Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25166 del 08/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 08/10/2019, (ud. 08/05/2019, dep. 08/10/2019), n.25166

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla rel. Consiglie – –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11879/2018 proposto da:

MILANO 90 S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO, 32, presso lo

studio dell’avvocato CHRISTIANO GIUSTINI, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente principale –

contro

M.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI,

6, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO LUCARELLI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 659/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 15/02/2018 r.g.n. 3592/2017;

Il P.M., ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 659 pubblicata il 15.2.2018, ha respinto il reclamo della Milano 90 s.r.l. avverso la sentenza di primo grado che, rigettando l’opposizione avverso l’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva confermato l’illegittimità del licenziamento intimato il 4.12.2015 a M.S. nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo;

2. la Corte territoriale ha precisato come, in riferimento alla domanda della lavoratrice di ritorsività del licenziamento, fosse mancante l’allegazione dei fatti da cui desumere la dedotta natura ritorsiva e non integrata la prova dell’esistenza di un motivo illecito determinante;

3. riguardo alla illegittimità del licenziamento, ha premesso come la società fosse stata ammessa dall’1.1.2012 alla cassa integrazione guadagni in deroga, da applicare a rotazione a tutti i dipendenti, eccetto trenta unità considerate infungibili; tra queste ultime era compresa la Dott.ssa F., addetta all’ufficio legale, a cui era stata addetta anche la Dott.ssa M. fino all’1.3.2011, data di inizio dell’astensione dal lavoro per maternità; la Dott.ssa M., al rientro dalla maternità (1.9.2012) e in violazione degli accordi sindacali sulla rotazione, era stata collocata ininterrottamente in cassa integrazione fino al giugno 2013; dopo un periodo di ferie imposto dalla società, era stata trasferita ad altra sede per svolgere mansioni di addetta al controllo amministrativo; il trasferimento era stato dichiarato illegittimo dal Tribunale di Roma, con sentenza n. 1077 del 2016; tale sentenza è stata oggetto di impugnazione ma le risultanze istruttorie di tale procedimento sono state acquisite ed utilizzate dalla Corte di merito ai fini di un accertamento incidenter tantum sulla legittimità o meno del trasferimento “stante la palese interferenza tra i due ambiti (trasferimento illegittimo per lo svolgimento di mansioni di addetta al controllo amministrativo, mai assegnate e ritenute in esubero ai fini del recesso, con contestuale privazione delle mansioni di addetta all’ufficio legale, qualificate invece per la collega F., infungibili)”;

4. la sentenza impugnata ha dato atto di come i criteri di scelta fossero stati individuati sulla base di anzianità (fino a 100 punti) e carichi di famiglia (fino a 100 punti), valutati sull’intero organico aziendale, attribuendo il punteggio di zero per i profili in esubero, il punteggio di 100 per quelli non in esubero e da 0 a 100 per quelli parzialmente in esubero; ha aggiunto che la M. era stata considerata in totale esubero e pertanto licenziata;

5. secondo la Corte di merito, la Dott.ssa M. avrebbe dovuto essere comparata con la Dott.ssa F., ciò per effetto delle seguenti considerazioni:

– la M. era sempre stata addetta all’ufficio legale (per oltre 5 anni) fino al congedo per maternità;

– la posizione lavorativa di addetta al controllo amministrativo formalmente attribuita alla M. all’epoca di avvio della procedura era da considerare fittizia in base alle prove raccolte nel procedimento di impugnativa del trasferimento, che dimostravano come quest’ultimo fosse privo di qualsiasi ragione giustificativa e tale da rendere impossibile per la predetta lo svolgimento di mansioni compatibili col profilo posseduto;

– il tramutamento, annullato con sentenza del Tribunale, aveva avuto il duplice effetto: di allontanare la M. dall’ufficio legale, così consentendo di qualificare infungibili le mansioni della F. quale unica addetta all’ufficio medesimo; nel contempo, di collocare la M. in una posizione lavorativa destinata a risultare in esubero;

– la circostanza, addotta dalla società, di una riorganizzazione realizzata in coincidenza con la maternità della M. e implicante la modifica delle mansioni della F., era rimasta sprovvista di prova;

– le due dipendenti erano comparabili in quanto entrambe dovevano considerarsi addette all’ufficio legale; avevano svolto identiche mansioni fino all’allontanamento della M.; dopo tale momento la F., rimasta sola, aveva assommato su di sè anche i compiti prima svolti dalla collega; entrambe erano state inquadrate nello stesso livello fino al 29.9.2015 e solo dall’1.10.15 (dopo l’avvio della procedura di licenziamento collettivo in data 6.8.15) la società aveva riconosciuto alla F. il superiore livello di quadro; la M. vantava una maggiore anzianità di servizio;

6. sulla base di tali premesse, la Corte d’appello ha confermato l’illegittimità del licenziamento per violazione dei criteri di scelta e l’applicazione della tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, modificato dalla L. n. 92 del 2012, a cui rinvia la L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, modificato dalla medesima legge del 2012;

7. ha respinto la domanda di conversione del licenziamento collettivo in licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, in ragione dell’autonomia dei due istituti;

8. avverso tale sentenza la Milano 90 s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui ha resistito la M. con controricorso e ricorso incidentale, quest’ultimo articolato in un unico motivo; la Milano 90 s.r.l. ha depositato controricorso avverso il ricorso incidentale;

9. il pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte ed entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

10. col primo motivo di ricorso la Milano 90 s.r.l. ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione agli artt. 414,420,421 e 112 c.p.c., art. 2697 c.c. e art. 24 Cost., per erroneo diniego dell’ammissione della prova richiesta, rigetto della domanda per carenza di prova, illogicità manifesta della motivazione anche ex art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost., error in procedendo, nullità della sentenza;

11. ha criticato la decisione della Corte d’appello che ha ritenuto integrata la violazione dei criteri di scelta senza dare ingresso alla prova testimoniale richiesta dalla società con i capitoli da n. 49 a n. 82 della memoria di costituzione nella fase sommaria (richiesta reiterata in fase di opposizione e di reclamo), volti a dimostrare la riorganizzazione aziendale attuata nel 2011;

12. ha definito apparente, in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, la motivazione adottata sul punto dalla sentenza d’appello laddove, utilizzando le risultanze istruttorie del giudizio di impugnativa del trasferimento, ha sottolineato la “palese interferenza” tra i due ambiti;

13. ha denunciato la contraddizione in cui sarebbe incorsa la Corte di merito per avere ritenuto non assolto l’onere di prova della società sulla riorganizzazione, dopo aver negato ingresso alle prove testimoniali articolate sul punto;

14. ha sostenuto come, una volta escluso il carattere ritorsivo del licenziamento, dovessero considerarsi legittimi ai sensi dell’art. 41 Cost. e quindi “immuni da accertamento giudiziale” (in assenza peraltro di domande specifiche al riguardo) tutte le determinazioni organizzative della società, tra cui quelle relative al mutamento di mansioni e di inquadramento del personale;

15. ha sottolineato come la Corte di merito avesse erroneamente ravvisato una “reciproca interferenza” tra due distinti atti organizzativi, il trasferimento e il mutamento di mansioni, legati a diversi presupposti di legittimità di cui all’art. 2103 c.c.; ha aggiunto che, in assenza di una domanda della lavoratrice sulla illegittimità del mutamento di mansioni, l’eventuale illegittimità del trasferimento non avrebbe potuto travolgere anche l’esercizio dello ius variandi, con conseguente inquadramento della M., all’epoca del recesso, nella qualifica impiegatizia da considerare fungibile; che erroneamente la Corte di merito aveva negato ingresso all’istruttoria sul mutamento di mansioni ritenendo tale aspetto interferente col trasferimento, e quindi sufficienti le prove raccolte nel separato procedimento di impugnativa di quest’ultimo;

16. ha trascritto i capitoli di prova non ammessi e sostenuto come l’assunzione delle prove dedotte avrebbe consentito, senza margini di incertezza, di dimostrare la legittimità del licenziamento collettivo anche nei confronti della M.;

17. col secondo motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 e 112 c.p.c.; violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; errata percezione di risultanze istruttorie; nullità della sentenza;

18. ha affermato come i giudici d’appello, nel riportarsi agli esiti istruttori del separato giudizio di trasferimento (nel senso che “la Società non ha affatto comprovato la riorganizzazione asseritamente operata nel 2011, nè la diversità dei profili tra le due addette all’Ufficio legale”), fossero incorsi in una erronea percezione delle circostanze emerse da tale prova (ipotesi diversa sia dalla erronea valutazione delle prove, inammissibile in sede di legittimità, e sia dall’errore di percezione censurabile con la revocazione ordinaria) poichè dalla lettura degli atti risulterebbe l’esatto contrario, cioè che la riorganizzazione avvenne come fatto storico, (deposizioni dei testi B., A., F.);

19. col terzo motivo di ricorso la società ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 112 c.p.c., artt. 24 e 111 Cost., per erronea comparazione tra le posizioni della M. e della F.;

20. ha ribadito come la sentenza impugnata avesse errato, in fatto, nel non considerare che: il profilo professionale della M., all’epoca di avvio della procedura di mobilità (6.8.2015), era quello di addetta al controllo amministrativo e non all’ufficio legale; l’organizzazione dell’ufficio legale era radicalmente mutata a far data dal 2011, con modifica del livello professionale e delle mansioni dell’unica addetta, la F., a cui era stata attribuita la qualifica di quadro; il profilo professionale di addetta all’Area legale indicato per la F. nella procedura di licenziamento collettivo non era sovrapponibile al mansionario della M. nel periodo in cui la stessa aveva operato nell’ufficio legale (rimanendo assente dal 2011 al 2013); la posizione della F. era pertanto infungibile in quanto unica risorsa dell’Ufficio legale (fin dal 2012, nel periodo di CIGD era stata inserita dalla Commissione tecnica mista Azienda-Sindacati nella lista dei 30 dipendenti non collocabili in CIGD per infungibilità) e non comparabile con nessun dipendente e nemmeno con la M.;

21. ha ribadito i seguenti errori in diritto della sentenza impugnata per non avere considerato che: i profili professionali della M. e della F. erano diversi e legittimamente la società aveva potuto considerare in esubero la prima e infungibile la seconda, assegnando di conseguenza alla prima zero punti (profilo in esubero) e alla seconda 100 punti (profilo necessario);

22. ha affermato come la statuizione della sentenza sulla comparabilità delle due lavoratrici costituisse falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5; che negare carattere infungibile al profilo della F. integrasse violazione dell’art. 41 Cost., essendo l’attribuzione alla stessa della qualifica di quadro atto organizzativo aziendale legittimo; che, ove anche poste in comparazione le due dipendenti e considerata la maggiore anzianità di servizio della M. (punti 41,95 M. e 38,54 F.), dati i pari carichi di famiglia, la F. avrebbe avuto un punteggio maggiore in ragione delle esigenze aziendali (100 a 0);

23. col ricorso incidentale la M. ha censurato la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame del fatto controverso e decisivo concernente la promessa di licenziamento da parte del datore di lavoro, sig. S.S., a fronte della protesta della dipendente sull’assegnazione nel 2010 anche delle mansioni inferiori di centralinista; fatto idoneo a dimostrare l’esistenza di un motivo illecito determinante a base della decisione di recesso; ha inoltre denunciato l’omessa pronuncia sui capitoli di prova orale richiesti (debitamente trascritti);

24. si esamina il ricorso principale della società;

25. sul primo motivo di ricorso principale, deve anzitutto escludersi il vizio di motivazione apparente denunciato in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4;

26. come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014), la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione”;

27. si è ulteriormente precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perchè consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass. S.U. n. 22232 del 2016);

28. tali caratteristiche non sono in alcun modo rinvenibili nella sentenza in esame che ha ritenuto utilizzabili, al fine di valutare la legittimità del licenziamento della M., le prove raccolte nel separato procedimento di impugnativa del trasferimento (e deve presumersi ritualmente acquisite nel procedimento di impugnativa del licenziamento, posto che nessuna censura risulta mossa al riguardo); ha dato atto dell’appello proposto avverso la sentenza del tribunale di Roma che aveva dichiarato illegittimo il trasferimento ma ha ritenuto ciò non ostativo, svolgendo di conseguenza un accertamento incidentale sul trasferimento in quanto interferente con la decisione di recesso; la “palese interferenza tra i due ambiti” (pag. 4 della sentenza) è logicamente riferita al trasferimento e al licenziamento, in quanto quest’ultimo è stato motivato dalla società, per la posizione della M., sul presupposto dell’avvenuto legittimo trasferimento della stessa ad altra sede e ad altre mansioni, da considerare fungibili e in esubero; ciò si ricava agevolmente dal prosieguo della motivazione: “(trasferimento illegittimo per lo svolgimento di mansioni di addetta al controllo amministrativo, mai assegnate e ritenute in esubero ai fini del recesso, con contestuale privazione delle mansioni di addetta all’ufficio legale, qualificate invece per la collega F., infungibili)”; lo stesso ricorso, a pag. 39, laddove censura la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, definendo apodittica la motivazione, tuttavia individua gli “ambiti del processo” come riferiti rispettivamente al trasferimento e al licenziamento collettivo;

29. neppure può trovare accoglimento la denuncia di contraddittorietà della motivazione per avere affermato il difetto di prova della riorganizzazione a base del trasferimento della M. negando l’ammissione delle prove richieste sul punto dalla società;

30. tale denuncia, se inquadrata nell’ambito del vizio motivazionale di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, risulta inammissibile per effetto della disciplina di cui all’art. 348 ter c.p.c., comma 5, sulla c.d. doppia conforme, non avendo la ricorrente neanche allegato la diversità delle ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, delle decisione di primo e secondo grado, (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014);

31. la censura si rivela comunque infondata anche rispetto alle violazioni di legge sostanziale e processuale denunciate;

32. la sentenza emessa in sede di reclamo ha dato atto (pag. 4) di come “il Tribunale di Roma, con sentenza n. 1077/2016, a seguito di articolata istruttoria, ha dichiarato illegittimo il trasferimento della Dott.ssa M. in quanto privo di qualsivoglia causalità o causa giustificatrice… accerta(ndo) anche la carenza di prova in merito alla pretesa soppressione delle mansioni di addetta all’ufficio legale già assegnate alla lavoratrice prima della maternità e dalla stessa svolte per cinque anni, assieme alla Dott.ssa F.”; la Corte d’appello ha esaminato direttamente (pag. 5) le prove testimoniali raccolte nel giudizio sul trasferimento (testi A., Mu., F.); ha motivato la mancata ammissione delle prove testimoniali richieste dalla società in quanto sovrapponibili nei contenuti all’istruttoria svolta nel separato procedimento; ha ritenuto, con accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, come alla luce della complessiva istruttoria svolta, la società non avesse “affatto comprovato la riorganizzazione asseritamente operata nel 2011…”; nè nel ricorso in esame sono dedotti specifici elementi atti a dimostrare la non sovrapponibilità, quanto ai capitoli di prova e ai testimoni addotti, tra l’istruttoria sollecitata dalla società in questo processo e quella svolta nel separato giudizio sul trasferimento ed acquisita;

33. infondata è anche la censura formulata dalla società sul presupposto di una erronea sovrapposizione operata dalla Corte d’appello tra trasferimento di sede di lavoro e mutamento di mansioni, in mancanza peraltro di una specifica contestazione della lavoratrice sull’esercizio dello ius variandi;

34. è vero che l’art. 2103 c.c., disciplina due istituti logicamente differenti, lo ius variandi e il trasferimento di sede di lavoro, ciascuno legato a propri requisiti di legittimità; ciò non toglie che in concreto il mutamento di sede possa accompagnarsi alla modifica delle mansioni e ciò è quanto la Corte d’appello ha accertato essere avvenuto nel caso di specie; nella sentenza impugnata (pag. 4) è stato accertato che “l’istruttoria svolta nel procedimento di impugnativa del trasferimento ha consentito di dimostrare che la Dott.ssa M. fu tramutata in difetto di qualsivoglia motivo che giustificasse lo spostamento, senza che le fosse possibile svolgere qualsivoglia attività compatibile con il profilo posseduto, come confermato dal responsabile di sede”; inoltre (pag. 5), “le funzioni di addetta al controllo amministrativo le furono solo fittiziamente attribuite in esito al periodo di sospensione del rapporto per cassa integrazione guadagni straordinaria con l’unica conseguenza di rendere formalmente la sua posizione lavorativa eccedentaria rispetto alle esigenze aziendali”;

35. l’accertamento in fatto compiuto dalla Corte di merito, laddove statuisce il carattere fittizio dell’assegnazione della M. a mansioni di controllo amministrativo presso la nuova sede, quale presupposto logico della illegittima collocazione della stessa tra gli esuberi, non è suscettibile di revisione in questa sede di legittimità, se non secondo lo schema legale del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, neanche dedotto nel motivo di ricorso in esame; nè l’argomento speso dalla società ricorrente (pag. 40) dell’essere gli atti organizzativi datoriali, tra cui il mutamento di mansioni, non suscettibili di controllo giudiziale “anche perchè mai attinti da domanda volta a farne valere profili di legittimità”, risulta corroborato dai necessari requisiti di specificità, attraverso la trascrizione delle domande proposte dalla lavoratrice e delle contestazioni mosse sul profilo suddetto da parte della società, nei diversi gradi di merito, a fronte di una sentenza di reclamo che affronta specificamente il tema dell’illegittimo e fittizio mutamento di mansioni;

36. del tutto infondato è il rilievo della società ricorrente sul riparo da censure di illegittimità che l’art. 41 Cost., offrirebbe rispetto a tutti gli atti di gestione funzionali alla organizzazione e produttività dell’impresa, in ragione anzitutto dei limiti posti del citato art. 41 Cost., comma 2, ed inoltre dei requisiti di legittimità degli atti e provvedimenti datoriali come previsti da numerose disposizioni dell’ordinamento del lavoro, a cominciare da quelle in materia di licenziamento individuale e collettivo;

37. anche il secondo motivo di ricorso principale è infondato;

38. con tale motivo la società ha denunciato l’errore di percezione in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nel ritenere non raggiunta la prova sulla riorganizzazione che si assume attuata nel 2011 ed ha richiamato un precedente di questa Corte (Cass. n. 9356 del 2017) secondo cui: “In materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 115 c.p.c., norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte”, (cfr. anche Cass. n. 27033 del 2018);

39. la giurisprudenza di legittimità citata nel ricorso distingue tra errore di valutazione (concernente l’efficacia dimostrativa della fonte di prova) ed errore di percezione (che cade sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova); pone poi una ulteriore suddivisione nell’ambito dell’errore di percezione, a seconda che esso investa un fatto incontroverso, e in tal caso è censurabile con la revocazione ordinaria ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, oppure una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, ed è censurabile per violazione dell’art. 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4;

40. la società ricorrente pretende di ravvisare l’errore di percezione, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., per avere la sentenza impugnata ritenuto non raggiunta la prova sulla riorganizzazione attuata nel 2011, ignorando le deposizioni testimoniali (trascritte a pag. 44 del ricorso: testi B.: “non so cosa sia successo in esito alla riorganizzazione…non so come fosse composto l’ufficio legale dopo la riorganizzazione”; A.: “dopo la riorganizzazione del 2011 ci fu un ricorso a solidarietà…dopo la riorganizzazione nell’ufficio legale sono rimasti l’avv. Citro, la F. e altri avvocati esterni”; e F.: “presso la Milano 90 c’è stata una riorganizzazione nel 2011”) che avevano riferito di una riorganizzazione avvenuta nel 2011, peraltro senza alcun riferimento al contenuto e alle modalità della stessa;

41. in realtà, la Corte d’appello ha dato atto di aver valutato l’intero materiale probatorio, sia quello raccolto nel presente giudizio e sia quello acquisito dal procedimento sul trasferimento, ed ha ritenuto lo stesso non sufficiente a dimostrare la riorganizzazione che si assume avvenuta nel 2011; nè l’errore di percezione, in relazione all’art. 115 c.p.c., può ravvisarsi laddove la statuizione di esistenza o meno della circostanza controversa presupponga un giudizio di attendibilità, sufficienza e congruenza delle testimonianze, che si colloca interamente nell’ambito della valutazione delle prove, estranea al giudizio di legittimità;

42. le censure oggetto del terzo motivo di ricorso, in quanto reiterano gli argomenti in fatto e in diritto esposti nei primi due motivi, possono considerarsi in prevalenza assorbite; la censura sul punteggio prioritario spettante alla F., ove anche comparata con la M., introduce una questione che non risulta trattata nella sentenza emessa in sede di reclamo nè la società ha dedotto in che modo e in quali atti processuali l’avesse in precedenza sollevata; la censura si rivela pertanto inammissibile;

43. difatti, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia stato fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del 2018);

44. per le considerazioni svolte, il ricorso principale deve essere respinto;

45. si esamina ora il ricorso incidentale della lavoratrice;

46. deve premettersi che la Milano 90 s.r.l., col controricorso avverso il ricorso incidentale della M., ha eccepito l’inammissibilità del ricorso incidentale sul rilievo che la lavoratrice non avesse proposto in primo grado una autonoma domanda di nullità del licenziamento perchè ritorsivo e, comunque, ove anche si ritenesse tale domanda proposta ed implicitamente respinta dal Tribunale, non vi era stato reclamo incidentale; nè la domanda di nullità poteva considerarsi assorbita dalla declaratoria di illegittimità del recesso per erronea applicazione dei criteri di scelta, essendo diversi petitum e causa petendi;

47. l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale non può trovare accoglimento;

48. occorre considerare che la Corte d’appello ha adottato una esplicita pronuncia sulla domanda di nullità del licenziamento perchè ritorsivo, rigettando la stessa per difetto di allegazioni e prove; la sentenza emessa in sede di reclamo ha dato atto della proposizione della domanda di nullità del licenziamento nel ricorso introduttivo di primo grado; ha poi motivato, richiamando un precedente di legittimità (Cass. n. 10834 del 2015) sul potere dovere del giudice di qualificare nullo il licenziamento ove siano stati dedotti, oltre a profili di illegittimità, anche profili discriminatori o ritorsivi, in tal modo ritenendo implicitamente non necessaria la proposizione di un reclamo incidentale ed anzi ammettendo la facoltà, anche in secondo grado, di un rilievo d’ufficio della nullità;

49. su tale complessiva statuizione della sentenza di secondo grado, la società attuale ricorrente principale non ha formulato alcun motivo di censura nel ricorso per cassazione, ad esempio per vizio di ultrapetizione, e neanche ha allegato di aver eccepito, nel giudizio di reclamo, l’inammissibilità della domanda avversaria di nullità del recesso in quanto reiterata nella memoria costitutiva, senza la proposizione di reclamo incidentale;

50. in ragione di ciò, atteso che la società non ha censurato col ricorso principale la facoltà della Corte di merito di pronunciarsi sulla domanda di domanda di nullità del licenziamento, pur in mancanza di reclamo incidentale, deve ritenersi ammissibile il ricorso incidentale della lavoratrice e respingersi l’eccezione sollevata sul punto dalla Milano 90 s.r.l.; difatti, il vizio di ultrapetizione, ove configurabile, comporta una nullità relativa della pronuncia, che deve essere fatta valere attraverso gli ordinari mezzi d’impugnazione e non può essere rilevata d’ufficio dal giudice del gravame, altrimenti la pronunzia di quest’ultimo (che rilevasse, senza specifica impugnazione, l’ultrapetizione) incorrerebbe nel medesimo vizio, (Cass. n. 10516 del 2009; cfr. anche Cass. n. 21856 del 2004; n. 13351 del 2014; n. 10172 del 2015; n. 465 del 2016);

51. il ricorso incidentale, oltre che ammissibile, è anche fondato e deve trovare accoglimento;

52. secondo l’orientamento consolidato (Cass. n. 17087 del 2011; n. 6282 del 2011; n. 6501 del 2013; n. 24648 del 2015), il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito, o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, ai sensi dell’art. 1345 c.c., quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni;

53. si è ulteriormente precisato (Cass. n. 6501 del 2013; n. 23149 del 2016; n. 26035 del 2018; n. 9468 del 2019) che l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non altera il criterio di distribuzione dell’onere di prova di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 5 e quindi non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare il legittimo esercizio del potere disciplinare;

54. tali principi sono stati ribaditi (Cass. n. 30429 del 2018) con riferimento al nuovo testo della L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, che ha disciplinato l’ipotesi del licenziamento nullo perchè determinato da un motivo illecito determinante (“ma non anche necessariamente unico”, così Cass. cit.), ai sensi dell’art. 1345 c.c.;

55. l’onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore e si tratta di prova certamente non agevole, in quanto diretta a dimostrare un atteggiamento della volontà datoriale, cioè l’intento ritorsivo, nonchè il ruolo determinante dello stesso alla base della decisione di recesso;

56. la prova può essere fornita attraverso presunzioni, e a tale riguardo può attribuirsi valore indiziario all’inesistenza della ragione formalmente addotta a giustificazione del recesso (Cass. n. 17087 del 2011) e, in caso di licenziamento collettivo, anche alla violazione dei criteri di scelta (Cass. n. 23149 del 2017);

57. nel caso in esame, la Corte d’appello ha respinto la domanda di nullità del licenziamento sul presupposto che la lavoratrice non avesse allegato i fatti da cui desumere la natura ritorsiva dello stesso e non avesse assolto all’onere di prova del motivo illecito determinante;

58. la attuale ricorrente incidentale ha trascritto il contenuto del ricorso introduttivo di primo grado ove erano allegati i seguenti fatti: “… nel corso del 2010 il datore di lavoro richiedeva alle addette all’area legale, Dott.sse M. e F., di espletare, unitamente alle mansioni assegnate… anche quelle di centraliniste, essendovi carenza di personale in tale ruolo; la sig.ra M., pur senza rifiutarsi di adempiere alla richiesta datoriale, eccepiva che le nuove mansioni assegnate erano inferiori a quelle ad essa spettanti in virtù del suo inquadramento; alle eccezioni della M., il datore di lavoro nella personale del sig. S.S., reagiva malamente, dichiarando che avrebbe, presto o tardi, messo fine al rapporto di lavoro”; ha riportato le domande formulate in primo grado e gli argomenti utilizzati a sostegno delle stesse, nonchè i capitoli di prova testimoniale di cui aveva chiesto l’ammissione (capitoli nn. 2, 3 e 4, riproducenti le circostanze sopra trascritte, riportati alle pagg. 45, 46 del controricorso); le medesime allegazioni e istanze di prova la M. aveva reiterato nella memoria costitutiva in sede di giudizio di opposizione e poi in sede di reclamo;

59. la stessa sentenza d’appello, in realtà, ha dato atto di tali allegazioni ed, esattamente, di come, nel ricorso introduttivo di primo grado, la lavoratrice avesse denunciato la ritorsività del licenziamento quale reazione alla propria contestazione avverso la decisione datoriale di assegnazione di mansioni inferiori; ed avesse allegato che, dopo tale episodio, non solo si erano raffreddati i rapporti interpersonali, ma erano state poste in essere dalla società “una serie di condotte censurabili…. come l’inclusione della M. nelle liste di mobilità durante la maternità, il mancato rispetto della rotazione, l’illegittimo trasferimento”;

60. la Corte di merito, sulla base delle prove raccolte ed acquisite, ha poi accertato come la M., addetta all’ufficio legale, al rientro dalla maternità (1.9.2012), fosse stata ammessa ininterrottamente (fino al giugno 2013) alla cassa integrazione, in spregio agli accordi sindacali; che dopo un periodo di ferie, imposto dalla società, era stata trasferita presso la sede di (OMISSIS) “in difetto di qualsivoglia motivo che giustificasse lo spostamento”, trasferimento infatti dichiarato illegittimo dal tribunale di Roma; che le funzioni di addetta al controllo amministrativo presso la suddetta sede “le furono solo fittiziamente attribuite in esito al periodo di sospensione per CIGS con l’unica conseguenza di rendere, formalmente, la sua posizione lavorativa eccedentaria rispetto alle esigenze aziendali”; che se l’azienda non avesse illegittimamente tramutato la M. nella sede di (OMISSIS), “la sua posizione lavorativa sarebbe stata qualificata infungibile come quella della Dott.ssa F., o quanto meno comparata con questa, avente minore anzianità di servizio e verosimilmente recessiva”;

61. emerge, da quanto appena riportato, come la Corte di merito, non solo abbia affermato l’illegittimità del licenziamento della M. per erronea applicazione dei criteri di scelta, ma abbia ricostruito la condotta tenuta della società nei confronti della dipendente come un susseguirsi di atti e provvedimenti illegittimi (permanente sospensione in cassa integrazione, trasferimento privo di ragioni organizzative o produttive ma finalizzato ad assegnare alla predetta mansioni destinate ad essere dichiarate in esubero), non aventi altra plausibile finalità se non quella di espellere la lavoratrice dalla compagine aziendale;

62. in tale contesto, rispetto alla statuizione di rigetto della domanda diretta a far accertare la ritorsività del licenziamento, argomentata in ragione della mancata allegazione e prova del motivo illecito determinante, risulta dirimente l’omesso esame dell’episodio, tempestivamente e puntualmente allegato dalla lavoratrice, unitamente alle richieste di prova, e che sarebbe consistito nella contestazione della M. di fronte all’assegnazione anche delle mansioni inferiori di centralinista, a cui avrebbe fatto seguito la immediata promessa datoriale di licenziamento;

63. l’omesso esame integra il vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come delineato dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza n. 8053 del 2014, in quanto investe un fatto costitutivo della domanda di nullità del licenziamento perchè ritorsivo; un fatto che ha indubbia valenza storico-fenomenica ed anche carattere astrattamente decisivo al fine di dimostrare il fattore scatenante della illecita reazione del datore di lavoro, puntualmente ricostruita nella sentenza impugnata, e che ha avuto come epilogo il licenziamento dichiarato illegittimo;

64. l’omesso esame denunciato nel ricorso incidentale investe proprio il fatto storico che potrebbe rappresentare il “tassello mancante” (così le Sezioni Unite n. 8053 del 2014), idoneo a rendere fondata la domanda della lavoratrice sul carattere ritorsivo del licenziamento, in un contesto di elementi presuntivi rappresentati da atti e provvedimenti datoriali, esitati nel recesso illegittimo, che la stessa Corte di merito ha valutato come non altrimenti spiegabili se non in ragione di una finalità espulsiva nei confronti della M.;

65. sulla base di tali considerazioni, deve trovare accoglimento il ricorso incidentale; la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un riesame della fattispecie comprensivo del fatto storico sopra indicato e delle istanze probatorie articolate sul punto, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità;

66. si dà atto della sussistenza, nei confronti della ricorrente principale, dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 8 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2019

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