Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2518 del 27/01/2022

Cassazione civile sez. VI, 27/01/2022, (ud. 14/01/2022, dep. 27/01/2022), n.2518

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30772-2019 proposto da:

C.A., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE BRUNO

BUOZZI 99, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO CRISCUOLO,

rappresentata e difesa dall’avvocato DOMENICO GIOVANNI RUGGIERO

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.R., G.C., G.N. elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA BARBERINI 67, presso lo studio

dell’avvocato ALBERTO IMPRODA, rappresentata e difesa dall’avvocato

MATTEO ZANOTELLI giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2822/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 08/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/01/2022 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie della ricorrente.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

C.A., quale erede del coniuge F.F., conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Verona G.N., P.R. e G.C., perché fossero condannati alla restituzione delle somme che assumeva essere state loro mutuate dal coniuge in vita.

Evidenziava che tra il F. ed i convenuti esisteva un solido rapporto di amicizia e che in virtù del medesimo aveva prestato nel corso degli anni delle cospicue somme, che solo in parte erano state restituite, atteso che i prestiti effettuati sino al 2001 erano stati integralmente rimborsati, mentre quelli effettuati in epoca successiva e sino al 2012 erano stati rimborsati solo per la somma di Euro 3.000,00.

Si costituivano i convenuti che contestavano la domanda sostenendo che non si trattava di prestiti ma della restituzione di risparmi familiari che erano stati oggetto di investimento per loro conto da parte del de cuius.

Il Tribunale adito rigettava la domanda e la Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 2822 dell’8 luglio 2019 ha rigettato l’appello della C., con la condanna anche al rimborso delle spese del grado.

Quanto al primo ed al secondo motivo, la Corte distrettuale riteneva che fosse onere dell’attrice, a fronte della contestazione dei convenuti, dimostrare che la dazione delle somme da parte del coniuge fosse avvenuta a titolo di mutuo, non potendosi desumere l’esistenza del contratto de quo per effetto della sola consegna di assegni bancari o di somme di denaro.

Era quindi l’attrice a dover dimostrare, non solo la dazione delle somme (circostanza questa ammessa), ma che ciò fosse avvenuto in virtù di un rapporto che ne imponeva ai riceventi la restituzione.

La contestazione dei convenuti circa la mancanza di un sottostante rapporto di mutuo per le dazioni successive al 2002 non si configurava alla stregua di un’eccezione sostanziale, ma era una mera contestazione dei fatti costitutivi della pretesa restitutoria. Inoltre, doveva escludersi che il riconoscimento che le dazioni di denaro effettuate in precedenza fossero ricollegabili ad un rapporto di mutuo, potesse far presumere che anche le successive dazioni avessero pari titolo giustificativo, attesa l’assenza di una precisa cadenza temporale per i versamenti, la diversità dei beneficiari nel tempo e la circostanza che G.C. non era stata mai in precedenza beneficiaria di versamenti da parte del de cuius.

Inoltre, non poteva accedersi alla richiesta dell’attrice di restituzione della somma di Euro 198,20, quale saldo residuo delle dazioni effettuate in epoca anteriore al 2002, atteso che di tale somma non era stato richiesto il pagamento con l’atto di citazione, nel quale si asseriva che tutte le somme mutuate in precedenza fossero state restituite, con la conseguenza che si trattava a ben vedere di una domanda nuova ex art. 345 c.p.c..

Quanto al terzo motivo che sollecitava il giudice a rilevare d’ufficio la nullità delle pretese donazioni di somme di denaro effettuate dal de cuius ai convenuti (che appunto riconducevano la dazione ad una liberalità, invece che ad un mutuo), la sentenza osservava che nella specie il fatto costituivo della domanda era la conclusione di un mutuo con il conseguente obbligo restitutorio. Non risultava avanzata alcuna domanda fondata sulla donazione, sicché, in assenza di una specifica domanda, non poteva ammettersi il rilievo d’ufficio della nullità di un titolo negoziale non dedotto in giudizio.

Quanto al quarto motivo di appello, con il quale si contestava la mancata decisione sulla domanda di arricchimento senza causa, la Corte d’Appello, oltre a rilevare che si trattava di domanda nuova, in quanto formulata solo con la memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, (vertendosi evidentemente in materia di diritti eterodeterminati), si deduceva anche che la domanda era inammissibile in quanto difettava il requisito della sussidiarietà. La domanda ex art. 2041 c.c. può infatti essere avanzata in via subordinata rispetto a quella contrattuale, ove quest’ultima sia rigettata per un difetto del titolo posto a suo fondamento, ma non anche, come avvenuto nel caso in esame, in cui il rigetto sia determinato dal difetto di prova circa l’esistenza del contratto.

C.A. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Venezia sulla base di quattro motivi, illustrati da memorie.

Gli intimati hanno resistito con controricorso.

Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dai controricorrenti sul presupposto della mancata produzione anche della relata di notifica della sentenza impugnata, avendo parte ricorrente provveduto a depositare stampa del messaggio pec attestante la notifica in data 10/7/2019 della sentenza impugnata.

Con il primo motivo del ricorso principale, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, nonché motivazione insufficiente e/o contraddittoria.

Si rileva che erroneamente la sentenza appellata ha rigettato il motivo di appello con il quale si denunciava che il Tribunale avesse erroneamente invertito l’onere della prova.

Si deduce che i convenuti avevano ammesso di avere ricevuto delle somme a titolo di mutuo, sicché a fronte di tale ammissione era onere dei convenuti dimostrare che fosse intervenuta una causa estintiva del contratto di mutuo.

Il motivo è inammissibile.

E’ inammissibile nella parte in cui denuncia il vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria sulla base della formulazione non più applicabile dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nemmeno suscettibile di conversione nella nuova fattispecie normativa, la cui deducibilità in questa sede risulta preclusa per l’applicabilità dell’art. 348 ter c.p.c., u.c., avendo il giudice di appello confermato la decisione di primo grado in base alle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a fondamento della decisione appellata.

E’ inammissibile altresì in quanto propone un’erronea applicazione dell’art. 2697 c.p.c., comma 2, in contrasto però con l’accertamento in fatto operato dal giudice di appello.

Il Tribunale ha, infatti, rigettato la domanda dell’attrice, fondata sulla pretesa esistenza di un contratto di mutuo sottostante alle numerose dazioni di somme di denaro intervenute a far data dal 2002 tra il de cuius ed i convenuti, rilevando che non era stata fornita alcuna prova dell’effettiva ricorrenza di un contratto di mutuo, attesa anche la recisa contestazione dei convenuti circa la giustificazione causale delle dazioni di denaro in difformità da quanto dedotto dall’attrice.

La conclusione de qua risulta peraltro conforme alla costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo e’, ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 1, tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda, e quindi non solo la consegna ma anche il titolo della stessa, da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione; l’esistenza di un contratto di mutuo non può essere desunta dalla mera consegna di assegni bancari o somme di denaro, essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del convenuto (il quale, pur riconoscendo di aver ricevuto la somma ne deduca una diversa ragione) possa tramutarsi in eccezione in senso sostanziale e come tale determinare l’inversione dell’onere della prova. La datio di una somma di danaro non vale, dunque, di per sé, a fondare la richiesta di restituzione, allorquando, ammessane la ricezione, l’accipiens non confermi il titolo posto ex adverso alla base della pretesa di restituzione ed, anzi, ne contesti la legittimità, atteso che, potendo una somma di danaro essere consegnata per varie cause, la contestazione, ad opera dell’accipiens, della sussistenza di un’obbligazione restitutoria impone all’attore in restituzione di dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, onere questo che si estende alla prova di un titolo giuridico implicante l’obbligo della restituzione, mentre la deduzione di un diverso titolo, ad opera del convenuto, non configurandosi come eccezione in senso sostanziale, non vale ad invertire l’onere della prova.

Ne consegue che l’attore che chieda la restituzione di somme date a mutuo è tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, pertanto, non solo l’avvenuta consegna della somma ma anche il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione (cfr. Cass., sez. 2, ordinanza n. 30944 del 29/11/2018; Cass., sez. 3, sentenza n. 9541 del 22/04/2010).

Nella fattispecie, la Corte d’Appello di Venezia correttamente ha escluso che fosse sufficiente la prova della consegna di denaro, essendo, viceversa, necessario, al fine di ottenere la restituzione della somma di denaro, provare anche il titolo dal quale deriva il relativo obbligo di restituzione.

Una volta ribadita la corretta evocazione dei principi di diritto ad opera del giudice di appello, deve escludersi che sia stata malamente applicata la regola in materia di distribuzione dell’onere della prova.

I giudici di appello, con accertamento in fatto, hanno negato che vi fosse continuità, sul piano della disciplina contrattuale, tra le dazioni di denaro avvenute sino al 2000 (di cui era stata riconosciuta la riconducibilità ad un rapporto di mutuo da parte dei convenuti) e le dazioni avvenute in data successiva (essendo stata contestata la causale addotta dall’attrice da parte dei riceventi).

Al fine di escludere l’unicità del rapporto contrattuale, la sentenza di appello, concordando con il Tribunale, ha sottolineato che vi erano distinti versamenti di somme di denaro (elemento questo sicuramente rilevante attesa la natura reale del contratto di mutuo, che presuppone la effettiva consegna della res mutuata ai fini della conclusione del contratto, ove non risulti nemmeno allegato, come nel caso di specie, la conclusione di un contratto di finanziamento consensuale), che tali versamenti non avevano una precisa cadenza temporale ed un’identità di importi (tali da poterli ricondurre all’attuazione di un predeterminato impegno contrattuale) e che nemmeno avevano i medesimi beneficiari, essendosi rilevato che G.C. risultava beneficiaria di una somma solo dopo il 2002, senza mai essere stata interessata dalle dazioni avvenute in epoca precedente.

Il riferimento alla eterogeneità oggettiva e soggettiva della dazioni, unitamente alla considerazione che per la conclusione di un contratto di mutuo occorre l’effettiva traditio della res mutuata, legittima anche in punto di diritto, la conclusione del giudice di merito che ha escluso la sussistenza di un unico rapporto cui ricondurre come segmenti attuativi i vari trasferimenti di somme di denaro, conclusione che quindi rende improprio il richiamo alla necessità per i pretesi debitori di dover fornire la prova del fatto estintivo o modificativo del diritto vantato dalla controparte.

Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 345 c.p.c. e l’insufficiente ovvero erronea motivazione su di un punto determinante della controversia.

Si lamenta la declaratoria di inammissibilità della domanda finalizzata ad ottenere la condanna dei convenuti al pagamento della somma di Euro 198,20, che, sulla scorta delle stesse affermazioni dei convenuti, risultava ancora non saldata in relazione alle dazioni di denaro più risalenti nel tempo e pacificamente ricondotte a contratti di mutuo.

Si assume che la domanda originaria ricomprendeva anche l’eventuale credito rimasto insoddisfatto derivante dalla dazione più remota, palesandosi quindi come erronea la declaratoria di inammissibilità fondata dalla Corte d’Appello sul rilievo che la domanda in realtà concerneva solo il credito scaturente dai trasferimento di denaro avvenuto dopo il 2002.

Il motivo, di cui va ribadita l’inammissibilità quanto alla denuncia del vizio di insufficiente o erronea motivazione, è del pari inammissibile.

Ed, infatti, occorre richiamare il tradizionale orientamento di questa Corte secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 30684/2017) l’interpretazione della domanda integra un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al giudice del merito, così che in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata, con la conseguenza che la censura formulata, investendo per l’appunto la correttezza dell’interpretazione della domanda attorea offerta dal giudice di merito non risulta correttamente veicolata, avendo la parte denunziato solo la violazione di legge. Tuttavia, anche a voler reputare che la formulazione del motivo esuli dalla richiesta di sindacare una mera interpretazione della domanda, come tale riservata al giudice di merito, ma investa piuttosto la denuncia di un error in procedendo, dandosi quindi seguito alla tesi sostenuta da questa Corte secondo cui (Cass. n. 20716/2018) quando, con il ricorso per cassazione, venga dedotto un “error in procedendo”, il sindacato del giudice di legittimità investe direttamente l’invalidità denunciata, mediante l’accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente dalla sufficienza e logicità della eventuale motivazione esibita al riguardo, posto che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto (nella specie, la Corte, rilevando un vizio di omessa pronuncia sulla riproposizione in appello dell’originaria domanda riconvenzionale riguardante l’obbligo dell’appellato di contribuire ai miglioramenti apportati dall’appellante alle parti comuni dell’edificio, ha proceduto direttamente all’interpretazione dell’atto di appello; conf. Cass. n. 25259/2017), il ricorso risulta privo di fondamento.

Come si rileva dalla stessa esposizione dei fatti di causa contenuta in ricorso, le conclusioni di cui all’atto di citazione denotano la richiesta di condanna al pagamento, oltre che della somma di Euro 170.000,00 di cui all’ordine di bonifico effettuato a G.C. il 10 settembre 2009, della complessiva somma di Euro 56.700,00 (di cui Euro 30.000,00 dovute da G.N., Euro 15.000,00 da P.R. ed Euro 11.200,00 dovute da G.C.), somma che corrisponde a quelle asseritamente mutuate a far data dal dicembre del 2002 fino al 2010, al netto del rimborso di Euro 3.000,00 (cfr. punto 6 di cui alla pagina 7 del ricorso).

Risulta quindi confermata la correttezza del rilievo della sentenza impugnata che ha ritenuto che la domanda proposta fosse riferita solo alla restituzione delle somme versate dopo il 2002, con la conseguenza che, vertendosi in tema di diritti eterodeterminati, invocare la restituzione di somme versate in epoca anteriore, e solo in parte rimborsate, equivalga alla proposizione di una domanda nuova rispetto a quella espressamente formulata in citazione.

Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. nonché del combinato disposto degli artt. 769,782 e 1421 c.c., quanto al mancato rilievo della nullità della donazione per vizio di forma.

Si evidenzia che i convenuti avevano ricondotto le dazioni di denaro successive al 2002 ad una donazione, della quale però si sarebbe dovuto rilevare d’ufficio la nullità per l’evidente carenza del requisito di forma.

Ha errato quindi la Corte d’Appello a dichiarare l’inammissibilità della domanda di nullità, in quanto avanzata per la prima volta in appello.

Il motivo è inammissibile.

Come puntualmente rilevato dal giudice di merito, l’attrice aveva chiesto la restituzione delle somme quale attuazione del rapporto di mutuo asseritamente intercorso tra le parti e la domanda è stata rigettata per la carenza di prova dell’effettiva esistenza di tale contratto.

Non risulta tuttavia che la domanda di restituzione sia stata avanzata in primo grado anche quale condictio indebiti, e cioè quale effetto scaturente e dall’eventuale accertamento della nullità del diverso titolo negoziale addotto dai convenuti a giustificazione del trasferimento in loro favore del denaro appartenente al de cuius.

La deduzione dell’esistenza delle donazioni è quindi un mero argomento difensivo spiegato dai convenuti al fine di evidenziare l’infondatezza della domanda attorea, sicché correttamente i giudici di appello hanno rilevato che, in mancanza di una richiesta fondata sulla donazione, o meglio sulla nullità della donazione, la richiesta di accertare la patologia dei pretesi contratti di donazione era preclusa, attesa l’inammissibilità della deduzione in appello.

E’ ancora una volta la natura eterodeterminata del diritto fatto valere dell’attrice che conforta la correttezza della soluzione raggiunta dalla Corte distrettuale che, ove anche avesse appurato la nullità delle donazioni, non avrebbe potuto disporre la condanna dei convenuti alla restituzione a titolo di indebito, essendo appunto la domanda fondata sulla diversa pretesa restitutoria scaturente dalla stipula di un contratto di mutuo.

In tal senso si veda anche Cass. n. 27334/2005 che ha appunto affermato che in caso di mancanza di una “causa adquirendi”, sia in caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, che in caso di qualsiasi altra causa la quale faccia venir meno il vincolo originariamente esistente, l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo, essendosi quindi ritenuto che, una volta esclusa la configurabilità di un contratto di mutuo, e ravvisando ricorrere un contratto di società o associativo, in difetto della proposizione di un”actio indebiti” non vi fosse l’interesse a ricorrere in riferimento al motivo di censura avente ad oggetto esclusivamente la nullità del contratto per difetto di forma.

Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., commi 5 e 6, in relazione all’art. 2041 c.c., per avere la sentenza ritenuto tardiva, e quindi inammissibile, la formulazione della domanda di arricchimento senza causa, avanzata dall’attrice con le memorie di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1.

Si deduce che si tratta di una semplice emendatio consentita.

La sentenza impugnata ha respinto l’analogo motivo di appello proposto dalla C. rilevando, da un lato, la tardività della domanda ex art. 2041 c.c., in relazione al progredire delle scansioni processuali in primo grado, ma rilevando nel merito, dall’altro lato, che la stessa era comunque inammissibile in quanto carente del requisito della sussidiarietà, non essendo dato proporre azione di ingiustificato arricchimento nel caso in cui il rigetto della domanda fondata su di un titolo negoziale derivi da carenze probatorie ovvero dalla mancata coltivazione della domanda stessa.

Rileva il Collegio che se la prima ratio non appare condivisibile, alla luce di quanto di recente affermato dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 22404/2018) che nel dare continuità ai principi affermati da Cass. S.U. n. 12310/2015, hanno affermato che nel processo introdotto mediante domanda di adempimento contrattuale è ammissibile la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta, resta incensurabile la seconda ratio di inammissibilità della domanda, correlata alla carenza del requisito della sussidiarietà.

Infatti, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui l’azione di arricchimento può essere proposta, in via subordinata rispetto all’azione contrattuale proposta in via principale, soltanto qualora quest’ultima sia rigettata per un difetto del titolo posto a suo fondamento, ma non anche nel caso in cui sia stata proposta domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prove sufficienti all’accoglimento, ovvero in quello in cui tale domanda, dopo essere stata proposta, non sia stata più coltivata dall’interessato (Cass. n. 6295/2013, citata anche dal giudice di appello; conf. Cass. n. 11682/2018; Cass. n. 2350/2017).

La contraria deduzione di parte ricorrente risulta inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, in quanto non si confronta con la citata giurisprudenza e ne propone il superamento senza però addurre elementi che possano giustificare il mutamento della giurisprudenza.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato nel complesso inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Nulla a disporre quanto alle parti rimaste intimate.

Poiché il ricorso è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente, al rimborso delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2022

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