Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25178 del 17/09/2021

Cassazione civile sez. II, 17/09/2021, (ud. 14/12/2020, dep. 17/09/2021), n.25178

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36949/2019 proposto da:

D.G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L.

MANTEGAZZA, 24, presso lo studio dell’avvocato MARCO GARDIN,

rappresentato e difeso dall’avvocato ASCANIO DI GIUSEPPE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), IN PERSONA DEL MINISTRO PRO

TEMPORE da patatrocinio a debito, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, (OMISSIS), IN PERSONA DEL MINISTRO PRO

TEMPORE;

– intimato –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il

03/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/12/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

L’avvocato D.G.A., munito di titolo giudiziale di condanna della società Betappalti al pagamento di una somme di denaro in proprio favore, eseguì un pignoramento presso terzi avente ad oggetto i crediti vantati dalla società Betappalti nei confronti dell’Agenzia delle Entrate.

Il processo di esecuzione conseguentemente instaurato venne sospeso dal giudice dell’esecuzione del Tribunale di Pescara con ordinanza del 6 aprile 2010, con assegnazione al creditore procedente di termine per l’introduzione davanti al giudice tributario del giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo pignorato Agenzia delle entrate. Il giudizio tributario si concluse nel 2017 con l’accertamento del credito fiscale della Betappalti e, quindi, il giudice dell’esecuzione assegnò il credito pignorato al creditore procedente con ordinanza, conclusiva del processo esecutivo, del 15 maggio 2018.

L’avvocato D.G. chiese quindi l’equo indennizzo per la non ragionevole durata del giudizio esecutivo (complessivamente protrattosi otto anni e mezzo) e l’adita Corte d’appello di L’Aquila – considerando il procedimento esecutivo e il giudizio di accertamento davanti alle Commissioni Tributarie come due giudizi distinti – concluse che il primo non aveva superato, al netto del periodo di sospensione, il limite normativo di ragionevole durata, mentre il secondo, protrattosi per sette anni, aveva superato tale limite soltanto di un anno e, conseguentemente, condannò il Ministero dell’Economia al pagamento di un indennizzo di Euro 550 per l’anno eccedente la ragionevole durata.

Per la cassazione del decreto della corte abruzzese l’avv. D.G. ha proposto ricorso sulla scorta di sette motivi.

Il Ministero della Giustizia ha depositato controricorso.

La causa è stata chiamata all’udienza camerale del 14 dicembre 2020, per la quale il ricorrente ha depositato una memoria con cui ha replicato ai rilievi svolti nel controricorso dell’Avvocatura dello Stato sulle implicazioni, ai fini della soluzione della presente controversia, del disposto della L. n. 89 del 2001, art. 2.

Con il primo motivo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 548 e 549 c.p.c., in cui la corte territoriale sarebbe incorsa considerando il procedimento esecutivo e quello incidentale di cognizione alla stregua di due diversi giudizi. Il ricorrente invoca, in particolare, il principio, espresso da questa Corte nella sentenza n. 15734/16, secondo cui, nella durata complessiva delle procedure esecutive immobiliari e, analogamente, di quelle fallimentari devono essere inclusi anche i tempi impiegati per la risoluzione di vicende processuali parallele o incidentali (quali eventuali giudizi di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi o al piano di riparto), trattandosi di fasi ed attività processuali eventuali, che comunque ineriscono all’unico processo di esecuzione immobiliare.

Il motivo non ha pregio.

La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 qater, stabilisce che, ai fini del computo della durata del processo, “non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso”. Detto comma 2 quater, è stato introdotto dal decreto L. 2 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, ed è applicabile, ai sensi dell’art. 55, comma 2, dello stesso Decreto, “ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della Legge di Conversione del presente decreto”. 1 precedenti giurisprudenziali richiamati dal ricorrente a sostegno della tesi prospettata nel primo mezzo di impugnazione non sono pertinenti, essendo tutti anteriori al 2012 (Cass. 18065/05, Cass. 3143/04, Cass. 16882/02, Cass. 2727/05, Cass. 6856/04), ad eccezione di Cass. 15734/16 che, tuttavia, è stata pronunciata nell’ambito di un procedimento introdotto il 24.7.2012 (come riportato a pag. 3, primo rigo, della motivazione), nel quale, pertanto, della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 quater, non era applicabile.

Va quindi data continuità alla giurisprudenza che, ai fini di cui alla L. n. 89 del 2001, esclude dal computo della durata del processo tutte le ipotesi di sospensione, anche diverse da quella di cui all’art. 295 c.p.c., come la sospensione del processo esecutivo ex art. 624 c.p.c. (Cass. 18197/15, Cass. 5769/17) o la sospensione ex art. 225 c.p.c., comma 2 (Cass. 16328/20). Nella specie, la sospensione del giudizio esecutivo è stata espressamente dichiarata dal giudice dell’esecuzione con ordinanza del 6 aprile 2010, come riferisce lo stesso ricorrente a pag. 2, terzo capoverso, del ricorso, dove si legge che il giudice dell’esecuzione “dispose la sospensione del procedimento esecutivo, assegnando al creditore procedente il termine di 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento per l’introduzione del giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo pignorato Agenzia delle Entrate… davanti alla Com:missione Tributaria competente”. La decisione della Corte territoriale di scomputare dalla durata del processo esecutivo il tempo del giudizio di accertamento del credito del debitore celebrato davanti al Giudice tributario risulta dunque conforme a diritto e, precisamente, al disposto della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 quater.

Il primo motivo va, dunque, rigettato.

Il secondo motivo censura il decreto impugnato per violazione del principio del giusto processo fissato dall’art. 6 CEDU deducendo l’incompatibilità con i criteri emergenti dall’art. 6 CEDU, come individuati dalla corte di Strasburgo, della quantificazione dell’indennizzo operata dalla corte d’appello con l’applicazione del combinato disposto della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 ter (alla cui stregua si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni), del comma 2 quater dello stesso articolo (che prevede l’esclusione dei periodi di sospensione dal computo della durata del processo) e dell’art. 2 bis della stessa legge (che fissa il parametro indennitario della forbice tra Euro 400 e Euro 800 all’anno).

Il motivo non contiene specifiche censure (aggiuntive rispetto alla doglianza svolta nel primo motivo con riferimento della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 quater) nei confronti dell’interpretazione delle menzionate disposizioni operata dalla corte territoriale ma si limita:

per un verso, a dolersi della valutazione operata dal giudice di merito in punto di quantificazione dell’indennizzo in Euro 550 per un anno; secondo il ricorrente la corte territoriale avrebbe dovuto “incrementare opportunamente” l’importo liquidato, per rendere compatibile con la CEDU l’indennizzo determinato ex Lege n. 89 del 2001;

per altro verso, a lamentare, la difformità, rispetto ai parametri fissati dalla CEDU, del risultato decisorio a cui aveva portato l’applicazione di tali disposizioni, conseguentemente sollevando il dubbio di legittimità costituzionale, prima (pag. 17, rigo 6, del ricorso) della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 bis e, poi (pag. 17, rigo 21, del ricorso), del combinato disposto delle disposizioni contenute nell’art. 2 (nella rubrica del motivo si richiamano specificamente i commi 2 bis e 2 quater, ma nel corpo della censura si fa riferimento anche al comma 2 ter) e nell’art. 2 bis di detta legge.

Il motivo va disatteso; la quantificazione dell’indennizzo tra il minimo (Euro 400) ed il massimo (Euro: 800) della forcella indicata nella L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 1, costituisce giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di violazione di legge.

Quanto ai dubbi di costituzionalità avanzati dal ricorrente, gli stessi sono formulati in termini generici e si fondano soltanto su una valutazione di sintesi di inadeguatezza della somma liquidata dal giudice di merito a titolo di indennizzo, senza alcuna specifica argomentazione che illustri, in relazione a ciascuna delle molteplici disposizioni promiscuamente impugnate, perché essa si porrebbe in contrasto con la Convenzione EDU.

In ogni caso il sistema di quantificazione dell’indennizzo delineato dalla L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 2 bis, attua i principi fissati nell’art. 6 CEDU dettando una disciplina di dettaglio nell’ambito del margine di apprezzamento che la Convenzione lascia ai legislatori nazionali.

Per quanto specificamente riguarda la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 quater, va peraltro ricordato che già Cass. 18197/15 ha chiarito che: “tale previsione, nel mentre pone un vincolo all’interprete, il quale non può determinare la durata del processo esecutivo comprendendo all’interno della stessa il periodo di sospensione della esecuzione disposta dal giudice in pendenza del giudizio di opposizione all’esecuzione, non pone neanche problemi dal punto di vista della compatibilità costituzionale e convenzionale della vigente disciplina; che, infatti, pur nell’ambito di una disciplina chiaramente orientata a considerare in modo unitario il giudizio della cui irragionevole durata ci si duole, il legislatore non irragionevolmente ha ritenuto che non potesse essere addebitata all’amministrazione giudiziaria la durata derivata dalla sospensione del procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce, restando peraltro impregiudicata la possibilità, per la parte che dalla eccessiva durata del giudizio pregiudicante ritenga di avere subito un danno, di proporre domanda di equa riparazione con specifico riferimento a tale procedimento e nei termini di decadenza ad esso riferibili”.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce nuovamente la violazione e falsa applicazione delle norme convenzionali e l’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 bis, per avere la Corte d’appello limitato ad un anno l’indennizzo per l’equa riparazione dell’irragionevole durata, complessivamente protrattasi per sette anni, del giudizio davanti al giudice tributario. Anche tale motivo, al pari del secondo, non addebita al decreto impugnato violazioni della legge nazionale ma (al netto delle considerazioni sul comportamento processuale tenuto dall’Agenzia delle Entrate nel giudizio di accertamento del credito pignorato, le quali evidentemente esulano dal tema del presente giudizio) solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 bis, nella parte in cui limita la risarcibilità del danno da irragionevole durata del processo al tempo eccedente quello legalmente predeterminato come ragionevole.

Anche il terzo motivo va rigettato, dovendosi qui richiamare l’insegnamento di Cass. 10415/09 (seguita da Cass. 478/11) alla cui stregua: “In tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, è manifestamente infondata la questione di costituzionalità della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 3, lett. a), nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’equa riparazione, rileva soltanto il danno riferibile al periodo eccedente il termine di ragionevole durata, non essendo ravvisabile alcuna violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in riferimento alla compatibilità con gli impegni internazionali assunti dall’Italia mediante la ratifica della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Infatti, qualora sia sostanzialmente osservato il parametro fissato dalla Corte EDU ai fini della liquidazione dell’indennizzo, la modalità di calcolo imposta dalla norma nazionale non incide sulla complessiva attitudine della legislazione interna ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto in argomento, non comportando una riduzione dell’indennizzo in misura superiore a quella ritenuta ammissibile dal giudice Europeo; diversamente opinando, poiché le norme CEDU integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello subcostituzionale, dovrebbe valutarsi la conformità del criterio di computo desunto dalle norme convenzionali, che attribuisce rilievo all’intera durata del processo, rispetto al novellato art. 111 Cost., comma 2, in base al quale il processo ha un tempo di svolgimento o di durata ragionevole, potendo profilarsi, quindi, un contrasto dell’interpretazione delle norme CEDU con altri diritti costituzionalmente tutelati”.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la mancata considerazione, ai fini della determinazione della durata del processo, dei tempi intercorsi tra le date di decorrenza dei termini d’impugnazione delle sentenze che si sono succeduti nel corso del giudizio presupposto e le date di effettive proposizione delle impugnazioni. Tale mancata considerazione, prevista dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 quater, sarebbe irragionevole dopo che, con la L. n. 69 del 2009, i termini di impugnazione sono stati dimezzati. Anche con questo motivo il ricorrente non censura una violazione di legge del decreto impugnato ma solleva un dubbio di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 quater, in relazione agli artt. 3,111 e 117 Cost..

Il motivo va disatteso, dovendo giudicarsi manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale ivi espresso dal ricorrente; la scelta del momento in cui proporre l’impugnazione – all’interno del periodo compreso tra la data di decorrenza e quella di esaurimento del termine per l’impugnazione – rientra, infatti, nella disponibilità della parte.

Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta il contrasto con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in cui la Corte d’appello sarebbe incorsa limitando l’indennizzo all’importo di Euro 550 all’anno, per un solo anno. Il motivo ripropone argomenti già sviluppati nel primo e nel secondo mezzo di impugnazione, dei quali segue le sorti.

Con il sesto motivo, il ricorrente attinge la statuizione con cui la corte territoriale, in composizione collegiale, ha disatteso la doglianza da lui proposta avverso la misura (Euro 225) delle spese liquidate dal consigliere delegato nel decreto L. n. 89 del 2001, ex art. 3, comma 4. Il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91,92 e 112 c.p.c., art. 2233 c.c., comma 2 e degli artt. 6,13,41,46 della CEDU, sostenendo che l’importo liquidato sarebbe inferiore ai minimi tariffari.

Il motivo è infondato. L’importo delle spese liquidato dal consigliere delegato e confermato dalla Corte d’appello in composizione collegiale, pari ad Euro 225, non è inferiore, ma corrispondente, al minimo tariffario dello scaglione applicabile alla controversia, secondo la tabella 8 allegata al decreto ministeriale n.. 55 del 2014; tale scaglione prevede infatti un compenso medio di Euro 450, diminuibile fino al 50 per cento ai sensi dell’art. 4, comma 1, del medesimo decreto ministeriale. Quanto all’applicabilità della tabella 8 al procedimento L. n. 89 del 2001, ex art. 3, comma 4, è sufficiente rilevare che i precedenti citati dal ricorrente (Cass. 25352/08, Cass. 23187/16) sono stati superati da Cass. 16512/20, che ha affermato il principio che, in tema di giudizio di equa riparazione per irragionevole durata del processo, la liquidazione delle spese della fase destinata a svolgersi dinanzi al consigliere designato deve avvenire sulla base della tabella n. 8, rubricata “procedimenti monitori”, allegata al D.M. n. 55 del 2014, per quanto si sia al cospetto di un procedimento monitorio destinato a celebrarsi dinanzi alla corte d’appello, con caratteri di “atipicità” rispetto a quello di cui agli artt. 633 c.p.c. e segg., rilevando, ai fini dell’applicazione di tale tabella, oltre che l’identica veste formale decreto – del provvedimento conclusivo della prima fase di entrambi i procedimenti, anche l’iniziale assenza di contraddittorio e la differita operatività della regola cardine audiatur et altera pars, che appieno accomunano il primo sviluppo del procedimento ex lege Pinto e l’ordinario procedimento d’ingiunzione.

Con il settimo motivo, deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91, 112 e 113 c.p.c. e degli articoli della CEDU già più volte richiamati, lamentando la mancata liquidazione, nell’impugnato decreto (come già nel decreto emesso dal consigliere delegato L. n. 89 del 2001, ex art. 3, comma 4), degli esborsi sostenuti dal ricorrente per l’acquisto delle marche e per il contributo di cancelleria.

Il motivo è inammissibile, perché la mancata liquidazione degli esborsi, nell’ambito di una pronuncia che inequivocabilmente indica la parte a cui carico vengono poste le spese processuali, costituisce omissione materiale rimediabile con il procedimento di correzione ex art. 287 c.p.c. e non errore in judicando o in procedendo rimediabile con il ricorso per cassazione (SSUU 16415/18).

Il ricorso è rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

La causa è esente da contributo unificato per materia.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere all’Amministrazione controricorrente le spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 500, oltre le spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2021

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