Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25341 del 09/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 09/10/2019, (ud. 20/12/2018, dep. 09/10/2019), n.25341

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12892-2015 proposto da:

L.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI

209, presso lo studio dell’avvocato CESARE CARDONI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GUIDO CONTICELLI;

– ricorrente –

contro

CODERE ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL CORSO 4, presso

lo studio dell’avvocato MASSIMO MANFREDONIA, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso il provvedimento n. 1322/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/05/2014 R.G.N. 8507/2007.

LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore:

Fatto

RILEVA

che per ottenere compensi in regime di c.d. abbonamento la consulente del lavoro L.T., a seguito di incarico professionale con decorrenza gennaio 2004, come da contratto concluso il 30-12-2003, aveva agito in via monitoria con due ricorsi: il primo concernente residui compensi relativi agli ultimi due mesi del 2004; il secondo inerente al pagamento dell’indennità dovuta a seguito di recesso anticipato della società dal rapporto di consulenza in regime di abbonamento annuale senza l’osservanza del termine di preavviso di cui all’art. 13 del suddetto contratto, con conseguente diritto ad un’indennità pari all’80% dei soli onorari per i mesi mancanti, sicchè era stato emesso il d.i. n. 326/05 per l’ammontare di 56.468,84 Euro, in base alle previsioni del contratto, laddove veniva pure richiamato il D.M. n. 430 del 1992 (di approvazione delle tariffe per i consulenti del lavoro, in part. l’art. 17);

il giudice di primo grado rigettava le opposizioni della società – cliente – opponente, CODERE Italia S.p.a., la quale appellava quindi la decisione, poi riformata (in buona parte) dalla Corte capitolina, con la revoca di entrambi i decreti opposti e la condanna di CODERE Italia al pagamento della minor somma di Euro 14.117,21 Euro, ritenendo fondata la pretesa creditoria di cui al secondo d.i. n. 326/05, limitatamente a tre mesi dell’anno 2004, per cui vi era stato il recesso della cliente (però tardivamente pervenuto alla destinataria consulente il 5 ottobre 2004, quindi oltre il termine di mesi tre, previsto da contratto individuale);

avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la sig.ra L.T., affidato a sette motivi, come da atto notificato a mezzo p.e.c. in data 12 maggio 2015, cui ha resistito CODERE Italia S.p.a. mediante controricorso in data 16-17 giugno 2015;

entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il 1 motivo è stata denunciata la omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, anche in relazione agli artt. 409 e 429 c.p.c., per la parte in cui era stata esclusa nel rapporto di lavoro in questione la sussistenza degli estremi della parasubordinazione, di modo che l’attività espletata a favore della committente andava ricondotta nell’ambito della previsione di cui all’art. 429 c.p.c., con il riconoscimento degli accessori contemplati da detta norma di legge;

la doglianza è del tutto inconferente, non ricorrendo nella specie gli estremi del vigente art. 360, comma 1, n. 5 codice di rito, secondo il testo ratione temporis applicabile in relazione alla sentenza impugnata, risalente all’anno 2014, per cui rileva unicamente l’omesso esame di fatti storici, ben determinati e decisivi ai fini della definizione della causa, mentre la motivazione può assumere rilevanza unicamente ove inferiore al c.d. minimo costituzionale (cfr. Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014 e la conforme giurisprudenza sul punto); la formulata censura di cui al suddetto primo motivo si appalesa, comunque, infondata alla stregua di quanto sul punto accertato dalla Corte di merito, circa l’insussistenza di alcun concreto pregiudizio difensivo, mentre la questione accessori non risulta allegata in via principale ed in modo esauriente (peraltro, il suddetto D.M. prevede che nei casi di ritardo ivi indicati spettano gli accessori di cui all’art. 429 c.p.c., cfr. il testo in vigore dal 25-11-1992 dell’art. 16 – Termine di pagamento delle parcelle: “1. Trascorsi tre mesi dall’invio della parcella senza che la stessa sia stata contestata nella congruità, in caso di mancato pagamento si applica, oltre all’interesse di mora al tasso legale, la rivalutazione monetaria, così come fissato dalla L. 11 agosto 1973, n. 533”, ma sul punto il ricorso nulla dice); con il secondo motivo è stata denunciata la violazione e/o falsa applicazione e in particolare degli artt. 2697 e 1218 c.c. per la parte in cui la Corte capitolina aveva ritenuto sussistente a carico di parte attrice l’onere probatorio in ordine all’esatto adempimento delle proprie obbligazioni;

con il terzo motivo è stata dedotta la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 115 c.p.c., avendo la Corte d’Appello disposto l’espletamento di c. t. u. in violazione del principio della disponibilità delle prove;

la 2^ e 3^ censura, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, però risultano infondate nei seguenti termini;

infatti, vero è che secondo la prevalente giurisprudenza alla parte attrice, nella specie in senso sostanziale l’opposta – ricorrente in via monitoria, basta (comunque osservate le allegazioni richieste dall’art. 2697 c.c., comma 1) dedurre l’inadempimento, ovvero l’inesatto adempimento della controparte obbligata – debitrice, tenuta invece a fornire la prova liberatoria art. 2697, ex comma 2 ed ai sensi dell’art. 1218 c.c.. Tuttavia, nella specie, come si evince dalla complessiva lettura della sentenza d’appello (che è solo formalmente errata laddove ha affermato -ma quasi in astratto ed in via generale- l’opposto principio di diritto), ben si comprende che l’opponente società non si limitò soltanto a dedurre, sufficientemente, l’inesatto inadempimento della consulente L., eccepito in compensazione con riferimento alle penali previste dal contratto, ma depositò anche opportuna e pertinente documentazione a sostegno delle sue tesi, perciò offrendo la prova occorrente (ex art. 2697 c.c., comma 2 e art. 1218 c.c.), sicchè correttamente venne disposta ed espletata apposta c.t.u. contabile sulla scorta appunto del materiale probatorio prodotto dalla opponente – debitrice;

in base alle risultanze della c.t.u., motivatamente recepite dalla Corte di merito, è stato quindi giudicato fondato, perchè dimostrato, l’inadempimento eccepito dall’opponente, ancorchè poi quest’ultima non avesse spiegato apposita domanda riconvenzionale, donde, attesa la maggiore entità delle penali per inesatto adempimento rispetto al credito vantato dalla consulente opposta, del tutto legittimamente e senza alcuna indebita inversione di onere probatorio, nè alcuna violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., il primo decreto ingiuntivo veniva revocato;

con il 4 motivo è stata lamentata la omessa o insufficiente motivazione di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, laddove la Corte distrettuale non aveva ritenuto dimostrati, dalla stessa ricorrente, gli inadempimenti della società, con conseguente applicazione dell’art. 6, penultimo comma, del contratto stipulato il 30-12-2003;

tale doglianza è inammissibile, perchè non ricorrono gli estremi del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (testo vigente), di cui sè già detto sopra in relazione al primo motivo, laddove peraltro apprezzamenti e valutazioni di competenza del giudice di merito, quanto alle risultanze istruttorie, non sono censurabili in sede di legittimità, se non nei rigorosi termini attualmente consentiti dalla c.d. critica vincolata di cui al medesimo art. 360;

parimenti va osservato in punto d’inammissibilità riguardo alla connessa 5 censura (falsa applicazione, in particolare, dell’art. 1462 c.c. per la parte in cui la Corte d’Appello aveva ritenuto che nell’art. 6, penultimo comma del contratto stipulato il 30-12-2003, dovese ravvisarsi una clausola “solve e repete”), la quale presuppone una erronea interpretazione del contratto 30-12-2003 (art. 6) da parte della Corte distrettuale, erronea interpretazione che non risulta essere però stata ritualmente denunciata per violazione degli artt. 1362 c.c. e ss. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè la pretesa falsa applicazione dell’art. 1462 implica necessariamente una invalida ermeneutica del testo negoziale in questione, in relazione al quale difettano pertinenti e specifiche confutazioni di quanto in proposito opinato dalla Corte di merito;

con 6 motivo è stata denunciata la omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per la parte in cui la Corte territoriale aveva omesso di prendere posizione su quanto dedotto dalla difesa di essa ricorrente in ordine all’esistenza di due diversi titoli negoziali esistenti tra le parti in causa;

anche detta censura è inammissibile (se non anche infondata) in base al vigente art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè per difetto di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, laddove in effetti la censura riguarda la c.t.u., però motivatamente recepita dalla Corte d’Appello con la sentenza qui impugnata, per cui tuttavia la relazione ed i chiarimenti forniti dall’ausiliare non sono stati ritualmente riprodotti nel ricorso de quo;

con il 7 motivo, infine, è stata denunciata la insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, eventualmente anche in connessione con la violazione con la violazione dell’art. 1367 c.c., nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto che l’importo dell’indennità da corrispondere per il tardivo recesso della società dal contratto di abbonamento andasse quantificato nell’80% dei compensi spettanti per i mesi residui fino al 31 dicembre 2004, anzichè fino al 31 dicembre 2005, allo scopo richiamando il D.M. n. 430 del 1992, art. 17 e art. 13 del contratto concluso il 30-12-2003, secondo il quale “In caso di mancata disdetta, da effettuarsi tre mesi prima della scadenza, l’abbonamento annuale d’intenderà tacitamente rinnovato di un ulteriore anno e sul cliente cadrà l’obbligo di corrispondere un compenso allo Studio pari all’80% dei soli onorari, per i mesi mancanti al compimento dell’anno stabilito in abbonamento, sulla base dell’ultimo periodo di assistenza professionale”;

in proposito l’anzidetta censura, relativa unicamente al secondo decreto ingiuntivo, va esaminata alla stregua di tutto quanto nel complesso illustrato dalla ricorrente (in part. “… In sostanza, facendo applicazione dei normali principi ermeneutici (primo tra tutti il principio di conservazione del contratto di cui all’art. 1367 c.c.), il Giudice di appello avrebbe dovuto ritenere che con l’espressione le parti avessero inteso fare riferimento non già all’anno… bensì a quello successivamente aggiuntosi alla previsione originaria per effetto del tacito rinnovo automatico dell’abbonamento….” – l’art. 1367 rubricato “Conservazione del contratto” come è noto stabilisce che nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno);

in proposito la ricorrente ha evidenziato la previsione contenuta nel suddetto art. 13 del contratto d’incarico professionale circa il rinnovo del rapporto per un altro anno in caso di mancata tempestiva disdetta, nel termine di tre mesi prima della scadenza, donde pure l’obbligo di pagamento dei soli onorari in ragione dell’80%, mentre la Corte distrettuale, pur avendo riconosciuto la tardività del recesso, quindi con conseguente rinnovo per l’anno successivo, aveva però con irragionevole contraddittorietà reso del tutto inutile la previsione negoziale, non avendo fatto derivare alcun effetto dal prolungamento dell’abbonamento, così di fatto neutralizzando la pattuizione sul punto intercorsa tra le parti, in violazione quindi anche del principio di conservazione ex art. 1367 c.c., laddove si sarebbe dovuto ritenere che con l’espressione “fino al compimento dell’anno stabilito in abbonamento” i contraenti avessero inteso riferirsi non già all’anno 2004, originariamente stabilito, ma a quello successivamente aggiuntosi alla previsione originaria per effetto del tacito rinnovo automatico dell’abbonamento, parimenti a quanto in proposito valutato dal giudice di primo grado;

invero, la Corte capitolina, dopo aver premesso che secondo l’appellante società – opponente in prime cure, il contratto de quo non era soggetto alla disciplina del regime in abbonamento annuale e che lo stesso rapporto si era risolto per grave inadempimento della L., la cui domanda, d’altro canto, si fondava sull’art. 17 del succitato D.M., richiamato espressamente dall’art. 12 stesso contratto in tema di durata – regime d’abbonamento annuale (“Il presente contratto decorrerà dall’1.1.04 al 31.12.04.

… s’intenderà automaticamente rinnovato alla scadenza, per la durata di un anno ed alle medesime condizioni, ai sensi del D.M. n. 430 del 1992, art. 17 (regime d’abbonamento annuale)”, visto pure il successivo art. 13 in tema di recesso (da esercitarsi dietro preavviso in forma scritta ad probationem con lettera raccomandata a.r. almeno tre mesi prima della scadenza, previo conguaglio pro quota del compenso annuale), disattendeva in primo luogo la tesi della società circa la sostenuta inapplicabilità di tutto il regime d’abbonamento annuale, in quanto a prescindere dal regime e dalla tipologia di pagamento prevista, quanto allo specifico aspetto della durata e del rinnovo le parti avevano fatto (esplicito) riferimento al D.M. n. 430 del 1992, del quale veniva riportato il testo (v. infatti il D.M. Grazia e Giustizia 15 luglio 1992, n. 430, art. 17 -Regolamento recante approvazione delle deliberazioni in data 16 maggio 1991 e 10 giugno 1992 del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro concernenti la tariffa professionale della categoria – G.U. n. 265 del 10-11-1992, in vigore dal 25-111992: “Art. 17. Regime di abbonamento.

1. Il consulente del lavoro può assumere in regime di abbonamento annuale gli adempimenti connessi all’incarico professionale.

2. L’eventuale disdetta, da parte del cliente, deve essere comunicata per iscritto almeno sei mesi prima della scadenza; in difetto l’abbonamento si intende tacitamente rinnovato per un altro anno.

3. In caso di anticipato scioglimento del contratto, al consulente del lavoro spetta un compenso pari all’80 per cento dei soli onorari per i mesi mancanti al compimento dell’anno stabilito in abbonamento, sulla base dell’ultimo periodo di assistenza professionale, fatto salvo il caso di cessazione di attività aziendale.”). Quindi, richiamata pure la lettera di disdetta datata 29-09-2004, per il recesso dall’incarico professionale, che sarebbe quindi cessato il 31.12.04, ricevuta dalla destinataria il successivo 4 ottobre 2004, “oltre il termine contrattuale”, richiamate altresì succintamente le tesi delle due parti, la Corte di merito ha giudicato condivisibile la linea difensiva della L. per le ragioni indicate (cfr. in part. pag. 10 della sentenza impugnata), escludendo quindi la prospettazione di CODERE ITALIA (secondo cui non vi era stato alcuno scioglimento anticipato del rapporto, mentre il contratto si sarebbe risolto successivamente a marzo 2005 per inadempimento della L.), ritenendo però che l’interpretazione letterale della norma contrattuale, anche alla luce del menzionato D.M., escludesse la possibilità di calcolare l’indennità, contrariamente a quanto preteso dall’appellata, sulla base dell’80% degli onorari di tutto l’anno (cfr. meglio pag. 11 della pronuncia d’appello);

la motivazione fornita sul punto circa l’interpretazione letterale della norma contrattuale, opinata dalla Corte capitolina, è alquanto oscura, oltre che indubbiamente non esauriente nell’analisi di tutto il testo della scrittura, che come visto richiama espressamente anche il suddetto decreto ministeriale e quindi pure la disciplina ivi contenuta;

tale incertezza dipende, verosimilmente, dal fatto che le parti contraenti avevano tradotto, a modo loro, le previsioni di cui al D.M. n. 430 del 1992, art. 17 nell’atto negoziale dalle medesime sottoscritto, visto che i due testi non sono perfettamente coincidenti, sebbene l’art. 12 del contratto avesse espressamene richiamato, quanto alla durata – regime d’abbonamento, al comma 2 l’ipotesi del rinnovo automatico di cui al succitato D.M., art. 17 mentre il successivo art. 13 del contratto disciplina testualmente il caso del recesso per entrambe le parti;

in effetti, l’art. 17, comma 3 D.M. regola il caso dell’anticipato scioglimento, ipotesi, che potrebbe significare la disciplina di una risoluzione consensuale del rapporto, ossia un mutuo consenso, perciò ben diverso dal recesso di cui all’art. 13 previsto dal contratto con un termine trimestrale minimo di preavviso, previo conguaglio pro quota del compenso annuale, però anche qui aggiungendosi che in caso di mancata disdetta (cioè di recesso), da effettuarsi entro tre mesi prima della scadenza (nella specie, come visto, 31-12-2004), l’abbonamento si intenderà tacitamente rinnovato di un ulteriore anno, con conseguente obbligo del cliente (nella specie la soc. CODERE Italia) di corrispondere un compenso allo studio (della consulente) pari all’80% dei soli onorari, per i mesi mancanti al compimento dell’anno stabilito in abbonamento, sulla base dell’ultimo periodo di assistenza professionale;

appaiono, pertanto, giustificati, nei sensi di cui sopra, i rilievi formulati da parte ricorrente con il settimo ed ultimo motivo, poichè la sola stretta interpretazione letterale, cui pare ispirarsi la denunciata ratio decidendi, non tiene debitamente conto dell’intero contesto negoziale, perciò anche con espresso richiamo alle previsioni di cui al cit. D.M. n. 430, lasciando inoltre senza alcuna spiegazione le sorti del rapporto riguardo alle conseguenze derivate nella specie dal tacito rinnovo dell’abbonamento per un altro anno, mentre il compenso commisurato all’80% dei soli onorari appare riferibile coerentemente all’ipotesi dello scioglimento anticipato contemplato dal 3 comma del surriferito art. 17, piuttosto che agli effetti del rinnovo automatico dipeso da intempestiva disdetta, laddove infatti, a parte il prolungamento per l’anno successivo, risulterebbe per altro verso non poco penalizzante per il consulente, la cui prestazione professionale sarebbe comunque invece dovuta sino alla scadenza originariamente prevista (nella specie sino al 31-12-2004), ma una decurtazione del corrispettivo dovutogli per questo arco di tempo (tenuto peraltro anche conto che nel caso in esame con il primo decreto ingiuntivo era stato chiesto e già riconosciuto il pagamento delle prestazioni relative agli ultimi due mesi del 2004, ossia novembre e dicembre, anche se poi azzerate per effetto delle opposte compensazioni, derivate dagli inadempimenti per questo periodo all’uopo eccepiti dalla società opponente in ordine alle penali all’uopo previste, ritenute quindi giustificate dalla Corte distrettuale a seguito di apposita c.t.u. espletata sulla scorta della documentazione prodotta dalla società, ancorchè in difetto di domanda riconvenzionale – da parte di quest’ultima – per la condanna della controparte al pagamento delle differenze spettanti in relazione alle maggiori somme all’uopo dedotte, trattandosi di eccezione volta soltanto a paralizzare la pretesa creditoria avversaria. V. anche la sentenza, laddove precisa a pag. 10 che le diffide ad adempiere della società non si riferivano ad inadempimenti per attività dell’anno 2005, ma ad errori relativi agli adempimenti riguardanti il pregresso anno 2004);

invero (cfr. Cass. lav. n. 4670 del 26/02/2009), va pure ricordato come in tema di interpretazione del contratto – che costituisce operazione riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione – ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento sia rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve però essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicchè le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. similmente, tra le altre, Cass. I civ. n. 4176 del 22/02/2007, conforme Cass. n. 28479 del 2005. Cfr. ancora Cass. I civ. n. 9755 del 4/5/2011: nell’interpretazione dei contratti, l’art. 1363 c.c. impone di procedere al coordinamento delle varie clausole e di interpretarle complessivamente le une a mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso risultante dall’intero negozio; pertanto, la violazione del principio di interpretazione complessiva delle clausole contrattuali si configura non soltanto nell’ipotesi della loro omessa disamina, ma anche quando il giudice utilizza esclusivamente frammenti letterali della clausola da interpretare e ne fissa definitivamente il significato sulla base della sola lettura di questi, per poi esaminare “ex post” le altre clausole, onde ricondurle ad armonia con il senso dato aprioristicamente alla parte letterale, oppure espungerle ove con esso risultino inconciliabili. In senso analogo, Cass. nn. 1257 del 1983, 16022 del 2002, 6233 del 2004, 8876 del 2006, 3685 del 2010);

pertanto, nei sensi di cui sopra il ricorso va accolto, con conseguente cassazione dell’impugnata sentenza e rinvio al giudice di merito per i necessari accertamenti in punto di fatto e relative determinazioni di competenza, tenuto conto dei succitati principi di diritto nonchè delle rilevate carenze, provvedendo quindi all’esito pure al regolamento delle spese concernenti questo giudizio di legittimità;

essendo risultata, infine, sia pure in parte, fondata la proposta impugnazione, non ricorrono i presupposti di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

la Corte accoglie il settimo ed ultimo motivo di ricorso. Rigetta gli altri. Cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della NON sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2019

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