Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25204 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. I, 10/11/2020, (ud. 22/09/2020, dep. 10/11/2020), n.25204

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36116/2018 proposto da:

A.E., elettivamente domiciliato in ROMA presso CORTE

CASSAZIONE e rappresentato e difeso dall’avvocato COLAVINCENZO

DANILO;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 3084/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/09/2020 da Dott. CONTI ROBERTO GIOVANNI;

udito l’Avvocato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

A.E., nato in (OMISSIS), impugnò innanzi al Tribunale di Roma il provvedimento di rigetto dell’istanza volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale e, in subordine, di quella sussidiaria e umanitaria adottato dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma.

Il Tribunale di Roma rigettò il ricorso con ordinanza ex art. 702 bis c.p.c., rilevando le diverse e contraddittorie narrazioni progressivamente poste dal richiedente a fondamento della domanda, avendo quest’ultimo dichiarato di avere lasciato nel 2011 il proprio paese per recarsi in Burkina Faso, in Niger e poi in Libia e di avere lasciato il (OMISSIS) per lavorare, subendo maltrattamento al suo arrivo in Libia.

Avverso la decisione di primo grado l’ A. propose appello.

La Corte di appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, rigettò l’impugnazione osservando che: a) la non veridicità del racconto reso innanzi alla Commissione era conclamata dallo stesso ricorrente, il quale aveva fornito innanzi al Tribunale una versione diversa; b) il ricorrente aveva insistito unicamente per il riconoscimento del permesso per ragioni umanitarie; c) il contrasto fra la versione delle ragioni dell’allontanamento dal paese di origine originariamente resa e quella esposta innanzi al Tribunale inficiavano l’attendibilità anche dell’ultima versione, residuando la veridicità solo con riguardo alla provenienza dell’appellante; e) quanto alla richiesta di permesso umanitario, il richiedente non rientrava fra le categorie per le quali è previsto il divieto di espulsione (art. 19 T.U. immigrazione); f) la situazione del paese di origine era in ogni caso profondamente mutata rispetto al momento in cui il richiedente aveva deciso di lasciare il Paese (anno 2011) come risultava da numerose fonti internazionali, specificamente indicate; g) il diritto al permesso umanitario non poteva riconoscersi unicamente per le condizioni di salute non buone, richiedendosi che queste siano conseguenza della violazione dei diritti umani subita nel paese di provenienza. Nel caso concreto il ricorrente aveva ricollegato la sua condizione di salute alle violenze subite in Libia, peraltro risultando il quadro clinico tale da escludere un disturbo psicologico clinicamente significativo, residuando esiti cicatriziali stabilizzati non richiedenti alcun trattamento.

L’ A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

Il Ministero dell’interno non si è costituito.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), b) e c), comma 4, comma 5, lett. c), art. 5, comma 1, lett. c), art. 6, comma 2, art. 7, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3 e art. 27, comma 1 bis. La Corte di appello non avrebbe svolto un compiuto esame di tutti i fatti pertinenti il paese di origine, tenuto conto della documentazione prodotta dal richiedente, dalle sue condizioni personali e dalle informazioni generali e specifiche pertinenti. Il giudice di appello avrebbe fornito un quadro della situazione sociale e politica del (OMISSIS) non corrispondente alla realtà emergente da numerosi rapporti di organizzazioni internazionali, idonei a dimostrare l’esistenza di una condizione di vulnerabilità come rappresentata dal richiedente. Il ricorrente contesta altresì la ritenuta inattendibilità delle sue dichiarazioni e dalla quale era derivato il mancato approfondimento istruttorio da parte del giudice di appello sulla capacità delle istituzioni ghanesi di fornire adeguata tutela rispetto ad una condizione di vulnerabilità.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e la contraddittoria motivazione in ordine alla valutazione della certificazione medica prodotta. La contraddittorietà starebbe nell’avere il giudice a quo ritenuto l’irrilevanza dei postumi clinici prodotti fuori dal paese di origine e, in particolare nei paesi di transito. La condizione del richiedente, se posta in relazione alla vicenda individuale consumatasi in Libia, avrebbe dovuto giustificare il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

La prima censura è inammissibile, posto che il ricorrente omette di considerare che l’unico motivo sul quale si è fondato l’appello riguardava la protezione umanitaria, sicchè le censure che attengono ad altre forme di protezione risultano fuori bersaglio.

Quanto all’accertamento della condizione del (OMISSIS), la censura è inammissibile riguardando, appunto, le valutazioni in fatto svolte dal giudice di merito, in maniera congrua e appagante dal punto di vista motivazionale.

Il secondo motivo è parimenti inammissibile.

La censura, invero, non integra un omesso esame di un fatto, avendo la Corte di appello preso in considerazione la certificazione medica attestate i postumi residuati in capo al richiedente subiti in Libia. Sicchè la diversa valutazione in ordine al significato che quella certificazione avrebbe dovuto assumere a fini delle domande proposte dal richiedente non può trovare spazio in relazione alla censura proposta – cfr. Cass., S.U. n. 8054/2014 -.

Per altro verso, non può condurre a diverse conclusioni la circostanza che la Corte di appello abbia specificamente sottolineato che le lesioni subite dal richiedente fossero derivate dalla permanenza del richiedente in Libia – dunque nel paese di transito e non subite nel paese d’origine -.

Ed infatti, se è vero che questa Corte ha già avuto modo di affermare che le violenze subite nei paesi di transito possono assumere rilevanza centrale nella valutazione del grado di vulnerabilità della persona poichè il giudizio comparativo tra la condizione personale e le conseguenze di un eventuale rimpatrio non può prescindere dalla considerazione della persona, dei suoi diritti fondamentali e della sua dignità di essere umano – cfr., ad es., Cass. n. 1104/2020 – tale indirizzo non assume alcune rilevanza ai fini del presente giudizio, in cui la Corte di appello ha affermato, con valutazione non contestata dal ricorrente, che detti residuati non avevano prodotto alcun disturbo di natura psicologica nè rendevano necessario alcun trattamento sanitario.

Sulla base di tali considerazioni il ricorso va dichiarato inammissibile.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

 

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