Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25183 del 17/09/2021

Cassazione civile sez. II, 17/09/2021, (ud. 10/03/2021, dep. 17/09/2021), n.25183

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9932/2016 proposto da:

M.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIETRO DE

CRISTOFARO, 40, presso lo studio dell’avv. MARIANTONIETTA SAFFIOTI,

rappresentato e difeso dall’avvocato FERDINANDO DE LEONARDIS;

– ricorrenti –

contro

Z.E., A.L., elettivamente domiciliati in ROMA,

P.LE CLODIO, 14, presso lo studio dell’avv. ANDREA GRAZIANI,

rappresentati e difesi dall’avv. FEDERICO VIERO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 491/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 25/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10/03/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO;

letta la relazione del Procuratore generale in persona del Dott.

Lucio Capasso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

RITENUTO

che:

– la Corte d’appello di Venezia, per quanto interessa in questa sede, ha confermato la sentenza di primo grado resa nel contraddittorio fra gli attori Z.E. e A.L. e il convenuto M.B.;

– il Tribunale ha condannato il convenuto a demolire un manufatto posto su una porzione di terreno riconosciuta comune alle parti in causa, proprietari di immobili limitrofi, rigettando la pretesa del M., che aveva rivendicato la proprietà esclusiva della porzione;

– la Corte d’appello ha ritenuto corretta, sulla base della considerazione dei titoli, la ricostruzione del primo giudice;

– per la cassazione della sentenza il M. ha proposto ricorso affidato a due motivi;

– il primo motivo denuncia la nullità della sentenza d’appello, costituita dalla minuta illeggibile e indecifrabile scritta a mano dal relatore, traducendosi l’illeggibilità del testo nella carenza assoluta di motivazione;

– il secondo motivo censura violazione di norme di diritto e vizio di motivazione nella parte in cui la Corte d’appello, in contrasto con il titolo di proprietà del ricorrente, ha riconosciuto il carattere comune della porzione in contesa, della quale egli era invece il solo proprietario, essendo conseguente legittima l’edificazione realizzata su di essa;

– Z.E. e A.L. hanno resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– il primo motivo è infondato;

– in tema di provvedimenti giudiziari, la sentenza il cui testo originale è costituito dalla minuta scritta dal giudice con grafia non facilmente comprensibile, ma tale da consentire alla parte di comprenderne il contenuto e di esercitare il proprio diritto di difesa, non è affetta da nullità, salvo che essa non sia assolutamente indecifrabile e, quindi, inidonea ad assolvere la sua funzione essenziale consistente nell’esteriorizzazione del contenuto della decisione (Cass. n. 5869/2018);

– è stato anche chiarito che la motivazione della sentenza è assente non solo quando sia stata assolutamente omessa o quando il testo di essa, scritto a mano (come nella specie), sia assolutamente indecifrabile, ma anche quando la sua scarsa leggibilità renda necessario un processo interpretativo del testo con esito incerto, tanto da prestarsi ad equivoci o anche a manipolazioni delle parti che possono, in tal modo, attribuire alla sentenza contenuti diversi, dovendo, invece, il “documento motivazione” essere univocamente apprezzabile da tutti i suoi fruitori per garantire che la sua analisi non esuli dal suo campo destinato, che è quello della validità delle argomentazioni giuridiche, in esso contenute, e non quello dell’interpretazione del dato testuale (Cass. n. 4683/2016);

– ora nel caso in esame il testo della sentenza è oggettivamente comprensibile attraverso l’esercizio di una lettura attenta, come risulta confermato anche dal fatto che lo stesso ricorrente dimostra di averne pienamente compreso il significato, svolgendo in modo compiuto le proprie difese e censurando in modo specifico ed articolato la ratio decidendi sottesa alla decisione per lui sfavorevole (Cass. n. 16325/2017);

– insomma, lo sforzo richiesto nella lettura della decisione non dà adito nel caso di specie a dubbi o incertezze sul reale contenuto della decisione;

– del resto, dalla trascrizione operata nel controricorso risulta che le parti in causa hanno attribuito alla sentenza il medesimo contenuto, il che dimostra che la decisione, al di là dello sforzo e dell’impegno richiesto nella lettura, non dà luogo “a un processo interpretativo del testo con esito incerto”;

– il secondo motivo è infondato;

– sotto la veste della violazione di norme di diritto e del vizio motivazionale, il ricorrente censura l’interpretazione, da parte della Corte d’appello, del titolo invocato dall’attuale ricorrente al fine di giustificare la pretesa di essere proprietario esclusivo della particella in contestazione, identificata dal mappale (OMISSIS);

– in quanto censura sulla interpretazione, la stessa deve fare i conti con il principio, del tutto consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui “in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali” (Cass. n. 27136/2017; n. 873/2019);

– senonché, il ricorrente, pur censurando l’interpretazione, non ha assolto a tali oneri, imposti a chi intende sollevare in cassazione una questione di ermeneutica negoziale;

– invero, l’intera censura si sviluppa secondo due diverse direzioni, convergenti nel sostenere che la corte, identificata con il mappale (OMISSIS), diversamente dalla parte identificata con il mappale (OMISSIS), non era comune, ma attribuita in esclusiva ai mappali (OMISSIS), di proprietà del ricorrente;

– al fine di suffragare il proprio assunto, il ricorrente insiste in primo luogo sul tenore letterale del proprio titolo di acquisto, costituito da decreto di trasferimento emesso dal Tribunale di Bassano del Grappa, dove appunto il diritto sul mappale (OMISSIS) è attribuito ai mappali oggetto del trasferimento in suo favore;

– in secondo luogo, egli propone un argomento logico: il mappale (OMISSIS) era derivato dal frazionamento dell’originaria particella (OMISSIS), che aveva dato luogo, appunto, alla particella (OMISSIS) (ex (OMISSIS)) e alla particella (OMISSIS) (ex (OMISSIS));

– secondo il ricorrente non vi sarebbe stata ragione di creare due distinte particelle se il bene avesse dovuto avere l’identica destinazione di “corte comune;

– la Corte d’appello ha tuttavia esaminato il titolo di acquisto (costituito dal decreto di trasferimento) e ne ha dedotto che esso trasferiva in proprietà esclusiva all’attuale ricorrente i soli mappali (OMISSIS), mentre in relazione al discusso mappale (OMISSIS), sempre secondo la valutazione della Corte di merito, l’atto era “ben preciso nell’individuare non il trasferimento di proprietà piena, bensì di un semplice diritto”;

– la Corte d’appello ha perciò riconosciuto che, in forza del titolo, il ricorrente ha acquistato sulla porzione “un diritto analogo a quello vantato dai proprietari degli altri fondi”, trattandosi di uno spazio ad uso comune, sui cui il cessionario non poteva vantare un diritto più ampio e diverso rispetto a quello che faceva capo al cedente;

– ed invero, l’esame della corte veneziana non si è arrestato al titolo di acquisto del ricorrente. ma è stato esteso al titolo in base al quale il dante causa del ricorrente era diventato a sua volta proprietario di quanto poi trasferito in sede giudiziale al ricorrente medesimo (vendita del 6 giugno 1984);

– alla stregua di tale esame la Corte d’appello ha rilevato che lo spazio era definito nel titolo di provenienza quale “corte comune – portico”, deducendone che, con tale titolo, non era stato trasferito al dante causa del ricorrente il diritto di cui egli si pretende titolare, sussistendo quindi, sotto questo profilo, coerenza fra i titoli;

– pertanto, la Corte d’appello, diversamente da quanto adombrato dalla parte ricorrente, non ha definito la causa in applicazione della presunzione ex art. 1117 c.c., ma ha positivamente riconosciuto il carattere comune della porzione sulla base dei titoli;

– la complessiva interpretazione operata dalla corte d’appello non rivela errori né logici, né giuridici, né emergono vizi motivazionali rilevanti;

– ci sono pertanto tutte le condizione per applicare il principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui le censure sull’interpretazione, in sede di legittimità, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. n. 28319/2017);

– in quanto alla supposta diversa posizione espressa dal giudice d’appello nell’ordinanza interlocutoria, con la quale fu sospesa l’efficacia della sentenza esecutiva di primo grado, si ricorda che la contraddittorietà (nella specie supposta) fra l’ordinanza istruttoria e la successiva sentenza di merito non costituisce vizio di attività o di giudizio, ma espressione del principio di cui all’art. 177 c.p.c., comma 1, secondo cui le ordinanze comunque motivate non possono mai pregiudicare la decisione della causa (Cass. n. 2213/1984);

– in conclusione, il ricorso deve essere rigettato con addebito di spese;

– ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

PQM

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio, che liquida nell’importo di Euro 3,000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2021

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