Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25190 del 24/10/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 24/10/2017, (ud. 23/06/2017, dep.24/10/2017),  n. 25190

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Presidente –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12069-2016 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL

VIMINALE 38 presso lo studio dell’avvocato CARMINE FARACE; che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ (OMISSIS) SRL;

– intimato –

avverso il decreto n. R.G. 4653/2015 del TRIBUNALE di NAPOLI,

depositato il 04/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 23/06/2017 dal Consigliere Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.G., ex dipendente della fallita (OMISSIS) s.r.l., proponeva domanda di ammissione allo stato passivo per la somma di Euro 53.547,51 che assumeva spettargli a titolo di trattamento di fine rapporto. Deduceva di aver prestato la propria opera alle dipendenze della detta società dal 2 luglio 1979 al 4 febbraio 2011, con la qualifica di impiegato.

Il giudice delegato rigettava l’istanza di ammissione al passivo.

2. – M. proponeva opposizione, deducendo, tra l’altro, che solo dopo la cessazione del vincolo di subordinazione con la società fallita aveva “trovato la forza” di rivendicare i suoi diritti nei confronti di Ma. – dominus della società stessa – presso cui aveva pure prestato la propria attività lavorativa.

Nella resistenza del fallimento, il quale contestava, tra l’altro, il rapporto di lavoro subordinato, il Tribunale di Napoli, con Decreto del 4 aprile 2016, respingeva la detta opposizione. In particolare, escludeva fosse provato il rapporto di lavoro del ricorrente alle dipendenze di (OMISSIS) e riteneva che la conciliazione in sede sindacale tra M. e Ma. avente ad oggetto, all’apparenza, la definizione di pendenze relative al rapporto di lavoro subordinato che sarebbe intercorso tra i due, fosse stata simulata per “tacitare” le pretese dell’odierno ricorrente in relazione ai suoi rapporti di affari con Ma. nell’ambito della gestione della società fallita.

3. – Il decreto è impugnato per cassazione da M.. La curatela fallimentare non ha svolto attività professionale in questa sede.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso si articola in tre ordini di deduzioni.

Viene lamentata l’erronea valutazione delle prove poste a fondamento della domanda di ammissione, citandosi, al riguardo, alcuni elementi documentali e rilevandosi come il Tribunale avesse male apprezzato il corredo probatorio. E’ poi censurata la mancata ammissione di una prova testimoniale, osservandosi che la stessa non presentava la genericità ravvisata dal giudice dell’opposizione. Infine è espressa una doglianza con riguardo all’erronea valutazione del verbale conciliazione sottoscritto dallo stesso ricorrente e Ma.: secondo l’istante il Tribunale aveva basato la propria decisione su di una supposta confusione dei rapporti tra il dipendente e la società più che sulla base di prove circa l’inesistenza del rapporto lavorativo in contestazione.

2. – Il ricorso è palesemente inammissibile.

Sono le modalità di formulazione e i contenuti del mezzo di impugnazione a renderlo tale.

Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso; il singolo motivo, infatti, assume una funzione identificativa condizionata dalla sua formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative di censura formalizzate con una limitata elasticità dal legislatore: la tassatività e la specificità del motivo di censura esigono, quindi, una precisa formulazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche di censura enucleate dal codice di rito (Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; in senso sostanzialmente conforme: Cass. 29 maggio 2012, n. 8585; Cass. 22 settembre 2014, n. 19959). Le censure alla pronuncia di merito devono trovare dunque collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa: ne consegue che la parte non può limitarsi – come nel caso in esame – a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (Cass. 28 novembre 2014, n. 25332).

Per mera completezza, va osservato che il ricorso è pure carente di autosufficienza, in quanto, oltre a risolversi nell’affermazione, più o meno argomentata, del rilievo che dovevano assumere, ai fini della decisione, le prove (quelle documentali, comprensive del verbale di conciliazione giudiziale, e quella testimoniale, che non è stata assunta), non riproduce il contenuto degli scritti, non replica, nella capitolazione, la prova testimoniale, non indica quando i documenti siano stati prodotti, non precisa quando sia stata formulata l’istanza di prova orale, nè quando sia stato assunto il provvedimento che ha ritenuto inammissibile quest’ultima.

3. – Non deve statuirsi sulle spese processuali, visto che la parte vittoriosa non ha svolto alcuna attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

Nulla sulle spese ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti perchè la parte principale proceda al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della 6 Sezione Civile, il 23 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2017

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