Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25315 del 11/11/2020

Cassazione civile sez. I, 11/11/2020, (ud. 20/10/2020, dep. 11/11/2020), n.25315

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 11925/2019 r.g. proposto da:

S.A., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso,

giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato

Ivano Serlenga, presso il cui studio elettivamente domicilia in

Milano, al Corso XXII Marzo n. 4;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso, ope legis, dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso la cui sede domicilia in Roma, alla Via dei Portoghesi

n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI MILANO depositata il

26/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

giorno 20/10/2020 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. S.A. ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi, avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 4259/2018, reiettiva del gravame da lui proposto contro la decisione del tribunale della stessa città che, a sua volta, aveva respinto la sua opposizione contro la revoca del suo permesso di soggiorno disposta dal Questore di Milano il 4 dicembre 2015. Resiste, con controricorso, il Ministero dell’Interno.

1.1. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte ritenne che non potessero farsi valere, nel presente giudizio, vizi del procedimento amministrativo e che non fosse stata fornita la prova della sussistenza e della permanenza di una stabile convivenza del S. con il fratello, cittadino italiano fin dal 2012, presso l’abitazione di quest’ultimo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I formulati motivi di ricorso prospettano, rispettivamente:

I) “Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1 (non 2, come erroneamente riportato nella sua rubrica), n. 5, per violazione o falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 7”. Si assume che la “Corte di Appello di Milano ha omesso totalmente ogni motivazione in ordine alla violazione della L. n. 241 del 1990, art. 7, o meglio si è limitata ad affermare che, trattandosi di violazione amministrativa, la stessa poteva essere unicamente eccepita davanti al Giudice amministrativo”. Viene chiesto, poi, a questa Corte di stabilire “se il Giudice ordinario, investito dell’impugnazione di un provvedimento amministrativo, debba valutare il corretto svolgimento del procedimento amministrativo ed in particolare, la corretta applicazione della L. n. 241 del 1990”;

II) “Omesso esame e carenza di motivazione in ordine ad un motivo di impugnazione ex art. 360 c.p.c., comma 1 (non 2, come anche qui erroneamente riportato nella sua rubrica), n. 5”, per non avere la corte distrettuale speso parola in ordine alla denunciata erronea applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 6, comma 8;

III) “Violazione o falsa applicazione di una norma di diritto valutabile ex art. 360, comma 1 (non 2, come ancora erroneamente riportato nella sua rubrica), n. 5, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. c) e del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28”. Si sostiene che le prove assunte in primo grado, integrate dalle indagini disposte dalla corte distrettuale, avevano evidenziato che il S. viveva a casa del fratello, circostanza, quest’ultima, ostativa all’espulsione del primo ed idonea a fargli ottenere il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari. Si chiede, pertanto, a questa Corte di stabilire “se il concetto di convivenza, ai fini della concessione del permesso di soggiorno per motivi familiari, debba coincidere con il concetto di coabitazione, in presenza di significativa comunanza di vita e di affetti”;

IV) “Violazione o falsa applicazione di una norma di diritto valutabile ex art. 360, comma 1 (non 2, come sempre erroneamente riportato nella sua rubrica), n. 3, in ordine alla violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 5”. Si ascrive alla corte distrettuale, ed ancor prima al tribunale, di aver totalmente omesso ogni motivazione circa i profili inerenti il diritto alla vita familiare del ricorrente malgrado fossero stati ampiamente esplicati. Si chiede a questa Corte di stabilire “se la sentenza emessa dalla Corte d’Appello nei confronti del cittadino extracomunitario che si occupa della revoca di un permesso di soggiorno per motivi familiari debba tener conto della natura e dell’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del soggiorno sul territorio nonchè dell’esistenza di legami culturali o sociali con il suo Paese di origine come previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 5”.

2. Il primo motivo, per come concretamente argomentato, è infondato.

2.1. Giova premettere che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 26 settembre 2018), deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., S.U. n. 8053 del 2014; Cass. n. 7472 del 2017). In queste ipotesi, il vizio motivazionale è così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza (o di altro provvedimento decisorio) per “mancanza della motivazione”, ipotesi configurabile allorchè la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum (cfr. Cass. n. 22598 del 2018; Cass. n. 23940 del 2017).

2.2. Più in particolare, poi, si è in presenza di una “motivazione apparente” se la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende, tuttavia, percepibili le ragioni della decisione, perchè consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice.

2.2.1. Orbene, la sentenza oggi impugnata, laddove ha ritenuto che “non possono essere fatti valere nel presente giudizio vizi del procedimento amministrativo, azionabili avanti al giudice amministrativo”, si rivela, benchè estremamente sintetica, assolutamente chiara in relazione alla giustificazione posta da quel giudice alla base del proprio convincimento, nè rileva, qui, l’esattezza, o non, di una tale giustificazione. Deve, quindi, considerarsi soddisfatto l’onere minimo motivazionale di cui si è appena detto.

2.2.2. Va aggiunto, comunque, che l’omissione dell’avviso di avvio del procedimento amministrativo di revoca del permesso di soggiorno non determina la nullità del provvedimento di revoca per carenza di un suo requisito formale, ma impone al giudice, chiamato a pronunciarsi sulla sua impugnazione, di consentire all’impugnante di spiegare in sede giurisdizionale – come peraltro pacificamente avvenuto nella vicenda processuale oggi in esame – tutte le difese che egli, a causa del mancato avviso, non abbia potuto avanzare in fase amministrativa (cfr. Cass. n. 21143 del 2019, il cui principio, benchè reso, in materia di revoca della protezione internazionale, con riferimento all’omissione dell’avviso di avvio del procedimento di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 33, comma 1, si rivela certamente utilizzabile anche nella odierna fattispecie. In senso sostanzialmente analogo si veda peraltro, Cass. n. 7841 del 2019, sempre in ambito di revoca della protezione internazionale, ma con specifico riferimento all’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento della L. n. 241 del 1990, ex art. 7).

3. Il terzo motivo, il cui esame appare logicamente prioritario rispetto al secondo (ed al quarto), presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.

3.1. Invero, rileva il Collegio che la corte milanese ha ampiamente esposto (cfr. pag. 6-8 della sentenza impugnata) le ragioni che l’hanno indotta a considerare come non provata, da parte dell’appellante, la sussistenza e la permanenza di una sua stabile convivenza con il fratello. Con il motivo, in esame, invece, il S. tenta sostanzialmente di opporre a quella esaustiva valutazione fattuale contenuta nella sentenza impugnata una propria alternativa interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica del vizio di violazione di legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un ulteriore grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex multis, Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U., n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

3.2. A tanto deve aggiungersi che questa Corte ha già sancito che la relazione tra due fratelli entrambi maggiorenni e non conviventi non è riconducibile alla nozione di “vita familiare” rilevante a norma dell’art. 8 CEDU, difettando ogni elemento presuntivo dell’esistenza di un legame affettivo qualificato da un progetto di vita in comune, con la conseguenza che, affinchè un fratello possa ottenere un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare ad altro fratello o sorella, è necessario il requisito della convivenza effettiva, come prescritto dal combinato disposto del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28 e dell’art. 19, comma 2, lett c), del T.U.I..

3.2.1. Si è chiarito, in quella pronuncia, che “In ordine alla dedotta non necessità del requisito della convivenza ai fini del conseguimento del permesso di soggiorno per motivi familiari, va osservato che la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 202/2013, si è occupata della lesione dell’art. 8 CEDU in una situazione in cui ha voluto tutelare quegli stranieri che, pur trovandosi nelle condizioni sostanziali per ottenere il ricongiungimento familiare, non hanno esercitato il relativo diritto, non facendo richiesta del relativo provvedimento formale. E’ stato, in particolare, ritenuto dalla Consulta che l’impossibilità di annoverare tra i beneficiari della tutela rafforzata di cui all’art. 5, comma 5, del T.U.I. tutti coloro che vivono in Italia con una famiglia, indipendentemente dal tipo di permesso di soggiorno di cui dispongono, determina una illegittima compromissione di diritti fondamentali legati alla tutela della famiglia e dei minori, in violazione sia degli artt. 2,3,29,30 e 31 Cost., sia dell’art. 8 CEDU come applicato dalla Corte di Strasburgo, integrante il parametro di cui all’art. 117 Cost.. Non è stata quindi affatto ammessa una deroga a favore di stranieri privi delle condizioni sostanziali necessarie per ottenere il ricongiungimento familiare, che, peraltro, nella prospettiva del nostro legislatore (art. 29 T.U.I.), ha ad oggetto un nucleo che comprende solo i coniugi non legalmente separati, i figli minori, e, a determinate condizioni previste dall’art. 29, comma 1, lett. c) e d), anche i figli maggiorenni e i genitori a carico. I fratelli entrambi maggiorenni non rientrano, quindi, nella nozione di famiglia rilevante ai fini del ricongiungimento familiare, tanto è vero che possono ottenere il permesso per motivi familiari solo a norma del combinato disposto del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28 e dell’art. 19, comma 2, lett. c), del T.U.I. (che impone il requisito della convivenza con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana) o eventualmente a norma del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. a), (attuativo della direttiva 2004/38/CE) – applicabile anche ai cittadini italiani in virtù dell’art. 23 Legge cit. – che consente l’ingresso o il soggiorno in territorio comunitario di “ogni altro familiare”, qualunque sia la cittadinanza, non definito all’art. 2, comma 1, lett. b), solo se è a carico o convive nel Paese di provenienza con il cittadino dell’Unione. Nè, peraltro, può comunque prospettarsi una lesione, nel caso di specie, dell’art. 8 CEDU, che, come detto, tutela il rispetto della vita familiare. Infatti, se è pur vero che il concetto di “vita familiare”, nella recente interpretazione della Corte EDU è stato progressivamente esteso, tanto da farvi rientrare anche situazioni di comunione affettiva di persone anche non legate da un vincolo giuridico (come, ad esempio, l’unione di fatto di coppia omossessuale), tuttavia, non vi è dubbio che la relazione tra due fratelli entrambi maggiorenni, tra i quali non si sia neppure instaurata una convivenza, non rientri nella nozione di “vita familiare”, occorrendo, a tal fine, la prova rigorosa di legami personali effettivi, ovvero di una concreta condivisione della vita in comune, situazione che può, al limite, presumersi solo in presenza di una effettiva convivenza tra i fratelli medesimi”.

3.2.2. Da tali principi, qui pienamente condivisi, consegue, dunque, logicamente, che, rimasta indimostrata, per quanto si è già detto, la circostanza della sussistenza e/o della permanenza di una convivenza effettiva tra il S. e suo fratello, già cittadino italiano, presso l’abitazione di quest’ultimo, così come dal primo dedotta, non è più possibile dubitare, oggi, della piena legittimità della disposta revoca del permesso di soggiorno precedentemente rilasciato (e poi rinnovato) in favore dell’odierno ricorrente proprio sulla base di quella circostanza.

4. Una siffatta conclusione consente, evidentemente, di considerare assorbiti il secondo ed il quarto motivo.

5. Il ricorso, dunque, va respinto quanto al primo ed al terzo motivo, dichiarandosene assorbiti gli altri, restando le spese di questo giudizio di legittimità a carico del soccombente S.A., altresì dandosi atto in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo ed il terzo motivo di ricorso, dichiarandone assorbiti gli altri, e condanna S.A. al pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

 

 

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