento ove la motivazione sia già sufficiente oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (nella parte rilevante ai fini della motivazione) sia già riportato nell’atto noto, spettando a lui provare che almeno una parte del contenuto di tali atti sia necessaria ad integrarne la motivazione. Inoltre l’avviso di accertamento in materia doganale, che si fondi su verbali ispettivi OLAF, i quali hanno carattere riservato (Reg CE n. 1073 del 1999, art. 8), ma possono essere utilizzati dall’Amministrazione nei procedimenti giudiziari per inosservanza della regolamentazione doganale, è legittimamente motivato ove risponda alle prescrizioni del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5 bis, ossia riporti nei tratti essenziali, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa, il contenuto di quegli atti presupposti richiamati per relationem ancorchè non allegati, dovendosi ritenere la produzione del rapporto finale OLAF non inclusa tra i requisiti di validità della motivazione dell’atto impositivo”.

Il giudice del gravame, pronunciando sul motivo di appello relativo alla questione in esame, ha valutato il contenuto dell’avviso di accertamento, precisando che “il fatto contestato è chiaramente identificato nell’origine cinese delle merci, accertata nell’ambito della missione OLAF nel cui Interim Report n. (OMISSIS) (…), dal quale emerge l’origine cinese della merce oggetto di indagine, che rende sufficientemente motivato l’avviso” e, in un successivo passaggio, ha, inoltre, precisato che nell’avviso “de quo” il contenuto della relazione OLAF è stato riportato in sintesi, ma in guisa sufficiente per porre le parti in condizione di approntare adeguata difesa e il giudice in grado di comprendere il tenore dell’indagine, secondo orientamento giurisprudenziale di legittimità”.

Pertanto, il giudice del gravame ha ritenuto, con una valutazione non censurabile in questa sede, che l’avviso di accertamento contenesse elementi sufficienti per consentire alla parte di conoscere le ragioni della pretesa, e tale valutazione è conforme alla previsione normativa indicata nonchè ai principi espressi da questa Corte, essendo fondata sulla considerazione della sufficiente riproduzione della relazione OLAF nell’accertamento in rettifica. Con il nono motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione dell’art. 2697 c.c., per avere riconosciuto alla relazione OLAF il valore di prova presuntiva, senza, tuttavia, analizzare e maturare un proprio autonomo convincimento in ordine alle conclusioni della stessa e senza considerare che solo le relazioni finali conclusive sono dotate di valore probatorio, mentre lo stesso non può essere riconosciuto alla nota informativa preliminare, atteso il suo carattere provvisorio.

Il motivo è infondato.

Va osservato, in primo luogo, che la pronuncia in esame ha, correttamente, ritenuto che la pretesa dell’Amministrazione doganale era legittima in quanto fondata su idonei elementi di prova, sicchè non sussiste alcuna alterazione delle regole in materia di riparto dell’onere probatorio.

Valgono, in ogni caso, in questo contesto le considerazioni già espresse in sede di esame del secondo motivo di ricorso di cui al ricorso iscritto al n. R.G. 23225/2015 e, in particolare, con riferimento alla questione prospettata che solo la relazione OLAF conclusiva può assumere al rango di prova presuntiva, al principio secondo cui la valenza di prova presuntiva può essere riconosciuta non solo alla relazione finale dell’OLAF, ma anche alle altre relazioni ispettive OLAF, posto che tutti gli accertamenti compiuti dall’OLAF hanno rilevanza probatoria nell’Unione Europea in forza di quanto previsto dal Reg. (CE) n. 1073 del 1999, sicchè sono utilizzabili anche altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dal suddetto organismo antifrode, e quindi anche dei verbali delle operazioni di missione.

Con il decimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Il motivo è inammissibile.

Secondo l’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), il vizio in esame concerne l’omesso esame di un fatto storico, anche solo secondario, dotato delle seguenti caratteristiche: deve risultare dal testo della sentenza o anche dagli atti processuali (e, in tali termini, può essere anche extratestuale), per cui occorre l’illustrazione del momento e del luogo in cui quel fatto ha fatto ingresso nel processo; deve avere costituito oggetto di discussione tra le parti, con illustrazione del momento e del luogo della discussione processuale; deve avere carattere decisivo, per cui il ricorrente deve illustrare logicamente come l’esame di tale fatto storico avrebbe determinato un esito diverso della controversia.

Pertanto, non rileva, ai fini del suddetto motivo di gravame, il solo omesso esame di elementi istruttori, non essendo il giudice onerato di dover dare conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053), sicchè la parte ricorrente non può dolersi, con il suddetto motivo, del mancato esame di alcuni elementi istruttori da parte del giudice del merito.

Ciò precisato, con il presente motivo la ricorrente si è limitata a illustrare il mancato esame da parte del giudice del merito di due circostanze in fatto: che il giudice aveva trascurato di considerare che l’esportatore coinvolto nell’indagine OLAF fosse un produttore; nonchè che un certificato di origine relativo a tale produttore si fosse rivelato genuino; dolendosi, infine, di una circostanza che attiene, piuttosto, ad una violazione di legge, riguardando la riconosciuta valenza di prova presuntiva alle risultanze dell’OLAF. Prescindendosi da questa ultima circostanza, che non costituisce fatto storico e su cui, comunque, sono state espresse le relative considerazioni, non è stato adeguatamente illustrato il giudizio di decisività del mancato esame del fatto storico che il fornitore fosse anche produttore dei cavi di acciaio e dell’altro fatto storico che uno dei certificati sottoposti ad esame si fosse rivelato genuino, non potendosi considerare adeguato il criptico giudizio adottato (tali fatti e circostanze (…) sono decisivi per il giudizio, giacchè avrebbero determinato, se correttamente valutati (…) l’annullamento dei provvedimenti impositivi).

Si tratta, in realtà, di un motivo di censura che si risolve, piuttosto, in una richiesta di revisione della valutazione della prova, cioè della rilevanza della prova presuntiva attribuita dal giudice del gravame alle risultanze OLAF, non deducibile alla stregua dell’attuale formulazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Con l’undicesimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione dell’art. 220 CDC, per non avere ritenuto rilevante il legittimo affidamento che la società aveva riposto sui certificati emessi dall’autorità coreana e non avere rilevato che l’errore era imputabile alla suddetta autorità, nonchè la sussistenza della propria buona fede, essendo estranea alle violazioni contestate e non essendo stati mai i certificati di origine invalidati dall’autorità del paese di esportazione; inoltre, prospetta la violazione dell’art. 239 CDC, sussistendo i presupposti per lo sgravio della pretesa daziaria in forza della sua buona fede.

Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

Con riferimento alla questione del legittimo affidamento e della buona fede, è consolidato il principio espresso da questa Corte secondo cui, ove venga accertata in sede di controllo la falsità o anche solo la non corrispondenza al vero dei certificati di origine della merce, con conseguente contabilizzazione a posteriori dei maggiori dazi dovuti da parte dell’autorità doganale, l’esimente della buona fede, che consente all’importatore di andare esente da tale maggiore imposizione a termini del Reg. (CEE) n. 2913 del 1992, art. 220, par. 2, lett. b), prescinde del tutto dallo stato soggettivo dell’importatore, come correttamente ritenuto dal giudice di appello, ossia dalla effettiva consapevolezza circa la veridicità delle informazioni fornite dall’esportatore alle autorità del proprio Stato. In questo caso, è onere del contribuente dimostrare di avere agito secondo uno standard oggettivo di diligenza qualificata, richiesta in ragione dell’attività professionale di importatore svolta, ex art. 1176 c.c., comma 2, per verificare la ricorrenza delle condizioni per il trattamento preferenziale, mediante un controllo sull’esattezza delle informazioni rese dall’esportatore (Cass. civ., 23 maggio 2018, n. 12719), controllo che si estende alla esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore allo Stato di esportazione (Cass., Sez. V, 15 marzo 2013, n. 6621). Ove venga data la prova da parte dell’importatore dell’uso della diligenza professionale richiesta, può considerarsi provato il fatto impeditivo della buona fede del debitore doganale (l’importatore), con preclusione del recupero dei maggiori diritti di confine nei suoi confronti, in ossequio al principio di affidamento del debitore circa la fondatezza degli elementi che intervengono nella decisione di recuperare i dazi (Cass., Sez. V, 27 marzo 2013, n. 7702).

Tuttavia, ai fini della sussistenza dell’esimente della buona fede quale fatto impeditivo all’applicazione dei maggiori dazi derivanti da un controllo a posteriori sulla origine della merce importata (e della verifica circa la sussistenza di questo standard oggettivo), occorre che vi sia la sussistenza congiunta – oltre che dell’osservanza di tutte le prescrizioni in vigore – sia del rilascio irregolare dei certificati di origine a causa di un errore delle autorità competenti (ancorchè del paese di esportazione), sia della non riconoscibilità dell’errore da parte dell’importatore/dichiarante (ex multis Corte di Giustizia UE, 14 maggio 1996, Faroe Seafood, C153/94 e 204/94, punto 83; Corte Giustizia UE, 3 marzo 2005, Biegi Nahrungsmittel 0499/03, punto 46, Corte Giustizia UE, 18 ottobre 2007, Agrover, C-9-173/06, punto 30; Cass., Sez. V, 16 ottobre 2006, n. 22141). Solo nel caso in cui il rilascio del certificato di origine sia dovuto ad errore delle autorità doganali occorre accertare che tale errore non fosse, secondo la diligenza professionale richiesta all’importatore, ragionevolmente riconoscibile secondo la diligenza professionale richiesta, al fine di ritenere che sussista il legittimo affidamento dell’importatore. Ed è onere dell’importatore provare quale fatto impeditivo, oltre al rispetto delle prescrizioni normative, sia l’esistenza di questo errore da parte dell’autorità competente (cd. errore attivo), sia la non riconoscibilità dello stesso secondo standard obiettivi di diligenza. In questo caso sorge, sempre in capo al debitore in dogana (importatore o dichiarante), l’onere di provare che, facendo uso della diligenza professionale oggettivamente richiesta ed esigibile secondo l’attività professionale esercitata, tale errore non sarebbe stato riconoscibile, essendo, da un lato, l’errore riconducibile esclusivamente al comportamento dell’autorità doganale competente, dall’altro essendo questo errore oggettivamente non riconoscibile dall’importatore (Cass., Sez. V, 14 marzo 2012, n. 4022).

Ciò è quanto risulta avvenuto nel caso di specie, ove è stato accertato dal giudice del gravame nella sentenza impugnata che in questo caso non occorre alcun accertamento della buona fede dell’importatore, posto che non è stata data la prova della sussistenza di un errore attivo imputabile all’autorità doganale competente, non costituendo errore rilevante ai fini della esimente in oggetto (cd. errore attivo) quello ingenerato dalle inesatte dichiarazioni rilasciate dall’esportatore, circostanza la quale rientra nel normale rischio commerciale dell’importatore, costretto a sopportare eventuali irregolarità o falsità di un documento commerciale rivelatosi tale in occasione di un successivo controllo (Cass. civ., 16 ottobre 2016, n. 2214; Cass. civ., 6 luglio 2016, n. 13770).

Con riferimento, poi, alla ritenuta violazione dell’art. 239 CDC, la censura è inammissibile per difetto di specificità, non avendo la ricorrente indicato se tale questione era stata già prospettata nel corso del giudizio di merito e in quali atti la stessa era stata affrontata e trattata.

In conclusione, sono infondati il quarto, sesto, settimo, ottavo e nono motivo di ricorso, è inammissibili il decimo, è in parte infondato ed in parte inammissibile l’undicesimo, sono assorbiti il primo, il secondo il terzo e il quinto, con conseguente rigetto del ricorso.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La corte:

decidendo sui ricorsi riuniti iscritti al n. R.G. 23225/2015 e al n. R.G. 20852/2017:

relativamente al procedimento iscritto al n. R.G. 23225/2015: accoglie il primo, secondo, terzo e quarto motivo, assorbito il quinto;

relativamente al procedimento iscritto al n. R.G. 20852/2017: dichiara infondati il quarto, sesto, settimo, ottavo, nono motivo di ricorso, inammissibile il decimo, in parte infondato ed in parte inammissibile l’undicesimo, assorbiti il primo, il secondo il terzo e il quinto, con conseguente rigetto del ricorso; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Cassa la sentenza impugnata per i motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Liguria, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 13 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

 

 

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