Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25187 del 24/10/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 24/10/2017, (ud. 23/06/2017, dep.24/10/2017),  n. 25187

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Presidente –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26152-2015 proposto da:

T.S.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

LUNIGIANA 6 presso il Dott. D.G., rappresentata e

difesa dall’avvocato MARIO INTILISANO;

– ricorrente –

contro

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE DI VILLA

MASSIMO 33, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO SICARI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ALFREDO VICARI;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza n. R.G. 501/2014 della CORTE D’APPELLO di

MESSINA, depositata il 05/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 23/06/2017 dal Consigliere Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Nel 2006 il Tribunale di Patti, sul ricorso di S.G., ingiungeva a T.S.E. il pagamento della somma di Euro 19.108,90, maggiorata degli interessi: somma portata da due assegni bancari.

L’intimata proponeva opposizione: deduceva che l’unico rapporto intercorso con la controparte, che era legale rappresentante della società denominata Edilizia Residenziale, aveva avuto ad oggetto l’acquisto di un appartamento; rilevava che il corrispettivo dell’immobile era stato completamente versato e che essa ingiunta, a garanzia dell’importo di 127.000.000, pari all’ultima rata di prezzo, aveva rilasciato a S.G. degli assegni che erano stati abusivamente riempiti. Eccepiva la prescrizione dell’azione cambiaria e deduceva, altresì, che l’opposto non era legittimato in proprio, posto che il rapporto era intercorso tra la medesima opponente e la società sopra indicata.

Il Tribunale di Patti, con sentenza pubblicata in data 5 giugno 2014, rigettava l’opposizione osservando come, nella fattispecie, non fosse stato allegato un riempimento degli assegni contra pacta, quanto, piuttosto, absque pactis: sicchè l’opponente avrebbe dovuto proporre querela di falso; lo stesso Tribunale osservava, inoltre, che l’assegno bancario costituiva una promessa di pagamento e che S.E.T. non aveva provato l’estinzione di ogni posizione debitoria nei confronti della controparte, essendosi limitata a formulare i un’allegazione specificamente contestata dall’opposto.

2. – La pronuncia era impugnata dall’opponente, soccombente in primo grado, e la Corte di appello di Messina, con sentenza pubblicata il 17 luglio 2015, dichiarava inammissibile il gravame a norma dell’art. 348 bis c.p.c..

3. – Contro il provvedimento di primo grado, confermato dalla richiamata ordinanza, e contro quest’ultimo provvedimento ricorre per cassazione S.E.T., la quale fa valere quattro motivi di impugnazione. Resiste con controricorso S.G., che ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 348 bis c.p.c., in relazione all’art. 348 ter e all’art. 342 c.p.c., comma 1, n. 1. Si deduce in sintesi che il provvedimento del giudice di appello sia da considerare palesemente illegittimo in quanto ha ritenuto che gli elementi di fatto della controversia potessero dirsi “pacificamente avvenuti così come desumibile attraverso il richiamo agli atti di parte ed alla sentenza impugnata”.

Il secondo mezzo denuncia il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, nonchè omesso esame della circostanza per cui l’opponente aveva sempre affermato, e la controparte confermato, che la sottoscrizione e consegna degli assegni era avvenuta prima e non dopo l’atto pubblico del 31 luglio 2001; viene altresì dedotto l’omesso esame della prova che tutte le obbligazioni relative al contratto preliminare riprodotte nel definitivo erano state adempiute e regolarmente quietanzate.

Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 1950 e 1953 c.c..

Col quarto mezzo la ricorrente si duole infine della violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in ordine all’onere della prova in tema di azione di regresso.

2. – Il ricorso è inammissibile per tardività.

L’ordinanza della Corte di appello risulta pronunciata il 17 luglio 2015 e non consta documentazione della comunicazione del provvedimento in questione alla parte che oggi è ricorrente. Ora, è vero che in ipotesi di mancata comunicazione o notificazione trova applicazione il termine “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c. (Cass. 14 dicembre 2015, n. 25115). Ma è altrettanto vero che il ricorrente, per dimostrare la tempestività del ricorso ex art. 348 ter c.p.c., proposto oltre i sessanta giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza, ha l’onere di allegare sia l’assenza di comunicazione (potendo quest’ultima avvenire sin dallo stesso giorno della pubblicazione), sia la mancata notificazione, affermando, pertanto, di fruire del cd. termine lungo (Cass. 9 febbraio 2016, n. 2594). Di contro, la stessa odierna istante ha espressamente riconosciuto che la comunicazione ha avuto luogo (ricorso, pag. 1), e ciò ha fatto indicando una data di perfezionamento dell’incombente (il 17 luglio 2015) rispetto alla quale l’impugnazione risulterebbe, oltretutto, comunque tardiva (infatti, il ricorso per cassazione è stato avviato per la notifica il 19 ottobre dello stesso anno: al riguardo deve rilevarsi, infatti, che D.L. n. 132 del 2014, art. 16, convertito, con modificazioni, in L. n. 162 del 2014, ha innovato la disciplina contenuta nella L. n. 742 del 1969 riducendo il termine si sospensione dei termini nel periodo feriale a 30 giorni: tale riduzione ha avuto effetto con decorrenza dall’anno 2015, come previsto dal comma 3 dello stesso art. 16).

3. – Segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti perchè la parte principale proceda al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 6 Sezione Civile, il 23 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2017

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