Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25273 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. III, 10/11/2020, (ud. 22/09/2020, dep. 10/11/2020), n.25273

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34989-2018 proposto da:

L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARNABA

TORTOLINI 30, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GENOVEFFA SELLITTI;

– ricorrenti –

e contro

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO SPA, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA DELLE MEDAGLIE D’ORO 159, presso lo studio dell’avv. ENRICO

SPIRITO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 883/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 15/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/09/2020 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

L.G. propose opposizione innanzi al Tribunale di Salerno avverso il decreto ingiuntivo emesso per l’importo di Euro 1.681.049,51, oltre interessi, in favore di Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. sulla base di fideiussione prestata a garanzia dei debiti di CDI Calitri Denim Industries s.p.a.. Il Tribunale adito, previa CTU, rigettò l’opposizione. Avverso detta sentenza propose appello il L.. Con sentenza di data 15 giugno 2018 la Corte d’appello di Salerno rigettò l’appello.

Osservò la corte territoriale, con riferimento al motivo di appello secondo cui la fideiussione mancava di data certa, non fosse riferibile al L. in proprio, recasse l’indicazione di date contraddittorie e rappresentasse mera conferma di una fideiussione non prodotta, quanto segue: la fideiussione si componeva di un unico foglio sul quale era apposto direttamente il timbro postale, secondo quanto non contestato, sicchè ai fini della certezza della data riguardo ai terzi poteva farsi riferimento al timbro postale; a prescindere dalla mancanza di querela volta a far valere la falsità, il motivo era inammissibile per carenza di interesse dell’appellante ad eccepire la falsa compilazione del documento fideiussorio, avendo costui dichiarato di non avere prestato garanzia; sfuggiva alle censure ed era adeguatamente motivato l’assunto del Tribunale secondo cui l’atto di garanzia presentava in calce, al di sotto delle due sottoscrizioni dei legali rappresentanti di Imatessile s.p.a. e Finima Partecipazioni s.p.a., come evincibile dai timbri delle società, una sottoscrizione riconducibile a L.G., senza specificazione della qualità di organo di compagine sociale, sicchè la sottoscrizione doveva reputarsi apposta per un impegno assunto in proprio e non quale legale rappresentante di una società.

Aggiunse che il negozio era qualificabile come contratto autonomo di garanzia non solo per l’obbligo assunto dal garante di pagare quanto dovuto “a semplice richiesta”, circostanza quest’ultima che doveva orientare nel senso dell’autonoma fattispecie di garantievertrag, ma anche per la clausola per la quale la garanzia manteneva i propri effetti anche in caso di invalidità dell’obbligazione principale, in deroga all’art. 1939 c.c. Osservò ancora che l’exceptio doli generalis, pur correttamente proposta, doveva essere disattesa essendosi l’appellante limitato a sollevarla senza indicare la concreta presenza di circostanze tali da integrare la prova evidente della pretestuosità dell’escussione della garanzia (e cioè l’aver taciuto le situazioni sopravvenute modificative o estintive del diritto). Aggiunse che doveva escludersi che la nullità della pattuizione di interessi legali si comunicasse al contratto autonomo di garanzia, trattandosi di pattuizione, ad eccezione della previsione di interessi usurari, non contraria all’ordinamento in mancanza del divieto assoluto di anatocismo (Cass. n. 20397 del 2017).

Osservò infine in relazione “all’eccezione secondo cui la banca avrebbe escusso una garanzia pignoratizia prestata dalla società debitrice principale C.D.I. il cui importo andava decurtato dal totale dovuto, risulta non contestato che l’importo derivante dall’escussione del pegno sia stato portato dalla banca in decurtazione del conto (OMISSIS) e non del conto n. (OMISSIS), oggetto di ingiunzione, pertanto la stessa è infondata”. Ha quindi concluso nel senso che “assorbita ogni ulteriore questione l’appello è complessivamente infondato”.

Ha proposto ricorso per cassazione L.G. sulla base di nove motivi e resiste con controricorso la parte intimata. E’ stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.. E’ stata presentata memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 99,112,115 e 221 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha omesso di pronunciare sull’eccezione sollevata nell’atto di appello avente ad oggetto la presenza non di tre sottoscrizioni, come affermato dal Tribunale, ma di quattro sottoscrizioni, di cui due quale legale rappresentante di Finima Partecipazioni s.p.a. e di CDI s.p.a., ed altre due sotto le clausole vessatorie da approvare specificatamente, sicchè la garanzia era stata assunta non in proprio dal L. ma quale legale rappresentante delle società. Aggiunge che la corte territoriale ha omesso di concedere il termine per proporre la querela di falso, richiesto all’udienza del 3 marzo 2016 ed in comparsa conclusionale.

Il motivo è infondato. Benchè il ricorrente si dolga della mancata valutazione di eccezione di merito, la censura ha ad oggetto l’omessa valutazione di motivo di appello, censura che, alla luce del richiamo all’art. 112 in rubrica, deve essere qualificata come omessa pronuncia su motivo. Sul motivo il giudice di appello ha pronunciato, richiamando specificatamente la censura e confermando la valutazione di primo grado. Quanto alla querela di falso è lo stesso ricorrente ad affermare che la stessa non è proposta (come del resto rilevato nella decisione impugnata) e che è stato soltanto invocato un termine per proporla (sul punto si rinvia all’esame del quarto motivo).

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 c.p.c., art. 2704 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale, in violazione sia dell’art. 112 che dell’art. 115, ha omesso di esaminare sia il motivo di appello con cui era stato affermato che il timbro postale, in quanto per autoprestazione ovvero spedizione in corso particolare, non soddisfaceva il requisito della certezza della data, non garantendo il riempimento del documento ove era apposto (che poteva quindi anche essere in bianco), sia il motivo di appello avente ad oggetto la pluralità di timbri confliggenti nelle date (in alto a sinistra un timbro illeggibile, un timbro dell’ufficio postale in data 6 giugno 1997 ed un timbro dell’ufficio postale di data 8 giugno 1997).

Il motivo è infondato. In ordine alla questione oggetto della censura il giudice di appello ha pronunciato, affermando che la fideiussione si componeva di un unico foglio sul quale era apposto direttamente il timbro postale, secondo quanto non contestato, sicchè ai fini della certezza della data riguardo ai terzi poteva farsi riferimento al timbro postale. Sui motivi di appello non ricorre pertanto l’omessa pronuncia da parte del giudice appello. Altro è ovviamente il profilo della censurabilità di tale pronuncia.

L’impugnazione è stata proposta anche sotto il profilo della violazione dell’art. 115 c.p.c., ma al riguardo va rammentato che in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (fra le tante da ultimo Cass. n. 1229 del 2019). La censura non è stata proposta in tali termini.

E’ appena il caso di aggiungere che, come rilevato nel controricorso, la questione dei requisiti di certezza della data della scrittura privata ai sensi dell’art. 2704 c.c. riguarda i terzi e non le parti del contratto, come l’odierno ricorrente.

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 c.p.c., artt. 2704 e 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale, in violazione sia dell’art. 112 che dell’art. 115, ha omesso di esaminare il motivo di appello con cui è stato denunciato che la fideiussione era mera conferma di garanzia la cui data era posteriore alla data di conferma (in data 6 giugno 1997 sarebbe stata rinnovata la fideiussione prestata in data 31 luglio 1997 e confermata dalla banca in data 17 settembre 1997). Aggiunge che il giudice di appello non ha tenuto conto del fatto che, trattandosi di mera conferma della garanzia, occorreva produrre in giudizio il contratto di fideiussione.

Il motivo è infondato. In relazione al motivo di appello costituito dall’indicazione di date contraddittorie il giudice di appello ha pronunciato dando rilievo al fatto che la fideiussione si componeva di un unico foglio sul quale era apposto direttamente il timbro postale. Come si è detto a proposito del precedente motivo, non vi è omessa pronuncia da parte del giudice appello, mentre altro è il profilo della censurabilità della pronuncia. Anche in tal caso l’impugnazione è stata proposta come violazione dell’art. 115 c.p.c., secondo le modalità irrituali evidenziate sempre a proposito del precedente motivo.

Quanto alla questione della mancata produzione dell’originaria fideiussione, per essere stata depositata solo la conferma della garanzia, trattasi di profilo incidente sul giudizio di fatto, riservato, quanto alla valutazione della prova, alla competenza del giudice di merito.

Con il quarto motivo si denuncia motivazione apparente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che la motivazione della decisione impugnata, nella parte in cui si legge che il motivo è inammissibile per carenza di interesse dell’appellante ad eccepire la falsa compilazione del documento fideiussorio, avendo costui dichiarato di non avere prestato garanzia, è contraddittoria ed illogica, e quindi apparente, perchè per un verso non si consente all’appellante di provare la mancata sottoscrizione in proprio omettendo di esaminare l’istanza di termine per l’articolazione della querela di falso, per l’altro ha fondato il rigetto del motivo su una pretesa mancanza di querela di falso e sulla carenza di interesse alla contestazione di altre ragioni falsità del documento, omettendo peraltro di considerare che il difetto di sottoscrizione in proprio era censura formulabile in via aggiuntiva e alternativa a quella di incomprensibilità e contraddittorietà.

Il motivo è infondato. Non vi è apparenza della motivazione per l’omesso esame dell’istanza di termine per la proposizione della querela di falso, ed allo stesso tempo il rigetto del motivo per mancanza di querela e carenza di interesse, perchè ciò che determina gli effetti processuali è la proposizione della querela di falso, e non il mero annuncio dell’intenzione di proporla, con istanza di termine per la proposizione. Le conseguenze sul processo si sarebbero determinate in presenza della proposizione della querela, mentre la mera intenzione di proporla (proponendo un’istanza di termine per la proposizione) resta un fatto privo di conseguenze giuridiche.

Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 c.p.c., art. 1421 c.c., L. n. 287 del 1990, art. 2 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che le clausole n. 2 (il fideiussore s’impegna a rimborsare la banca delle somme incassate e restituite per inefficacia o revoca del pagamento o per qualsiasi altro motivo), n. 6 (i diritti della banca restano integri senza necessità dell’escussione entro i termini previsti dall’art. 1957) e n. 8 (nel caso in cui le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione si intende estesa a garanzia dell’obbligo di restituzione delle somme comunque erogate) sono nulle perchè, in quanto conformi ai modelli predisposti dall’ABI nell’ottobre 2002, rappresentano un’intesa restrittiva della concorrenza vietata dalla L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a) (Cass. n. 29810 del 2017, secondo cui sono inclusi nella detta valutazione anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa da parte della Banca d’Italia a condizione che l’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo) e che la nullità è rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità. Aggiunge a tale proposito che fin dal giudizio di primo grado era stata denunciato il carattere vessatorio dell’art. 2 e, nell’atto di appello, la mancanza della specifica approvazione per iscritto, nonchè l’inderogabilità dell’art. 1957 a proposito dell’art. 6.

Il motivo è inammissibile. Il ricorrente sollecita l’esercizio del potere di rilievo officioso della nullità negoziale. L’esercizio di tale potere è precluso dalla qualificazione dell’operazione negoziale in termini di contratto autonomo di garanzia e non di fideiussione, qualifica che resiste alle critiche svolte nell’odierno ricorso come si desume dall’esame del successivo motivo.

Assorbente, in ordine alla sussistenza dei presupposti della dedotta nullità, sarebbe comunque, ove si accedesse al merito della questione, l’epoca di stipulazione del contratto in relazione al venir ad esistenza dell’intesa. In tema di accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dalla L. n. 287 del 1990, art. 2, la stipulazione “a valle” di contratti o negozi che costituiscano l’applicazione di quelle intese illecite concluse “a monte” comprendono anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa da parte dell’Autorità indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato a condizione che quell’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo (Cass. 12 dicembre 2017, n. 29810). Il ricorrente ha allegato che l’intesa vietata risalirebbe ai modelli predisposti dall’ABI nell’ottobre 2002. Il contratto, secondo l’accertamento del giudice di merito, risale al 6 giugno 1997. L’intesa non è stata quindi posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo.

E’ appena il caso di aggiungere che Cass. 19 febbraio 2020 n. 4175, rammentando il principio che dalla declaratoria di nullità dell’intesa non discende automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti, ha affermato che la valutazione della eccezione di nullità in sede di legittimità presuppone che in sede di giudizio di merito siano stati accertati i relativi presupposti di fatto rilevanti nel caso di specie, accertamento rispetto al quale non vi è da parte del ricorrente assolvimento dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (si veda anche sulla questione del rilievo d’ufficio della nullità in sede di legittimità in relazione a quanto accertato in fatto dal giudice di merito Cass. 26 agosto 2020, n. 17818).

Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., artt. 1341,1362 e 1363 c.c., art. 12 preleggi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello ha omesso di esaminare il motivo di appello con il quale è stata dedotta la mancata specifica approvazione per iscritto dell’art. 2 del contratto (il fideiussore s’impegna a rimborsare la banca delle somme incassate e restituite per inefficacia o revoca del pagamento o per qualsiasi altro motivo) avente carattere vessatorio. Aggiunge che, in violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, ha desunto la natura di contratto autonomo di garanzia dalla mera presenza della clausola di pagamento a prima richiesta, e che irrilevante è il richiamo alla clausola derogativa dell’art. 1939, il quale non prova il carattere autonomo della garanzia, come è comprovato dalla circostanza che tale clausola è stata giudicata illegittima da Cass. n. 29810 del 2017. Osserva infine che comunque sussiste la nullità del contratto per violazione della normativa antitrust.

Il motivo è inammissibile. La censura si articola in primo luogo con la denuncia di omessa pronuncia su motivo di appello. Trattasi di censura non delibabile e dunque inammissibile perchè il ricorrente, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non ha specificatamente indicato se l’inefficacia della clausola n. 2 per mancanza di approvazione per iscritto sia stata dedotta come motivo di opposizione a decreto ingiuntivo nell’originario giudizio di primo grado (e trattasi di esigenza tanto più avvertita ove si consideri che in sede di sommaria esposizione dei fatti di causa – pag. 2 del ricorso – fra i motivi di opposizione indicati non vi è quello in discorso).

La seconda ragione di doglianza viene presentata come denuncia della violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, ma in realtà pone una questione di qualificazione del contratto, e cioè se sia corretta la sussunzione del negozio nella categoria del contratto autonomo di garanzia. Il giudice di appello ha operato la detta qualificazione non solo per l’obbligo assunto dal garante di pagare quanto dovuto “a semplice richiesta”, ma anche per la clausola per la quale la garanzia manteneva i propri effetti anche in caso di invalidità dell’obbligazione principale, in deroga all’art. 1939 c.c.. Il ricorrente ha impugnato in modo idoneo la parte della ratio decidendi relativa alla clausola “a semplice richiesta”, ma non quella sulla deroga all’art. 1939, stante il difetto di specificità della censura. Quest’ultima è infatti formulata in modo apodittico, nei semplici termini che il richiamo alla clausola derogativa dell’art. 1939 non proverebbe il carattere autonomo della garanzia (irrilevante è poi la menzione di Cass. n. 29810 del 2017, la quale riguarda, come si è visto a proposito del precedente motivo, l’accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate). La censura difetta quindi di specificità ed è inidonea ad aggredire nella sua interezza la ratio decidendi. Quanto al resto della censura si rimanda a quanto osservato a proposito del precedente motivo.

Con il settimo motivo (indicato come sesto motivo in ricorso) si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 c.p.c., art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che con l’atto di appello era stata sollevata l’exceptio doli con riferimento alla mancata decurtazione dalla pretesa creditoria dell’importo di cui all’escussione di titoli obbligazionari della società debitrice nonchè dei pagamenti del coobbligato e che quanto affermato dalla corte territoriale, a parte l’erroneo riferimento al contratto autonomo di garanzia, non considera che era stata eccepita dall’appellante proprio la presenza di interessi usurari, nè il giudice di appello aveva tenuto conto dei rilievi del consulente di parte alla CTU circa gli interessi e le commissioni da epurare dal saldo. Aggiunge che la circostanza dell’avvenuta decurtazione dell’importo escusso, oltre che eccepita in modo inammissibile solo in appello, non era vera, come dimostrato dall’estratto conto BNL allegato alla lettera del commissario giudiziale di MCM in amministrazione straordinaria.

Il motivo è inammissibile. La censura si articola su un duplice piano, la mancata attribuzione di rilievo agli interessi usurari e la questione della mancata decurtazione di importi già pagati. Entrambe le questioni attengono al giudizio di fatto, non sindacabile nella presente sede se non nei limiti del vizio motivazionale, nella specie non ritualmente denunciato. Ed invero, quanto alla mancata decurtazione di importi, il ricorrente si limita a giustapporre al giudizio di fatto del giudice di merito una propria ricostruzione della vicenda (non conferente è poi il richiamo, peraltro generico, alla tardività, trattandosi del fatto costitutivo del diritto e dunque di materia rimessa al rilievo d’ufficio). Con riferimento agli interessi usurari, a parte l’aspetto del giudizio di fatto circa l’esistenza di tali interessi, la censura è del tutto inosservante dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto il ricorrente non ha specificatamente indicato se e secondo quali modalità la questione sia stata introdotta nel giudizio di primo grado e poi in appello, salvo rispetto a quest’ultimo un generico riferimento a rilievi del consulente di parte alla CTU (mentre in sede di sommaria esposizione dei fatti di causa – pag. 2 del ricorso – si parla, a proposito dei motivi di opposizione al decreto ingiuntivo, di generica illegalità degli interessi applicati, senza uno specifico riferimento agli interessi usurari – nè tanto meno si conoscono eventuali accertamenti della sentenza di primo grado sul punto, e ciò allo scopo anche di apprezzare l’eventuale formazione di giudicato interno).

Con l’ottavo motivo (indicato come settimo motivo in ricorso) si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 c.p.c., art. 117 T.U.B., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che con l’atto di appello era stata dedotta la mancanza di prova del credito nei confronti del debitore principale e la mancata prova dell’invio della documentazione ai sensi dell’art. 117 T.U.B..

Il motivo è inammissibile. La censura attiene in modo diretto alla valutazione della prova e dunque ad un campo riservato alla competenza del giudice di merito. Peraltro, non viene rispettato l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 quanto alla documentazione ai sensi dell’art. 117 T.U.B., con riferimento al se ed al quando dell’ingresso nel processo della questione. Tutto questo a prescindere dalla rilevanza di tali profili dal punto di vista della parte di un contratto autonomo di garanzia, non essendo consentito al garante opporre al creditore eccezioni fondate sul rapporto principale, salvo l'”exceptio doli”, formulabile nel caso in cui la richiesta di pagamento sia “prima facie” abusiva o fraudolenta.

Con il nono motivo (indicato come ottavo motivo in ricorso) si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,183 e 194 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello ha omesso di pronunciare sul motivo di impugnazione avente ad oggetto la CTU sia quanto alla mancata produzione da parte della banca del contratto di conto corrente e degli estratti conto integrali sia quanto all’utilizzo di documenti tardivamente prodotti. Aggiunge che la corte territoriale ha omesso di provvedere in ordine alla richiesta di rinnovazione della CTU.

Il motivo è inammissibile. In relazione agli ulteriori motivi il giudice di appello ha rilevato il presupposto dell’assorbimento. Il ricorrente, invece di impugnare la pronuncia di assorbimento, ha denunciato l’omessa pronuncia, non intercettando quindi la statuizione che doveva essere impugnata. E’ appena il caso di aggiungere che le questioni poste con il motivo, concernenti l’esistenza del rapporto di base, sono ininfluenti dal punto di vista del contratto autonomo di garanzia, a parte ulteriori aspetti di carenza di ritualità della censura proposta.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 – quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

 

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