Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25288 del 11/11/2020

Cassazione civile sez. III, 11/11/2020, (ud. 22/07/2020, dep. 11/11/2020), n.25288

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21645/2018 proposto da:

T.S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

BRUNO BUOZZI, presso lo studio legale dell’Avv. FABRIZIO CRISCUOLO,

che lo rappresenta e difende nel presente giudizio;

– ricorrente –

contro

K.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato MARIA RIZZOTTO,

rappresentata e difesa nel presente giudizio dall’avvocato DOMENICO

SIRIANNI;

– controricorrente –

e contro

ASP (OMISSIS) CROTONE (OMISSIS);

– intimato –

sul ricorso 25188/2018 proposto da:

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI CROTONE, elettivamente domiciliata

presso la sede legale dell’ente, CENTRO DIREZIONALE “(OMISSIS)”, in

via M. NICOLETTA, rappresentata e difesa nel presente giudizio

dall’Avv. GIUSEPPINA CARUSO;

– ricorrente –

contro

K.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato MARIA RIZZOTTO,

rappresentata e difesa dall’avvocato DOMENICO SIRIANNI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 925/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 11/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/07/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. T.M. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 925/18, dell’11 maggio 2018, della Corte di Appello di Catanzaro, che – accogliendo il gravame esperito da K.L. avverso la sentenza n. 670/13, del 24 giugno 2013, del Tribunale di Crotone – ha condannato, in solido, l’odierno ricorrente e l’Azienda Sanitaria Provinciale di Crotone (d’ora in poi, “ASP Crotone”) a risarcire i danni dalla stessa subiti, liquidati in Euro 186.495,00, oltre interessi dalla data di pubblicazione della sentenza al soddisfo, in relazione alla lesione all’occhio sinistro, auto-provocata dalla donna, mentre era ricoverata presso il servizio psichiatrico diagnosi e cura dell’Ospedale (OMISSIS).

2. Riferisce il ricorrente in punto di fatto che, in data (OMISSIS), la K. – paziente psichiatrica, peraltro in stato gestazionale, ed esattamente al quinto mese di gravidanza – veniva ricoverata presso il servizio psichiatrico diagnosi e cura dell’Ospedale (OMISSIS), in regime volontario e su consiglio del medico di guardia, che l’aveva visitata d’urgenza a seguito di richiesta del pronto soccorso dello stesso Ospedale. Diagnosticato alla donna “disturbo depressivo con spunti e tematiche deliranti”, il suo stato clinico si aggravava ulteriormente, con la comparsa – il giorno successivo – di sintomatologia psicotica e gesti autolesivi, tanto che il Sindaco di Crotone ordinava alla divisione psichiatrica dell’Ospedale di sottoporre la donna a trattamento sanitario obbligatorio di tipo psichiatrico.

Ciò detto, risultando pericolosa la somministrazione di farmaci, non essendo la stessa compatibile con lo stato di gravidanza della paziente, la donna veniva sottoposta a regime di contenzione fisica, eseguita mediante l’applicazione di fasce a fibre acriliche, finalizzate a bloccare mani, piedi e busto, chiuse con bottoni speciali a calamita. Tuttavia, a dispetto delle misure adottate, la paziente, sebbene costantemente monitorata e mai abbandonata a se stessa (secondo quanto si afferma nel ricorso, che riferisce della presenza, al momento del fatto oggetto di giudizio, del medico R.M.G. e dell’infermiera Ri.Ro.), ella riusciva a divincolarsi, con atto indicato dall’odierno ricorrente come “fulmineo, istantaneo ed assolutamente imprevedibile”, procurandosi una lesione all’occhio sinistro, consistita in “sublussazione completa del bulbo ed avulsione traumatica dei muscoli estrinseci”, ovvero nella perdita dell’occhio.

Così ricostruiti i fatti, l’odierno ricorrente riferisce che la K. lo conveniva in giudizio (nella sua qualità di primario della Divisione Psichiatrica-Dipartimento Servizio Mentale di Diagnosi e cura del suddetto (OMISSIS)), unitamente alla A.S.L. n. (OMISSIS) di Crotone (OMISSIS), oggi ASP Crotone, per sentire condannare i convenuti, in solido, al risarcimento di tutti i danni conseguenti alla perdita dell’occhio sinistro.

La domanda veniva rigettata dal giudice di prime cure, sul rilievo che “il danno riportato dalla paziente, attesa l’imprevedibilità dell’azione della stessa”, dovesse “addebitarsi alla sua esclusiva responsabilità, non potendo ravvisarsi alcun impedimento (“recte”: inadempimento) o condotta omissiva viceversa imputabile ai sanitari in servizio al momento dell’occorso”.

Esperito gravame dall’attrice soccombente, il giudice di appello lo accoglieva, condannando i convenuti, in solido, al risarcimento del danno, nella misura già sopra indicata.

3. Avverso la sentenza della Corte catanzarese ricorre per cassazione il T., sulla base – come detto – di tre motivi.

3.1. Il primo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., nonchè degli artt. 1176,1218 e 2043 c.c., in relazione ai criteri che presiedono sia alla verifica del nesso di causa tra condotta omissiva e danno che all’accertamento della condotta esigibile.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto, in primo luogo, “l’inidoneità dei presidi apprestati a garantire la sicurezza della paziente – già protagonista di episodi di autolesione di minore rilievo – e conseguentemente non correttamente adempiuta la prestazione contrattuale esigibile”, e ciò in quanto, sebbene non fosse “possibile procedere all’immobilizzazione assoluta” della donna, sarebbe risultato, comunque, “scontato” che “i presidi di contenzione”, adottati nei, suoi confronti, “non siano stati affatto adeguati alla situazione, avuto riguardo al dato, eclatante, circa la duplicità degli episodi verificatisi”. La doglianza del ricorrente investe, in secondo luogo, l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui, in “caso di “culpa in vigilando”, come del resto in qualsiasi ipotesi di colpa omissiva consistita nel non avere impedito un evento che si era obbligati ad impedire, l’avverarsi stesso dell’evento costituisce in tesi prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva ed il danno”.

Entrambe le affermazioni integrerebbero falsa applicazione, da un lato, degli artt. 40 e 41 c.p., nonchè, dall’altro, degli artt. 1176,1218 e 2043 c.c., “laddove viene esaminato il preteso nesso causale tra l’individuazione della condotta esigibile, la condotta asseritamente omissiva rispetto ad essa condotta esigibile e il danno lamentato dalla Sig.ra K.”.

Si censura, innanzitutto, la decisione del giudice di appello laddove “ha liquidato erroneamente e in poche battute il nesso di causalità”, avendolo fondato “sul ragionamento riassunto dall’espressione “post hoc, ergo propter hoc””, contravvenendo alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte (sono citate, in particolare, Cass. Sez. 3, sent. 5 maggio 2009, n. 10285, nonchè, con specifico riguardo alla responsabilità medica, Cass. Sez. 3, sent. 13 ottobre 2017, n. 24073), secondo cui, in tema di causalità omissiva, non si può prescindere dal metodo per cui “l’accertamento del nesso di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato”.

Si tratta, dunque, di un metodo che implica, dapprima, l’individuazione di “un comportamento alternativo (a quello omissivo, che si pretende di imputare all’ipotetico danneggiante) che sia dovuto da una norma di legge che impone quella specifica condotta tesa ad impedire l’evento”, nonchè, successivamente, la verifica “secondo il criterio del “più probabile che non”” che “la condotta alternativa richiesta dalla legge fosse idonea ad evitare il danno lamentato”.

Orbene, assume il ricorrente, entrambe tali verifiche sarebbero mancate nel caso di specie, considerato che la sentenza, dopo aver dato atto dell’adozione dei presidi di contenzione, nonchè dell’impossibilità di realizzare una “immobilizzazione assoluta” della degente, ha, nondimeno, concluso nel senso che i primi non fossero “stati affatto adeguati alla situazione”, senza chiarire quali misure alternative, anche in relazione allo stato gestazionale della donna (e alla conseguente impossibilità di praticare trattamenti farmacologici), avrebbero dovuto essere adottate.

Di qui la violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p..

D’altra parte, sussisterebbe pure violazione e falsa applicazione degli artt. 1176,1218 e 2043 c.c., “per ciò che concerne l’accertamento della condotta esigibile ed asseritamente omessa”.

In questa prospettiva, il ricorrente premette, innanzitutto, come il nostro sistema normativo – specie dopo l’avvento della L. 13 maggio 1978, n. 180, ma comunque già in forza degli artt. 13 e 32 Cost. – impone l’utilizzo di misure contenitive quale “extrema ratio”, secondo quanto confermato dagli stessi divieti penali ricavabili dagli artt. 591,605,610,571 e 572 c.p..

D’altra parte, proprio l’applicazione delle misure di contenzione in concreto adottate – ed oltretutto, in misura superiore al consueto, come sarebbe emerso dalla deposizione della teste Ri.Ro. costituirebbe riprova della corretta e diligente esecuzione della prestazione sanitaria esigibile.

Infine, il ricorrente deduce pure la violazione e falsa applicazione dell’art. 1225 c.c., quanto all’affermazione della sentenza impugnata relativa all’impossibilità di procedere alla “immobilizzazione assoluta”, giacchè ciò equivarrebbe a negare “alla radice la possibilità di postulare una condotta alternativa esigibile ma omessa”, salvo però la Corte territoriale, contraddittoriamente, “escludere la sussistenza di un evento del tutto imprevedibile”, sulla scorta della “gravità della situazione” e della “reiterazione delle condotte” autolesionistiche da parte della degente.

In questo modo sarebbe stato violato l’art. 1225 c.c., che consente il risarcimento del danno imprevedibile solo nell’eventualità della condotta dolosa del debitore.

3.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 5), ancorchè non espressamente evocati – “nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (anche in rapporto all’art. 2697 c.c.)”.

Nel ribadire, sulla scorta delle considerazioni precedentemente svolte, la corretta esecuzione della prestazione sanitaria, il ricorrente assume che la sentenza impugnata sia “ulteriormente erronea anche per ciò che concerne la valutazione concreta della condotta della struttura sanitaria e del Dott. T., per come acquisita agli atti”.

Infatti, l’istruttoria ha permesso di accertare – tra le altre circostanze – che alla paziente non potevano essere somministrati farmaci, che l’evento autolesionistico avvenne mentre la donna era vigilata di infermieri, ed ancora che esso ebbe a verificarsi nonostante il prontissimo intervento degli stessi e dei dottori presenti “in loco” (e ciò a riprova della sua inevitabilità), per un gesto definito “inverosimile” dalla teste Ri., e meglio descritto dalla teste R., che ha affermato come la donna fosse “riuscita con una contorsione ad arrivare con la testa alle mani legate”.

Orbene, anche a voler prescindere dal vizio denunciato con il primo motivo di ricorso circa la mancata individuazione della (diversa) condotta esigibile dai sanitari, queste circostanze rivelerebbero la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., attestando un non prudente apprezzamento delle risultanze istruttorie, nonchè dello stesso art. 2697 c.c., avendo la Corte territoriale affermato la responsabilità dell’odierno ricorrente “nonostante le prove di cui sopra fossero (e sono) in grado di smentire l’astrusa tesi della “culpa in vigilando””.

Inoltre, essendo stati tutti gli elementi suddetti completamente ignorati, ricorrerebbe pure il vizio – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – costituito dall’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, visto che nella sentenza impugnata “non vi è minima traccia delle questioni di fatto di cui sopra”.

3.3. Con il terzo motivo è denunciata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), anche in questo caso non espressamente evocato – violazione della L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3 (o meglio, del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla suddetta Legge di Conversione), “anche in rapporto agli artt. 1225,1227 e 2043 c.c.”.

Si censura la sentenza impugnata in quanto, anche nell’ipotesi in cui questa Corte “omologasse la statuizione in ordine all'”an” della responsabilità risarcitoria”, la decisione impugnata risulterebbe illegittima per aver violato la norma suddetta, in quanto in base ad essa, ai fini della determinazione dell’entità del risarcimento, si sarebbe dovuto tenere conto dell’intensità della colpa rispetto all’evento, dando rilievo, quantomeno, agli strumenti invalsi nella prassi medica.

4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, la K..

La controricorrente assume, innanzitutto, l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, in quanto prospetterebbe un’erronea valutazione dei fatti e delle risultanze istruttorie, pretendendo, così, di sindacare un’attività riservata al solo giudice di merito. In ogni caso, le censure sarebbero anche infondate, poichè tra gli obblighi contrattuali di ogni struttura sanitaria vi è quello di sorvegliare i pazienti in modo adeguato alle loro condizioni, in particolare se consistenti nell’assente (o menomata) capacità di autotutela, come evidenziato dalla sentenza impugnata. Essa, inoltre, avrebbe adeguatamente motivato la sussistenza del nesso di causalità, dando conto anche dell’inesistenza di un diverso fattore – rispetto alla mancata adozione di adeguate misure di contenzione della paziente – che potesse interrompere il nesso causale tra condotta omissiva ed evento dannoso.

Per le medesime ragioni pure il secondo motivo di ricorso sarebbe inammissibile e, comunque, infondato, fermo restando, poi, che la violazione dell’art. 115 c.p.c., secondo la giurisprudenza di questa Corte, sarebbe ravvisabile solo quando il giudice espressamente disattenda il principio della decisione “iuxta alligata et probata partium”, ovvero decida sulla base di prove disposte di sua iniziativa, fuori dei casi consentiti dalla legge. Inoltre, quanto al vizio di omesso esame, è richiamato il principio secondo cui esso è da escludersi quando il giudice abbia, comunque, esaminato il fatto storico rilevante, pur avendo omesso l’esame di rilevanti elementi istruttori, peraltro, nella specie, sicuramente vagliati.

Il terzo motivo, infine, sarebbe infondato, data la irretroattività della L. n. 189 del 2012.

5. Con successivo ricorso, anche esso articolato in tre motivi, pure l’ASP Crotone ha impugnato la medesima sentenza della Corte catanzarese.

5.1. In particolare, il primo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., con argomenti che corrispondono pressochè integralmente alla prima delle due censure in cui si articola il primo motivo di ricorso del T..

5.2. Il secondo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – falsa applicazione degli artt. 1176,1218 e 2043 c.c., con argomenti che corrispondono pressochè integralmente alla seconda delle due censure in cui si articola il primo motivo di ricorso del T..

5.3. Il terzo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – omesso esame di fatti decisivi con argomenti che riecheggiano, sebbene in termini assai più stringati, la seconda delle due censure in cui si articola il secondo motivo di ricorso del T..

6. Ha resistito anche a tale impugnazione, con controricorso, la K., riproponendo, nella sostanza, gli stessi argomenti utilizzati per contrastare il ricorso del T..

7. Ha presentato memoria difensiva la K. in relazione al ricorso della ASP Crotone, in vista della Camera di consiglio fissata per il 12 febbraio 2020, insistendo nelle proprie argomentazioni e chiedendo la riunione con il giudizio fissato per la trattazione del ricorso del T..

8. Nel giudizio relativo al ricorso del T. è intervenuto il Procuratore Generale presso questa Corte, a mezzo di un suo sostituto, innanzitutto per chiedere la riunione dei due giudizi, concludendo, nel merito, per l’accoglimento soltanto della prima censura proposta dal T. con il secondo motivo di ricorso.

9. Disposta la riunione dei due giudizi, gli stessi venivano inizialmente rinviati all’adunanza camerale del 18 marzo 2020 (e poi a quella del 22 luglio 2020, in ragione della sospensione delle attività processuali disposta dalla normativa emergenziale per contrastare l’epidemia da “COVID-19”), adunanza in vista della quale il T. depositava memoria con la quale insisteva nelle proprie argomentazioni ed eccepiva la tardività del controricorso K., in quanto notificato, a mezzo “PEC”, il 20 ottobre 2018, e dunque oltre quaranta giorni dopo – considerata la sospensione feriale dei termini la notificazione del ricorso, avvenuta, anch’essa a mezzo “PEC”, il 23 luglio 2018.

Altrettanto sarebbe a dirsi, inoltre, per il controricorso al ricorso dell’ASP Cosenza, visto che la notifica del primo è avvenuta il 31 ottobre 2018, mentre il ricorso ASP è stato notificato il 31 luglio 2018.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

10. Entrambi i ricorsi sono fondati, sebbene nei limiti – appresso meglio precisati.

11. “In limine”, tuttavia, deve essere dichiarata la tardività del (duplice) controricorso della K..

Al riguardo, va data continuità al principio secondo cui ai “fini della verifica della tempestiva notifica del controricorso in cassazione, da compiersi ex art. 370 c.p.c., nei venti giorni successivi al deposito del ricorso, che, a propria volta e ai sensi dell’art. 369 c.p.c., deve avvenire nei venti giorni dalla sua ultima notificazione, il momento perfezionativo di quest’ultima si identifica con la ricezione dell’atto da parte del destinatario” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 3 dicembre 2015, n. 24639, Rv. 638042-01).

Nel caso che occupa, due controricorsi della K. risultano notificati – entrambi a mezzo “PEC” – alle date, rispettivamente, del 20 ottobre (controricorso al ricorso T.) e del 31 ottobre 2018 (controricorso al ricorso ASP Cosenza), e dunque oltre venti giorni dopo il deposito dei due ricorsi, avvenuta, per il primo, il 26 luglio 2018, nonchè, per il secondo, il successivo 11 ottobre.

12. Tanto premesso, il primo motivo del ricorso del T. (o meglio, la seconda delle censure in cui si articola) e il secondo motivo del ricorso dell’ASP Cosenza, laddove ipotizzano violazione degli artt. 1176 e 1218 c.c., meritano accoglimento.

12.1. Non è, invece, fondata la censura – di violazione degli artt. 40 e 41 c.p. – relativa alla verifica, operata dalla Corte territoriale, della sussistenza del nesso di causalità materiale tra la condotta dei sanitari dell’Ospedale (OMISSIS) e la lesione patita dalla K..

12.1.1. Sul punto, occorre muovere dalla constatazione che, nei giudizi risarcitori riguardanti condotte autolesive di pazienti psichiatrici, in relazione alla “responsabilità per omessa vigilanza di una struttura sanitaria nei confronti di persona ospite di un reparto psichiatrico”, persino quando la stessa risulti “non interdetta nè sottoposta ad intervento sanitario obbligatorio”, questa Corte, in più di un’occasione, ha ricondotto il rapporto corrente “inter partes” nell’ambito contrattuale, ed in particolare di quel “contratto atipico di assistenza sanitaria che si sostanzia di una serie complessa di prestazioni che la struttura eroga in favore del paziente, sia di natura medica che “lato sensu” di ospitalità alberghiera, (…) obbligazioni tutte destinate a personalizzarsi in relazione alla patologia del soggetto” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 16 maggio 2014, n. 10832, Rv. 631006-01). In termini ancora più specifici, si è affermato – sempre, con riferimento a danni patiti da malato psichiatrico – che qualsiasi “struttura sanitaria, nel momento stesso in cui accetta il ricovero d’un paziente, stipula un contratto dal quale discendono naturalmente, ai sensi dell’art. 1374 c.c., due obblighi: il primo è quello di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione; il secondo è quello di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura” (Cass. Sez. 3, sent. 22 ottobre 2014, n. 22331, Rv. 6333104-01).

Si tratta di affermazioni, peraltro, non nuove nella giurisprudenza di questa Corte, la quale – pur prendendo atto che, con l’avvento della L. 13 maggio 1978, n. 180, l’ordinamento giuridico ha fatto proprio, come è stato osservato in dottrina, “il rifiuto di ogni concezione che non riconosca nella volontarietà del trattamento la fonte ordinaria di legittimità del trattamento stesso”, optando per un modello di cura del paziente psichiatrico “che si misura con il superamento di ogni approccio trattamentale in senso custodialistico e con il definitivo abbandono della realtà manicomiale a favore di un’assistenza psichiatrica diffusa che riconosce nei servizi territoriali il punto di forza” – ha osservato che “tali principi, che costituiscono all’evidenza il frutto di una maggiore sensibilità al rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti civili (art. 1, comma 2) e, relativamente alle malattie mentali, anche dell’intento di adeguare la legislazione alle nuove teorie affermatesi in materia in ambito scientifico, non interferiscono sull’obbligo di sorveglianza che incombe su coloro che in concreto sono incaricati di tale compito a seguito di una precisa diagnosi”, e ciò “in quanto diversamente ad una maggiore tutela della personalità finirebbe per corrispondere, senza che la norma nulla dica al riguardo, una tutela minore della persona” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 11 novembre 1997, n. 11038, Rv. 509677-01).

Degna di nota, inoltre, è la circostanza che un’evoluzione analoga risulta essersi registrata – da tempo – anche nella giurisprudenza francese di legittimità, che più di tutte ha, storicamente, contribuito all’elaborazione dei cd. “obblighi di protezione”, avendo essa configurato una “stretta obbligazione (accessoria rispetto al dovere terapeutico) di predisporre adeguate e tempestive misure di sorveglianza in adeguato ambiente specialistico-psichiatrico di fronte ad un rischio di elevata portata e pericolo imminente, vera e propria obligation de securitè)” (cfr. Cass. I Civ., 31 janvier 1961 e Cass. I Civ., 10 juin 1997).

Su tali basi, dunque, e per tornare alla giurisprudenza nazionale, una volta ricondotta la salvaguardia dell’incolumità del paziente psichiatrico tra quegli obblighi di protezione destinati ad integrare il contenuto del contratto ex art. 1375 c.c., si è affermato come, ai “fini della ripartizione dell’onere probatorio, il paziente debba abitualmente provare solo l’avvenuto inserimento nella struttura e che il danno si sia verificato durante il tempo in cui egli si trovi inserito nella struttura (sottoposto alle cure o alla vigilanza del personale della struttura), mentre spetta alla controparte dimostrare di avere adempiuto la propria prestazione con la diligenza idonea ad impedire il fatto” (Cass. Sez. 3, sent. n. 10832 del 2014, cit.).

Nella stessa prospettiva, si è anche evidenziato che, ricorrendo in casi siffatti una ipotesi “di “culpa in vigilando”, come del resto in qualsiasi ipotesi di colpa omissiva consistita nel non avere impedito un evento che si era obbligati ad impedire, l’avverarsi stesso dell’evento costituisce in tesi prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva ed il danno”, potendo la struttura sanitaria esonerarsi da responsabilità “dimostrando di avere tenuto una condotta diligente”, consistita “in una adeguata sorveglianza del degente” (Cass. Sez. 3, sent. n. 22331 del 2014, cit.).

1.2.1.2. Questi principi, diversamente da quanto assumono entrambi i ricorrenti, non sono contraddetti dai più recenti approdi della giurisprudenza di questa Corte in tema di responsabilità medica, essendosi ritenuto che, in tale settore, si delinei “un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante”, chiamato, in particolare, a dimostrare “che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392, Rv. 645164-01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824, non massimata; Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315, Rv. 646653-01; Cass. Sez. 3, sent. 15 febbraio 2018, n. 3704, Rv. 64794801; Cass. Sez. 3, ord. 23 ottobre 2018, n. 26700, Rv. 651166-01, nonchè, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2019, n. 28991, Rv. 655828-01).

Si tratta, peraltro, di conclusione – come è stato di recente sottolineato – che tiene conto della peculiare configurazione che il “sottosistema” della responsabilità per attività sanitaria riveste nell’ambito del sistema “generale” della responsabilità contrattuale.

Invero, se nell’ambito di quest’ultimo la “causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall’inadempimento per la differenza fra eziologia ed imputazione, non è praticamente separabile dall’inadempimento, perchè quest’ultimo corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto e dunque al danno evento”, non altrettanto avviene in ambito di responsabilità sanitaria, giacchè nel “diverso territorio del “facere” professionale la causalità materiale torna a confluire nella dimensione del necessario accertamento della riconducibilità dell’evento alla condotta”. Qui, infatti, “l’interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale all’interesse primario del creditore” (che, nel caso del “facere” professionale del sanitario, è quello alla guarigione), giacchè oggetto della prestazione sanitaria è solo “il perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore” (o, altrimenti detto, il diligente svolgimento della prestazione professionale), di talchè, il “danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie attinge non l’interesse affidato all’adempimento della prestazione professionale, ma quello presupposto corrispondente al diritto alla salute”. Ne consegue, pertanto, che non essendo l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie “immanenti alla violazione delle “leges artis””, potendo “avere una diversa eziologia”, all’onere del creditore/danneggiato “di allegare la connessione puramente naturalistica fra la lesione della salute, in termini di aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuove patologie, e la condotta del medico”, si affianca “posto che il danno evento non è immanente all’inadempimento”, anche quello “di provare quella connessione” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 28991 del 2019, cit.).

12.1.3. Le censure relative alla verifica del nesso causale, pertanto, non sono fondate, non potendo addebitarsi alla Corte territoriale come meglio si vedrà di seguito – di aver “liquidato erroneamente e in poche battute il nesso di causalità”, avendolo fondato “sul ragionamento riassunto dall’espressione “post hoc, ergo propter hoc””.

12.1.3.1. In proposito, occorre muovere dalla constatazione che come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte – la ricostruzione della “problematica causale”, con riferimento alla “causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p.”, giacchè “il danno rileva solo come evento lesivo” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 11 gennaio 2008, n. 576, Rv. 600899-01; per l’applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., al nesso di causalità materiale dell’illecito civile si vedano anche Cass. Sez. 3, sent. 11 maggio 2009, n. 10741, Rv. 608391-01; Cass. Sez. 3, sent. 8 luglio 2010, n. 16123, Rv. 613967-01; Cass. Sez. 3, ord. 12 aprile 2011, n. 8430, Rv. 616864-01). Sino a che punto, tuttavia, possa predicarsi siffatta “analogia”, è quanto ha formato oggetto di puntualizzazione da parte della giurisprudenza di questa Corte, culminata nel riconoscimento di un criterio di ricostruzione del nesso causale definito della “preponderanza dell’evidenza” (o anche del “più probabile che non”). – differente da quello, “oltre ogni ragionevole dubbio”, utilizzato nel sistema della responsabilità penale.

Tale diversità di criteri si pone, peraltro, come un riflesso – in particolar modo, sul piano probatorio – delle differenze, morfologiche e strutturali, dei due sistemi. Invero, come osservato di recente da questa Corte, nel recepire un’impostazione dottrinaria, il problema della causalità materiale, in sede civile, consiste nella “dimostrazione probatoria della verità di un enunciato”, ovvero quello che “descrive un nesso di causalità naturale e specifica” tra la condotta del supposto danneggiante e l’evento lesivo lamentato dal preteso danneggiato, sicchè, in ultima analisi, il cuore della questione consiste nell’individuare “i criteri secondo i quali il giudice, in presenza di elementi di prova che riguardano l’enunciato relativo all’esistenza di un nesso causale, stabilisce se tale enunciato ha o non ha ricevuto una adeguata conferma probatoria” (cfr. Cass. Sez. 3, ord. 6 luglio 2020, n. 13872, non massimata). Del resto, in senso sostanzialmente analogo, questa Corte ha da tempo osservato che la verifica della sussistenza del nesso causale non è più “soltanto questione di ricostruzione dei fatti nel loro svolgersi fenomenologico, ma sempre ed anche vicenda “giuridica”, cioè questione anche di diritto, e, più precisamente, vero e proprio ragionamento probatorio sui fatti, allegati e non, dimostrati e non” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 21 luglio 2011, n. 15991, Rv. 618882-01; in senso analogo già Cass. Sez. 3, sent. 16 ottobre 2007, n. 21619, Rv. 599816-01).

Tuttavia, se discutere della causalità materiale significa interrogarsi su di una regola probatoria, è proprio su questo piano – come si notava in premessa – che vanno apprezzate le differenti soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità, penale e civile, al problema della verifica del nesso causale.

Difatti, nella “ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti” (così, in particolare, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 576 del 2008, cit.; in senso conforme, tra le più recenti, si vedano Cass. Sez. 3, ord. 27 settembre 2018, n. 23197, Rv. 650602- 01, in motivazione, nonchè Cass. Sez. Lav., sent. 3 gennaio 2017, n. 47, Rv. 642263-01).

Del resto, come osservato da questa Corte già prima del citato arresto delle Sezioni Unite civili, sempre al fine di chiarire la diversità – in sede civile e penale – delle regole probatorie in materia di causalità, queste ultime riflettono la differente morfologia e funzione dei due sistemi. Invero, quanto al profilo morfologico, deve considerarsi “come il baricentro della disciplina penale con riferimento al profilo causale del fatto sia sempre e comunque rivolto verso l’autore del reato/soggetto responsabile, orbitando, viceversa, l’illecito civile (quantomeno a far data dagli anni ‘60) intorno alla figura del danneggiato” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 21619 del 2007, cit.). Quanto, poi, al profilo funzionale, più ancora che la constatazione – valida, invero, per il solo caso in cui venga in rilievo un’ipotesi di responsabilità per omissione – secondo cui una “valutazione del nesso di causa, fondata esclusivamente sul semplice accertamento di un aumento (o di una speculare, mancata diminuzione) del rischio in conseguenza della condotta omessa, è criterio ermeneutico che inquieta l’interprete penale, poichè realmente trasforma surrettiziamente la fattispecie del reato omissivo improprio da vicenda di danno in reato di pericolo (o di mera condotta), mentre la stessa preoccupazione non pare esportabile in sede civile, dove l’accento è posto, ormai, sul concetto di “danno ingiusto”” (cfr. ancora una volta, e nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 21619 del 2007, cit.), decisivo appare quanto osservato in dottrina. Ovvero, che i sistemi dell’illecito penale e del torto civile si caratterizzano, rispettivamente, “per la personalità quanto alla pena, come ora ci sollecita a rilevare l’art. 27 Cost., comma 1 e per la patrimonialità quanto al risarcimento”, giacchè se “quest’ultimo è essenzialmente riparazione, la pena è il negativo che si contrappone al negativo dell’illecito in sè” (sul punto si veda anche Cass. Sez. 3, ord. 13872 del 2020, cit.).

12.1.3.2. Chiarite, pertanto, le ragioni dell’operatività – nel giudizio civile di danno – della regola probatoria del “più probabile che non”, occorre illustrarne le modalità di applicazione.

Essa – anche denominata, forse in modo preferibile, come regola della “preponderanza dell’evidenza” – costituisce, in realtà, la “combinazione di due regole: la regola del “più probabile che non” e la regola della “prevalenza relativa” della probabilità”.

Come è stato osservato, di recente, da questa Corte – recependo, sul punto, la già richiamata dottrina processuale – la regola del “più probabile che non”, in particolare, “implica che rispetto ad ogni enunciato si consideri l’eventualità che esso possa essere vero o falso, ossia che sul medesimo fatto vi siano un’ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa”, sicchè, tra queste due ipotesi alternative, “il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all’altra: sarebbe infatti irrazionale preferire l’ipotesi che è meno probabile dell’ipotesi inversa”. In altri termini, l’affermazione della verità dell’enunciato implica “che vi siano prove preponderanti a sostegno di essa: ciò accade quando vi sono una o più prove dirette – di cui è sicura la credibilità o l’autenticità – che confermano quell’ipotesi, oppure vi sono una o più prove indirette dalle quali si possono derivare validamente inferenze convergenti a sostegno di essa”. Per parte propria, la regola della “prevalenza relativa” della probabilità, rileva – quanto al nesso causale, nel caso di cd. “multifattorialità” nella produzione di un evento dannoso (ovvero quando all’ipotesi, formulata dall’attore, in ordine all’eziologia dell’evento stesso, possano affiancarsene altre) – allorchè “sullo stesso fatto esistano diverse ipotesi, ossia diversi enunciati che narrano il fatto in modi diversi, e che queste ipotesi abbiano ricevuto qualche conferma positiva dalle prove acquisite al giudizio”, dovendo, invero, essere prese in considerazione “solo le ipotesi che sono risultate “più probabili che non”, poichè le ipotesi negative prevalenti non rilevano”. Orbene, ricorrendo tale evenienza, vale a dire se “vi sono più enunciati sullo stesso fatto che hanno ricevuto conferma probatoria, la regola della prevalenza relativa implica che il giudice scelga come “vero” l’enunciato che ha ricevuto il grado relativamente maggiore di conferma sulla base delle prove disponibili” (cfr., al riguardo, nuovamente Cass. Sez. 3, ord. 13872 del 2020, cit.).

Quello che viene, così, a delinearsi è, dunque, un modello di “certezza probabilistica”, nel quale “il procedimento logico-giuridico” da seguire “ai fini della ricostruzione del nesso causale” implica che l’ipotesi formulata vada verificata “riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)”, nel senso, cioè, che in tale “schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 576 del 2008, cit., nello stesso senso, più di recente, Cass. Sez. 3, sent. 20 febbraio 2015, n. 3390, Rv. 634481-01; Cass. Sez. 3, ord. 29 gennaio 2018, n. 2061, non massimata, Cass. Sez. 3, ord. n. 23197 del 2018, cit.).

La nozione di probabilità “baconiana”, o “logica”, si distingue, dunque, dalla probabilità “quantitativa” (i cui concetti e calcoli poco si prestano a essere applicati al ragionamento sulle prove), “riferendosi al grado di conferma (ossia al cd. “evidential weight”, al peso probatorio) che l’ipotesi, relativa all’efficienza eziologica della condotta del preteso danneggiante a cagionare l’evento di danno lamentato dall’asserito danneggiato, riceve sulla base delle inferenze tratte dagli elementi di prova disponibili” (così, ancora una volta, Cass. Sez. 3, ord. n. 13872 del 2020, cit.).

12.1.3.3. Orbene, tornando al caso che qui occupa, deve rilevarsi, sulla scorta delle affermazioni che precedono, come la sentenza impugnata non abbia affatto disatteso – nel procedere al riscontro della sussistenza del nesso di causalità materiale – tale “modus operandi”.

La decisione in esame, invero, ha fatto applicazione – come già rilevato – di quanto affermato, in passato, da questa Corte, e cioè che “in qualsiasi ipotesi di colpa omissiva consistita nel non avere impedito un evento che si era obbligati ad impedire, l’avverarsi stesso dell’evento costituisce in tesi prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva ed il danno”, potendo la struttura sanitaria esonerarsi da responsabilità “dimostrando di avere tenuto una condotta diligente”, consistita “in una adeguata sorveglianza del degente” (Cass. Sez. 3, sent. n. 22331 del 2014, cit.).

Difatti, il riscontro del nesso causale secondo il criterio della “preponderanza dell’evidenza” implica, come si è visto, che l’ipotesi formulata in ordine alla sua sussistenza vada verificata “riconducendone il grado di fondatezza nell’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)”. Una dimostrazione, questa, che – secondo quanto osservato in dottrina, con notazione che questo collegio reputa di dover fare propria – nel caso di “nessi causali semplici ed immediati, come quando si dice che “x è stato causa diretta di y”, supponendo che tra i due eventi vi sia un contatto diretto nello spazio e ravvicinato nel tempo”, può compiersi, finanche, attraverso il ricorso a “massime di esperienza”, le quali “non sono altro che la traduzione, nei termini del senso comune e della cultura media, di leggi scientifiche di carattere generale”, sicchè “in questi casi, e purchè la volgarizzazione della legge scientifica non ne abbia tradito il significato originario, si può equiparare la massima d’esperienza alla legge scientifica ed utilizzarla come legge di copertura dell’inferenza causale”.

12.2. Ciò premesso, e dunque escluso che la sentenza meriti censura quanto alla ricostruzione dell’esistenza del nesso di causalità materiale tra la condotta dei sanitari dell’Ospedale (OMISSIS) e l’evento lesivo patito dalla K., la questione relativa al carattere “repentino” (o addirittura “inverosimile”, secondo la definizione fornita, in sede di deposizione testimoniale, uno degli operatori sanitari presenti all’accaduto) del gesto compiuto dalla donna, assume rilievo su un piano diverso da quello dell’applicazione degli artt. 40 e 41 c.p..

Essa, per vero, rileva al fine di verificare se ricorre quella “causa imprevedibile e inevitabile che ha reso impossibile la prestazione” (da provarsi, ovviamente, da parte del debitore/danneggiante), e quindi sul piano della non esigibilità di un comportamento diverso da quello, nella specie, tenuto dalla struttura sanitaria, e dunque quale fattore esonerativo della sua responsabilità per l’inadempimento.

Orbene, è proprio in relazione a tale aspetto che la sentenza impugnata rivela la sua criticità, come denunciato sia dalla seconda delle censure in cui si articola il primo motivo di ricorso del T., sia dal secondo motivo di ricorso dell’ASP Cosenza, l’una come l’altro risultando, pertanto, fondati.

12.2.1. Invero, la Corte territoriale ha operato un’arbitraria unificazione dei due “cicli” nei quali – come si è premesso – si articola, secondo questa Corte, il giudizio sulla responsabilità sanitaria.

Difatti, al “ciclo” che si pone “a monte” (quello relativo all’evento dannoso e alla sua derivazione causale, la cui prova grava sul creditore/danneggiato secondo il criterio, come visto, della “preponderanza dell’evidenza”), deve seguire quello “a valle”, relativo, invece, alla possibilità (o meno) di adempiere, essendo il debitore/danneggiante ammesso a provare “che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)” (da ultimo, come detto, Cass. Sez. 3, sent. 28991 del 2019, cit.).

La sentenza impugnata, per contro, una volta ritenuto che il nesso di causalità materiale fosse provato, e ciò per il sol fatto della verificazione dell’evento che le misure di contenzione adottate avrebbero dovuto scongiurare, non si è interrogata sul diverso comportamento che, anche alla luce delle peculiari condizioni del caso concreto (stato gestazionale della paziente ed impossibilità di praticare trattamenti farmacologici) si sarebbe potuto – o meglio, dovuto esigere dalla struttura sanitaria.

Siffatta valutazione “sincretica” – che integra, violazione degli artt. 1176 e 1218 c.c. – risulta, inoltre, ancor più errata, ove si consideri che la Corte catanzarese, pur dando atto della “impossibilità” di realizzare una “immobilizzazione assoluta” della degente (senza, però, interrogarsi sulla idoneità di tale circostanza ad integrare, eventualmente, quella causa imprevedibile e inevitabile, da apprezzare sul piano della non imputabilità dell’inadempimento), ha, nondimeno, concluso nel senso che i presidi adottati – comunque consistiti tanto nell’applicazione di fasce a fibre acriliche, finalizzate a bloccare mani, piedi e busto della paziente, chiuse con bottoni speciali a calamita, quanto nella costante vigilanza della stessa – non fossero “stati affatto adeguati alla situazione”, senza chiarire, come detto, quali misure alternative avrebbero dovuto essere adottate per scongiurare l’evento.

La sentenza va, dunque, cassata, con rinvio alla medesima Corte in diversa composizione, perchè rinnovi il giudizio sulla responsabilità del T. e dell’ASP Catania in relazione alle lesioni patite dalla K. tenendo distinto – prima ancora sul piano della diversa ripartizione degli oneri probatori, su quello della morfologia della fattispecie di cui all’art. 1218 c.c. – i due cicli in cui si articola il giudizio sulla responsabilità contrattuale.

12.3. All’accoglimento – sebbene “in parte qua” – del primo motivo del ricorso del T., nonchè del secondo motivo del ricorso dell’ASP Cosenza, segue l’assorbimento del secondo motivo del ricorso del T. e del secondo motivo dell’ASP Cosenza.

12.4. Il terzo motivo del ricorso del T. – non assorbito dall’accoglimento, del primo secondo (giacchè investe il “quantum” del risarcimento) – risulta, invece, non fondato.

12.4.1. Va data continuità, sul punto, al principio secondo cui “le norme poste dal D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 1, convertito dalla L. n. 189 del 2012, e dalla L. n. 24 del 2017, art. 7, comma 3, non hanno efficacia retroattiva e non sono applicabili ai fatti verificatisi anteriormente alla loro entrata in vigore” (Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2019, n. 28994, Rv. 655792-01; Cass. Sez. 3, sent. 8 novembre 2019, n. 28811, Rv. 655963-02).

13. All’accoglimento di entrambi i ricorsi segue la cassazione, in relazione, della sentenza impugnata e il rinvio alla Corte di Appello di Catanzaro, in diversa composizione, per la decisione nel merito, alla luce del principio dianzi enunciato, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso T., dichiarando assorbito il secondo e rigettando il terzo, ed accoglie altresì il secondo motivo del ricorso ASP Cosenza, rigettando il primo e dichiarando assorbito il terzo, e cassa, in relazione, la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Catanzaro, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di Adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 22 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

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