Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25301 del 11/11/2020

Cassazione civile sez. I, 11/11/2020, (ud. 28/09/2020, dep. 11/11/2020), n.25301

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16049/2019 proposto da:

A.F., elettivamente domiciliato in Civitanova Marche, Via

Fermi 3, presso lo studio dell’avv. Giuseppe Lufrano, che lo

rappresenta e difende per procura in allegato al ricorso per

cassazione;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, rappresentato e difeso ex lege

dall’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2651/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 26.11.2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/09/2020 dal Dott. Roberto Bellè.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

la Corte d’Appello di Ancona ha rigettato l’appello proposto da A.F. avverso l’ordinanza del Tribunale della stessa città che aveva disatteso la sua domanda di protezione internazionale;

A.F. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

il primo motivo, dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, per avere la Corte territoriale erroneamente valutato come non credibile la narrazione del ricorrente, omettendo di valutare i rischi che egli correrebbe in caso di rientro forzoso in Pakistan;

il motivo è inammissibile, in quanto esso prospetta una mera rivalutazione di merito del convincimento sulla credibilità motivatamente raggiunto dalla Corte d’Appello;

la Corte territoriale ha ritenuto che il racconto del ricorrente in merito alla propria omosessualità fosse confuso e contraddittorio, avendo egli negato di essere “gay” ma che gli piaceva il ragazzo con cui sarebbe stato sorpreso ad amoreggiare ed anche in sede amministrativa non aveva indicato l’omosessualità come ragione della propria domanda, salvo poi manifestarsi in tal senso davanti alla Commissione;

rispetto a tali elementi argomentativi il ricorrente si limita a prospettare una diversa lettura dei dati istruttori, del tutto estranea al giudizio di legittimità (Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148; sulla pertinenza al giudice del merito del giudizio di fatto sull’attendibilità in tema di protezione internazionale v. tra le molte, Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340);

con il secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sotto il profilo dell’illegittimo diniego della protezione sussidiaria, per avere la Corte omesso d’indagare sulle condizioni di pericolo esistenti nel paese di provenienza;

è ben vero “in tema di protezione sussidiaria dello straniero, ai fini dell’accertamento della fondatezza di una domanda proposta sulla base del pericolo di danno di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato determinativa di minaccia grave alla vita o alla persona), una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto, il giudice del merito è tenuto, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, a cooperare nell’accertare la situazione reale del paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi d’indagine e di acquisizione documentale in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul Paese di origine del richiedente” e che “al fine di ritenere adempiuto tale onere, il giudice è tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto” (Cass. 26 aprile 2019, n. 11312);

tuttavia, si deve ritenere che chi intenda denunciare, in sede di legittimità, la violazione da parte del giudice di merito dei propri doveri istruttori, sotto il profilo del mancato esercizio dei poteri di indagine o di incompleta indicazione delle fonti ha sempre l’onere di allegare, per consentire a questa Corte di valutare la decisività della censura, che esistono COI aggiornate e dimostrative dell’esistenza, nella regione di sua provenienza, di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato; di indicarle; di riassumerne o trascriverne il contenuto, nei limiti strettamente necessari al fine di evidenziare che, se il giudice di merito ne avesse tenuto conto, l’esito della lite sarebbe stato diverso;

il motivo, per quanto attinente ad una violazione di legge, riguarda infatti pur sempre l’omesso esercizio di poteri istruttori, la cui censura non può consistere nella mera allegazione della mancata ricerca di una prova purchessia e va viceversa sorretto da un ragionamento, eventualmente anche desumibile ex se dal contenuto delle COI, che dimostri l’indispensabilità degli elementi così addotti; in altre parole, la necessaria concludenza del vizio denunciato, comporta il convergere della censura in un requisito di indispensabilità del mezzo, la cui ricorrenza è già stata individuata da questa Corte, seppure in altri ambiti, allorquando esso sia idoneo ad eliminare ogni possibile incertezza od a provare quel che sia rimasto indimostrato (Cass., S.U., 4 maggio 2017, n. 10790; v. anche, in tema di mancato esercizio dei poteri istruttori officiosi da parte del giudice del lavoro, Cass. 10 settembre 2019, n. 22628; fino a Cass. 16 maggio 2002, n. 7119);

tali connotazioni mancano nel caso di specie, in quanto la fonte citata dal ricorrente è generica e fa riferimento a violenze essenzialmente su funzionari delle forze dell’ordine e minoranze religiose, categorie cui lo stesso ricorrente non risulta, sulla base del ricorso per cassazione, appartenere;

con il terzo motivo il ricorrente afferma la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in tema di protezione umanitaria, sostenendo che nella sentenza non si reperirebbe alcuna argomentazione circa le ragioni a base del rigetto della domanda e sottolineando come la vulnerabilità possa dipendere da situazioni geo-politiche o politico-economiche che la Corte era tenuta ad accertare, anche attraverso indagini officiose, onde non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose dei diritti umani, senza contare la paura di tornare in patria e di essere sottoposto ad un’ingiusta pena detentiva, a fronte di condizioni carcerarie ed ai trattamenti inumani e degradanti cui sarebbero sottoposti i detenuti nel paese;

il motivo è anch’esso inammissibile;

la Corte territoriale ha affermato che il ricorrente non avrebbe prospettato particolari condizioni di vulnerabilità e del resto essa aveva già escluso che potesse essere credibile il racconto in merito alla omosessualità, sicchè non è su questo profilo che in ogni caso il ricorrente potrebbe far leva;

a fronte di ciò quanto affermato nel motivo è del tutto generico, esponendo situazioni solo astrattamente possibili, che lo rendono palesemente inidoneo a censurare con effettività quanto argomentato dalla Corte;

le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi oltre spese prenotate a debito;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 28 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

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