Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25187 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. I, 10/11/2020, (ud. 22/09/2020, dep. 10/11/2020), n.25187

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – rel. Consigliere –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11667/2019 proposto da:

R.S., elettivamente domiciliato in Roma, presso Corte

Cassazione e rappresentato e difeso dall’Avvocato PRATICO’

ALESSANDRO;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 1732/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 02/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/09/2020 da Dott. GORJAN SERGIO;

udito l’Avvocato.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

R.S. – cittadino del (OMISSIS) – ebbe a proporre ricorso avanti il Tribunale di Torino avverso la decisione della locale Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, che aveva rigettato la sua istanza di protezione in relazione a tutti gli istituti previsti dalla relativa normativa.

Il ricorrente deduceva d’essersi dovuto allontanare dal suo Paese poichè, venuto a disputa con iscritto al partito al governo per il possesso di un terreno, nella rissa che ne seguì rimase ferito lui ed il figlio dell’avversario.

Posto che l’avversario, usando delle sue conoscenze politiche, aveva denunziato lui e suo fratello e che quest’ultimo era stato arrestato in seguito alla denunzia, egli s’era determinato ad espatriare per sfuggire all’arresto.

Il Tribunale piemontese ebbe a rigettare il ricorso, ritenendo non credibile il racconto del richiedente asilo, non concorrente situazione socio-politica di violenza generalizzata in Bangladesh e rilevando che, con riguardo alla protezione umanitaria, il ricorrente non aveva fornito elementi utili per poter individuare una sua situazione di vulnerabilità.

Avverso detta ordinanza il R. propose gravame avanti la Corte d’Appello di Torino, che, nella contumacia del Ministero degli Interni, rigettò l’impugnazione, osservando come le critiche proposte non superavano la corretta statuizione del Tribunale in ordine all’inaffidabilità del suo racconto: come nel Bangladesh non concorreva situazione connotata da violenza diffusa e come, in assenza di una condizioni di vulnerabilità, il solo elemento afferente l’attività lavorativa svolta in Italia non era sufficiente per il riconoscimento della protezione umanitaria.

Il R. ha proposto ricorso per cassazione articolato su quattro motivi.

Il Ministero degli Interni, ritualmente vocato, ha depositato solo nota ex art. 370 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso svolto dal R. risulta inammissibile a sensi dell’art. 360 bis c.p.c. – siccome la norma ricostruita ex Cass. SU n. 7155/17.

Con il primo mezzo d’impugnazione proposto il ricorrente deduce violazione delle norme D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, commi 1, 3 e 5 ed D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3, in quanto il Collegio cisalpino, con motivazione illogica ed apparente, ha ritenuto non credibile il racconto, reso a giustificazione della sua decisione di espatriare, sulla base di mere supposizioni.

Con il secondo motivo di doglianza il R. rileva omesso esame di fatti decisivi prospettati dalla parte.

In particolare il ricorrente rileva come l’osservazione del Collegio piemontese che il passaporto ed il visto non gli sarebbero stati rilasciati in pendenza di denunzia penale era mera congettura dei Giudici non suffragata da alcun dato fattuale di conferma e come, secondo le sue dichiarazioni, il germano fu arrestato circa un anno dopo la lite e, non già, nell’immediatezza come invece ritenuto erroneamente dalla Corte distrettuale.

Con la terza ragione di doglianza il R. deduce illegittimità poichè la Corte territoriale ebbe, solo in sede di gravame, a dar rilievo alla mancata produzione della documentazione afferente il procedimento penale conseguito alla – dedotta – denuncia penale esposta nei suo riguardi.

Le tre doglianze mosse in quanto intimamente connesse vanno esaminate congiuntamente e si rivelano inammissibili poichè non viene svolto effettivo ed olistico confronto con la motivazione, illustrata dalla Corte cisalpina nella sentenza impugnata.

Anzitutto deve rilevare la Corte come il ricorrente deduca vizio di omesso esame di fatti rilevanti – art. 360 c.p.c., n. 5 – ma non indichi in modo specifico a quali fatti si riferisca, con l’ovvia conseguenza della genericità del motivo.

Se, poi, il cenno deve essere ricondotto all’argomento critico fondato sull’osservazione che il ragionamento logico esposto dalla Corte subalpina in relazione all’impossibilità di ottenere visto e passaporto in pendenza di denunzia penale oppure all’asserito errore relativo alla tempistica dell’arresto del germano, allora l’argomento critico svolto non può, nemmeno astrattamente, esser incasellato nel vizio di legittimità evocato.

Difatti, come s’apprezza dallo stesso svolgimento della critica portata nel ricorso, la Corte cisalpina ebbe ad esaminare detti fatti ma avrebbe – in tesi – errato nell’apprezzarli, sicchè la censura in effetti svolta si compendia nella richiesta a questa Corte di legittimità di un inammissibile apprezzamento circa il merito della causa.

I Giudici d’appello hanno partitamente esaminato il narrato reso dal R. ed osservato – mettendone in risalto proprio la diversità diacronica – come egli stesso sosteneva d’esser stato denunziato subito dopo la lite, mentre il fratello fu arrestato circa un anno dopo, e su detto dato – e non già l’arresto del germano – i Giudici di merito hanno fondato la loro complessiva argomentazione logica di non credibilità.

Difatti la Corte territoriale ha, bensì, osservato come appariva improbabile la partenza dal Bangladesh dopo aver avuti rilasciati passaporto e visto per la Libia in pendenza di denunzia penale – argomento logico contestato quale mera supposizione poichè non fondata su dato fattuale alcuno, ma anche ha ancorato detta osservazione al dato di rilievo che la parte offesa era stata indicata quale persona influente presso le Autorità di Polizia tanto che il fratello era stato tratto in arresto dopo un anno dal fatto.

Inoltre, come s’apprezza dal tenore del terzo mezzo d’impugnazione svolto, la Corte ha pure aggiunto quale elemento fattuale rilevante proprio la condotta del R. che, nonostante l’arresto del fratello e la circostanza d’esser sempre in contato con i parenti in Patria, mai ha versato in atti documentazione relativa al procedimento penale in corso in Bangladesh a carico suo od almeno del fratello. Quindi la motivazione portata dai Giudici subalpini a sostegno della loro statuizione circa la non credibilità del racconto reso dal ricorrente non si fonda esclusivamente sull’argomento logico, privo di riscontro fattuale, ma pure su dati logici e fattuali desunti e dal narrato e dalla stessa condotta difensiva del R., che assume specifico rilievo in forza della norma D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, richiamata dalla Corte territoriale – onere del richiedente asilo di collaborare nei limi delle sue possibilità a documentare quanto riferito.

Detto rilevante dato della valutazione probatoria operata dalla Corte cisalpina viene attinto con la terza ragione di censura.

Deve però la Corte rilevare in limine come il ricorrente non indichi la norma ritenuta violata con ovvie conseguenze in punto genericità del motivo, limitandosi a denunziare l’illegittimità del rilievo di detto difetto poichè mai prima contestato in sede amministrativa ovvero giudiziaria.

Illegittimità che neppure può astrattamente profilarsi posto che è piena facoltà del Giudice d’appello, quale Giudice del merito, di utilizzare per la sua decisione tutto il materiale probatorio acquisito in causa a prescindere dall’utilizzo fattone dal primo Giudice – Cass. sez. 2 n. 15300/11, Cass. sez. 2 n. 14284/18.

Difatti il Collegio cisalpino ha osservato come il R. ebbe a confermare di esser in contatto con i parenti in Bangladesh e che il fratello fu addirittura arrestato per la lite dopo un anno, sicchè significativo appariva, a dimostrazione dell’inveridicità delle sue asserzioni, che egli non fosse stato in grado di produrre documentazione riguardo alla denunzia esposta contro di lui od il fratello, ben potendo questa essergli inviata dai familiari interessati.

Con il quarto mezzo d’impugnazione il ricorrente lamenta violazione del disposto D.P.R. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6 ed art. 8 Cedu poichè la Corte piemontese non ritenne decisivo il grado d’integrazione raggiunto in Italia dal richiedente asilo tramite percorso formativo ed attività lavorativa ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria.

La censura sviluppata si scontra con il costante insegnamento sul punto di questa Suprema Corte – Cass. sez. 1 n. 4890/19, Cass. SU n. 29459/19 – che appunto pone in evidenza come il solo dato dell’integrazione sociale non sia, ex se, sufficiente all’accoglimento dell’istanza tesa al godimento della protezione umanitaria, dovendosi sempre procedere alla valutazione comparata di detto dato unitamente all’indispensabile condizione di vulnerabilità.

Nella specie detta valutazione risulta effettuata dal Collegio cisalpino – sul punto il ricorrente non porta alcuna specifica censura – che pone in evidenza come nemmeno sia stata dedotta condizione di vulnerabilità e come la non affidabilità del racconto escluda la concorrenza della situazione personale di fragilità – persecuzione per la lite – enfatizzata nel ricorso.

Alla declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione non segue, ex art. 385 c.p.c., la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di lite di questo giudizio di legittimità stante la mancata costituzione dell’Amministrazione degli Interni.

Concorrono in capo al ricorrente le condizioni processuali per l’ulteriore pagamento del contributo unificato.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza in Camera di consiglio, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

 

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