Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25227 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 10/11/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 10/11/2020), n.25227

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16084-2016 proposto da:

F.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195,

presso lo studio dell’avvocato SERGIO VACIRCA, rappresentato e

difeso dall’avvocato CLAUDIO LALLI;

– ricorrente –

contro

A.R.S.T. S.P.A. Azienda Regionale Sarda Trasporti, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA PAOLA FALCONIERI 100, presso lo studio dell’avvocato PAOLA

FIECCHI, rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE MACCIOTTA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 500/2015 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 23/12/2015 R.G.N. 353/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/09/2020 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. il Tribunale di Cagliari dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato in relazione al periodo 16/12/2008-10/6/2009 (con proroga fino al 10/11/2009) tra l’Azienda Regionale Sarda Trasporti S.p.A. (A.R.S.T.) e F.S., disponeva la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato, condannava, altresì, l’Azienda al risarcimento del danno secondo la previsione di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, (tre mensilità) con compensazione delle spese;

2. la Corte di Appello di Cagliari, adita sia dall’Azienda sia dal F., in parziale riforma della sentenza impugnata, escludeva la conversione del rapporto, confermando, nel resto, la decisione di prime cure e condannava l’A.R.S.T. al pagamento di due terzi delle spese di entrambi i gradi di giudizio, compensando tra le parti la residua quota;

la Corte territoriale, accogliendo i rilievi dell’Azienda appellante, riteneva che la conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato fosse impedita perchè il divieto di assunzione in assenza di procedura concorsuale previsto dalla L.R. n. 16 del 1974 doveva ritenersi vigente anche successivamente alla trasformazione dell’A.R.S.T. in società per azioni avvenuta il 2.8.2007 ai sensi della L.R. n. 11 del 2005 (tanto sul rilievo che tale ultima legge non conteneva alcuna abrogazione espressa della L.R. n. 16 del 1974 e che l’obbligo del concorso non era in contrasto anzi era del tutto compatibile con il nuovo assetto giuridico dell’A.R.S.T.);

in ogni caso evidenziava che l’invocata conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato fosse, comunque, impedita dal D.L. n. 112 del 2008, art. 18, comma 2, convertito dalla L. n. 133 del 2008, con il quale il legislatore aveva imposto alle società a totale partecipazione pubblica di adottare metodi di reclutamento del personale rispettosi dei criteri di trasparenza, pubblicità e imparzialità;

riteneva, da ultimo, inammissibile l’appello incidentale del F. per tardività;

3. avverso questa sentenza F.S. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi;

4. l’A.R.S.T. S.p.A. ha resistito con controricorso;

5. entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L.R. Sardegna 20 giugno 1974, n. 16 e della L.R. 7 dicembre 2005, n. 21, violazione e falsa applicazione dell’art. 117 Cost., violazione della L. Cost. 28 febbraio 1948, n. 3, illegittimità costituzionale della L.R. Sardegna 20 giugno 1974, n. 16, in relazione agli artt. 3 e 117 Cost. e della L. Cost. 26 febbraio 1948, n. 3;

assume che la Corte territoriale ha male interpretato la L.R. n. 16 del 1974, che pur stabilendo, all’art. 23, che le assunzioni devono avvenire “esclusivamente mediante concorso pubblico”, non prevede la nullità dei contratti stipulati senza previa procedura concorsuale e sostiene che tanto esclude il carattere inderogabile della disposizione alla quale dovrebbe essere attribuita natura meramente programmatica; assume che la L.R. n. 16 del 1974 non è più in vigore;

aggiunge che una diversa interpretazione determinerebbe l’illegittimità costituzionale di tale normativa per contrasto con la L. Cost. 26 febbraio 1948, n. 3, che dispone che la potestà legislativa della regione deve svolgersi in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e con il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali e delle norme fondamentali delle riforme economico sociali della Repubblica, e per contrasto con l’art. 117 Cost., che prevede che l’ordinamento civile è di competenza esclusiva dello Stato;

asserisce che la disciplina dei contratti a termine e delle conseguenze del loro abuso è dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001 e dalla L. n. 368 del 2001, di derivazione comunitaria in quanto applicativa della direttiva 70/99/CE;

sostiene che è privo di rilievo il riferimento alla L. n. 133 del 2008, art. 2 bis, c.d. patto di stabilità, perchè successiva ai fatti di causa e perchè non prevede il divieto di conversione dei contratti a termine;

2. con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L.R. n. 16 del 1974 e della L.R. n. 21 del 2005, nonchè conseguente violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001 (per la ritenuta mancata abrogazione delle prime due norme ad opera del D.Lgs. n. 368 del 2001) nella parte in cui viene negata la conversione del contratto dichiarato nullo nel termine in contratto a tempo indeterminato ed ancora omessa e comunque contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia costituito dalla esistenza o meno di un obbligo di assunzione per concorso;

sostiene che nella fattispecie dedotta in giudizio trova applicazione il D.Lgs. n. 368 del 2001 che regola i rapporti di lavoro a tempo determinato di tutti i dipendenti pubblici e privati e che ha abrogato per incompatibilità la L.R. n. 16 del 1974, a sua volta abrogata dalla L.R. n. 21 del 2005;

aggiunge che non può trovare applicazione il D.Lgs. n. 165 del 2001, perchè l’A.R.S.T. anche al momento della stipula del contratto dedotto in giudizio era una società per azioni e che pertanto trova applicazione il D.Lgs. n. 368 del 2001;

3. con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione del principio di effettività del risarcimento del danno conseguente falsa applicazione della liquidazione equitativa, vizio di motivazione, conseguente violazione degli artt. 1218,1219,1223,1224,1225 e 1226 c.c.;

imputa alla Corte territoriale di avere violato il principio del diritto comunitario di effettività “(avente efficacia dissuasiva)” del risarcimento del danno;

assume che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 ove pure non ritenuto abrogato per incompatibilità dal D.Lgs. n. 368 del 2001, deve essere disapplicato perchè, in difformità rispetto ai principi di diritto comunitario ed alla giurisprudenza della CGUE, non indica in misura concreta l’entità del risarcimento del danno e che l’indennità risarcitoria deve essere commisurata a tutte le retribuzioni maturate dalla scadenza del contratto in applicazione delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 368 del 2001;

addebita alla Corte territoriale di avere liquidato il danno in via equitativa e forfettaria con mero richiamo, senza alcuna altra specificazione, al D.Lgs. n. 81 del 2015 e in violazione delle norme del codice civile richiamate nella rubrica;

4. in via preliminare va respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla controricorrente in quanto i requisiti imposti dall’art. 366 c.p.c., rispondono ad un’esigenza che non è di mero formalismo, perchè finalizzati a consentire al giudice di legittimità di acquisire il quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione impugnata, indispensabile per comprendere il significato e la portata delle censure;

non è, quindi, necessario che la sentenza venga trascritta nei suoi esatti termini, essendo sufficiente che il ricorrente individui e sintetizzi le ragioni sulle quali poggia la decisione e li confuti con argomenti specificamente riferibili al decisum, ragioni che il ricorrente ha esplicitato nelle prospettazioni difensive sviluppate a sostegno dei vizi addebitati alla sentenza impugnata;

va rigettata anche l’eccezione di improcedibilità, ovvero di inammissibilità, del ricorso formulata dalla controricorrente sul rilievo della mancata impugnazione della sentenza nella parte in cui ha considerato preclusiva alla conversione del rapporto la disposizione contenuta nel D.L. n. 112 del 2008, art. 18, comma 2 bis, convertito con modificazioni nella L. n. 133 del 2008 e integrato dalla L. n. 102 del 2009, art. 19;

il ricorrente con i primi due motivi di ricorso ha negato proprio la ricostruzione della disciplina di fonte legale, statale e regionale, ritenuta applicabile dalla Corte territoriale al rapporto dedotto in giudizio, disciplina che compete alla Corte di Cassazione di individuare;

5. passando all’esame dei motivi di ricorso, è utile premettere che è indiscusso (cfr. ricorso pag. 1, sentenza impugnata pag. 5) che tra il F. e A.R.S.T. S.p.A. è stato stipulato il contratto a tempo determinato (prorogato) di cui allo storico di lite;

6. le censure che attengono alla questione relativa alla conversione dei rapporti a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato stipulati dalla A.R.S.T. (primo e secondo motivo di ricorso) sono già state affrontate da questa Corte in numerose pronunce (Cass. n. 6818/2018; Cass. n. 6672/2018; Cass. n. 5525/2018; Cass. n. 5524/2018; Cass. n. 5395/2018; Cass. n. 4897/2018; Cass. n. 4358/2018; Cass. n. 3621/2018) relative a fattispecie nelle quali, come nel caso in esame, venivano in rilievo stipulazioni di contratti a tempo determinato con la A.R.S.T. nella vigenza del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 18 conv. con mod. dalla L. 6 agosto 2008, n. 133;

il Collegio ritiene di dare continuità ai principi affermati nelle sentenze sopra richiamate condividendone tutte le ragioni esposte, da intendersi qui richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c., atteso che il ricorrente nel ricorso e nella memoria ex art. 380 bis c.p.c. non apporta argomenti decisivi che impongano la rimeditazione dell’orientamento giurisprudenziale innanzi richiamato, posto che la sentenza di questa Corte n. 5063 del 2018, invocata nella memoria, costituisce un precedente isolato, superato dalle indicate decisioni;

7. rammentata la ricostruzione sistematica di cui alle sentenze innanzi richiamate, è in questa sede sufficiente ribadire che la volontà del legislatore nazionale, espressa con il citato art. 18, è stata quella di estendere alle società partecipate (pur mantenendo ferma la natura privatistica dei rapporti di lavoro, sottratti alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001) i vincoli procedurali imposti alle amministrazioni pubbliche nella fase del reclutamento del personale, così recependo i principi affermati dalla Corte Costituzionale già a partire dalla sentenza n. 466/1993, con la quale il Giudice delle leggi ha osservato che il solo mutamento della veste giuridica dell’ente non è sufficiente a giustificare la totale eliminazione dei vincoli pubblicistici, ove la privatizzazione non assuma anche “connotati sostanziali, tali da determinare l’uscita delle società derivate dalla sfera della finanza pubblica”;

8. tanto, del resto, è stato ribadito dal legislatore nazionale che nel D.Lgs. n. 165 del 2016, art. 1, comma 3 (Testo Unico delle società a partecipazione pubblica) ha previsto che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato” e richiamato all’art. 19, comma 1, quanto ai rapporti di lavoro, “le disposizioni del capo 1, titolo 2, del libro 5 del codice civile, delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi” facendo, però, salve le diverse disposizioni speciali dettate dallo stesso decreto e così, per quel che qui rileva, quella di cui all’art. 19 che, al comma 2, impone alle società a controllo pubblico di stabilire “criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi, anche di derivazione Europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 35, comma 3” e, al comma 4, prevede espressamente la nullità dei contratti di lavoro stipulati in difetto dei provvedimenti e delle procedure di cui al comma 2 (della disposizione di cui all’art. 19, comma 4, nei precedenti sopra richiamati, è stata esclusa la portata innovativa);

l’indicato impianto normativo trova giustificazione nella natura del socio unico o maggioritario e negli interessi collettivi da quest’ultimo curati, sia pure attraverso lo strumento societario;

9. nè può dubitarsi del carattere imperativo del D.L. n. 112 del 2008, art. 18 dovendosi ricordare, richiamando Cass., Sez. Un., n. 26724/2007, che le norme che incidono sulla validità del contratto non sono solo quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale ma anche quelle che “in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalla legge, o in mancanza dell’iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili; se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni – se così può dirsi ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo” (si vedano nel medesimo senso Cass. n. 25222/2010; Cass. 525/2020);

l’omesso esperimento delle procedure concorsuali o selettive non genera, dunque, solo responsabilità contabile a carico dei dirigenti delle società partecipate, posto che l’individuazione del contraente con modalità difformi da quelle prescritte dal legislatore, si risolve nella mancanza in capo a quest’ultimo dei requisiti soggettivi necessari per l’assunzione;

in merito al rapporto fra procedura concorsuale del D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 35 e contratto di lavoro, si è osservato che “sussiste un inscindibile legame fra la procedura concorsuale ed il rapporto di lavoro con l’amministrazione pubblica, poichè la prima costituisce l’atto presupposto del contratto individuale, del quale condiziona la validità, posto che sia la assenza sia la illegittimità delle operazioni concorsuali si risolvono nella violazione della norma inderogabile dettata dal D.Lgs. n. n. 165 del 2001, art. 35, attuativo del principio costituzionale affermato dall’art. 97, comma 4 della Carta fondamentale” (Cass. n. 13884/2016);

10. affermato che per le società a partecipazione pubblica il previo esperimento delle procedure concorsuali e selettive condiziona la validità del contratto di lavoro, non può che operare il principio richiamato innanzi secondo cui anche per i soggetti esclusi dall’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, la regola della concorsualità imposta dal legislatore, nazionale o regionale, impedisce la conversione in rapporto a tempo indeterminato del contratto a termine affetto da nullità;

diversamente opinando si finirebbe per eludere il divieto posto dalla norma imperativa che, come già evidenziato, tiene conto della particolare natura delle società partecipate e della necessità, avvertita dalla Corte Costituzionale, di non limitare l’attuazione dei precetti dettati dall’art. 97 Cost., ai soli soggetti formalmente pubblici bensì di estenderne l’applicazione anche a quelli che, utilizzando risorse pubbliche, agiscono per il perseguimento di interessi di carattere generale;

11. nè sussiste il denunciato contrasto con la direttiva 1999/70/CE e la eccepita illegittimità costituzionale della normativa per violazione dell’art. 3 Cost.;

la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha da tempo chiarito che spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte agli abusi nella reiterazione dei contratti a termine e che queste ultime possono essere anche diverse dalla conversione in rapporto a tempo indeterminato, purchè rispettino i principi di equivalenza e siano sufficientemente effettive e dissuasive per garantire l’efficacia delle norme adottate in attuazione dell’Accordo quadro recepito dalla direttiva (v. da ult. C. Giust. UE, 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia; id., 7 settembre 2006, C-53/03, Marrosu e Sardino; id., 7 settembre 2006, C-180/04, Vassallo; Id., 4 luglio 2006, C212/04, Adeneler);

la Corte Costituzionale, che ha evidenziato la assimilabilità al lavoro pubblico dei rapporti instaurati con le società partecipate, ha escluso che una difformità di trattamento con l’impiego privato, rispetto alla sanzione generale della conversione di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, possa dirsi ingiustificata ove vengano in rilievo gli interessi tutelati dall’art. 97 Cost., ed in particolare le esigenze di imparzialità e di efficienza dell’azione amministrativa (Corte Cost. nn. 89/2003), esigenze che ad avviso della stessa Corte stanno alla base della disciplina dettata dal richiamato del D.L. n. 112 del 2008, art. 18 (Corte Cost. n. 68/2011);

le Sezioni Unite questa Corte, nel noto arresto n. 5072 del 2016, con riferimento alla norma contenuta nel T.U. n. 165 del 2001, art. 36, hanno enunciato il principio secondo cui nell’ipotesi di illegittima reiterazione di contratti a termine alle dipendenze di una pubblica amministrazione l’efficacia dissuasiva richiesta dalla clausola 5 dell’Accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE postula una disciplina agevolatrice e di favore, che consenta al lavoratore che abbia patito la reiterazione di contratti a termine di avvalersi di una presunzione di legge circa l’ammontare del danno;

il suddetto principio ha trovato conferma nella sentenza della Corte di Giustizia 7 marzo 2018, C-494/16, Santoro, e nella sentenza della Corte costituzionale n. 248 del 2018;

12. dando, poi, atto che il pregiudizio è normalmente correlato alla perdita di chances di altre occasioni di lavoro stabile (e non alla mancata conversione del rapporto, esclusa per legge con norma conforme sia ai parametri costituzionali che a quelli comunitari), le Sezioni Unite hanno ritenuto incongruo il parametro di cui all’art. 18 St. lav. perchè per il dipendente pubblico a termine non c’è la perdita di un posto di lavoro ed affermato che va, invece, fatto riferimento alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, che appunto riguarda il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine individuando in quest’ultima una disposizione idonea allo scopo, nella misura in cui, prevedendo un risarcimento predeterminato tra un minimo ed un massimo, esonera il lavoratore dall’onere della prova, fermo restando il suo diritto di dimostrare di aver subito danni ulteriori;

13. le prospettazioni difensive sviluppate dal ricorrente (primo e secondo motivo) correlate alle L.R. n. 16 del 1974 e L.R. n. 21 del 2005 e al D.Lgs. n. 368 del 2001 (“per la ritenuta mancata abrogazione delle prime due norme ad opera del D.Lgs. n. 368 del 2001”) sono prive di decisività alla luce delle considerazioni innanzi svolte in merito al divieto di conversione imposto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 18 conv. con mod. dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, disposizione posta a base del decisum della sentenza;

14. la questione posta dalla controricorrente (controricorso pag. 17 – con il richiamo ad un trascritto passaggio motivazionale della sentenza impugnata che, però, non corrisponde a quello effettivo -, pag. 21 e pag. 27), relativa alla sopravvivenza del divieto previsto dalla L.R. n. 16 del 1974, art. 23 in ragione del suo recepimento nello statuto dell’A.R.S.T. S.p.A., pur pregnante, oltrechè non decisiva alla luce di quanto innanzi considerato in ordine al divieto di conversione imposto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 18 conv. con modd. dalla L. 6 agosto 2008, n. 133 (disposizione, questa, che come innanzi precisato, è stata posta a fondamento del decisum della sentenza impugnata), non è esaminabile perchè estranea ai motivi di ricorso;

15. il terzo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di rilevanza;

16. il ricorrente si duole della liquidazione del danno effettuata dalla Corte di Appello, in quanto il risarcimento, equitativo e forfettario, non sarebbe effettivo come, invece, nel caso della corresponsione di tutte le retribuzioni dalla scadenza del contratto alla sentenza;

in tal modo, tuttavia, il ricorrente prescinde dall’intera ratio decidendi della statuizione del giudice di appello, che anche quanto al profilo risarcitorio, ha come inscindibile presupposto logico-giuridico la impossibilità di dare corso alla trasformazione e riconoscere al lavoratore un posto di lavoro a tempo indeterminato (statuizione che ha resistito alle censure del primo e del secondo motivo di ricorso);

17. quanto all’applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 il ricorrente non ha contestato la quantificazione del risarcimento, nè ha dedotto di aver allegato e provato danni ulteriori rispetto a quelli attribuiti dalla Corte territoriale in via equitativa e forfetizzata;

18. sono, poi, inammissibili le censure che addebitano alla sentenza il vizio di omessa e comunque contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (secondo motivo) e il vizio di motivazione (terzo motivo) perchè estranee al perimetro del mezzo impugnatorio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile ratione temporis perchè la sentenza impugnata è stata pubblicata il 23 dicembre 2015);

19. in conclusione il ricorso va rigettato;

20. le spese, nella misura liquidata in dispositivo, seguono la soccombenza;

21. sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013), ove dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’A.R.S.T. S.p.A., delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

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