Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25156 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. III, 10/11/2020, (ud. 20/07/2020, dep. 10/11/2020), n.25156

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22137/2018 proposto da:

GENERALI ITALIA SPA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

LUNGOTEVERE DELLA VITTORIA 9, presso lo studio dell’avvocato

GIOVANNI ARIETA, che lo rappresenta e difende;

– ricorrenti –

e contro

I.D., V.A., C.L., AZIENDA

OSPEDALIERA (OMISSIS), UNIPOL ASS SPA, M.A.,

T.V.;

– intimati –

nonchè da:

AZIENDA OSPEDALIERA (OMISSIS), T.V., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 28, presso lo studio

dell’avvocato GIUSEPPE CILIBERTI, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti incidentali –

contro

GENERALI ITALIA SPA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

LUNGOTEVERE DELLA VITTORIA 5, presso lo studio dell’avvocato

GIOVANNI ARIETA, che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti all’incidentale –

e contro

I.D., M.A., C.L., UNIPOL ASS

SPA, VI.AD.;

– intimati –

nonchè da:

I.D., VI.AD., elettivamente domiciliati in

ROMA, PIAZZALE DON GIOVANNI MINZONI N. 9, presso lo studio

dell’avvocato ENNIO LUPONIO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti incidentali –

e contro

T.V., M.A., UNIPOL ASS SPA, AZIENDA

OSPEDALIERA (OMISSIS), C.L., GENERALI ITALIA SPA

(OMISSIS);

– intimati –

nonchè da:

C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE GIULIO

CESARE 95, presso lo studio dell’avvocato SABRINA MAGRINI,

rappresentato e difeso dall’avvocato MAURO MENGUCCI;

– ricorrenti incidentali –

contro

GENERALI ITALIA SPA (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

LUNGOTEVERE DELLA VITTORIA 5, presso lo studio dell’avvocato

GIOVANNI ARIETA, che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti all’incidentale –

e contro

VI.AD., I.D., T.V., AZIENDA

OSPEDALIERA (OMISSIS), UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA,

M.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 533/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 27/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/07/2020 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con atto di citazione notificato il (OMISSIS) I.D. e Vi.Ad., in proprio e quali legali rappresentanti del figlio minorenne Vi.An., convenivano davanti al Tribunale di Pesaro la ginecologa C.L., T.V. e M.A., quali medici dipendenti della Azienda ospedaliera (OMISSIS) e quest’ultima Azienda, per ottenere la loro condanna al risarcimento dei danni propri e del minore derivati dall’omessa rilevazione diagnostica di lipomielemeningocele con i ripetuti accertamenti icono-ecografici diretti a diagnosi prenatale.

I convenuti si costituivano, resistendo; venivano autorizzati alla chiamata in causa delle rispettive compagnie assicuratrici la C. – che chiamava Assitalia S.p.A. – e il M. – che chiamava Unipol S.p.A.-. Le due compagnie a loro volta si costituivano, chiedendo il rigetto delle domande.

Con sentenza dell’8 febbraio 2012 il Tribunale rigettava ogni pretesa attorea.

Avendo la I. e il V. proposto appello principale, si costituivano resistendo la C. – che proponeva pure appello incidentale quanto alla compensazione delle spese tra lei e gli attori disposta in primo grado – e tutte le altre parti.

La C. proponeva altresì appello principale, e nella relativa causa si costituivano I., V., l’Azienda ospedaliera, T. e le compagnie assicuratrici, divenute nelle more Unipol Sai S.p.A. e Ina Assitalia S.p.A..

La Corte d’appello di Ancona riuniva le due cause e con sentenza del 27 aprile 2018, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava la C. per il 50% e – solidalmente – T. e l’Azienda ospedaliera per il 50% a risarcire i danni non patrimoniali subiti in proprio da I.D. e Vi.Ad. nella misura di Euro 200.000 ciascuno, e a risarcire alla I. i danni patrimoniali nella misura di Euro 7000, oltre interessi dalla domanda al saldo; riconosceva inoltre il diritto di manleva della C. nei confronti di Ina Assitalia nei limiti di quanto con essa convenuto.

Ha proposto ricorso principale Generali Italia S.p.A., già Ina Assitalia S.p.A..

Si difende con controricorso, contenente pure ricorso incidentale, C.L..

Si difendono con controricorso, contenente pure ricorso incidentale, l’Azienda Ospedaliera “(OMISSIS)” e T.V..

Si difendono altresì con controricorso, contenente pure ricorso incidentale, I.D. e Vi.Ad., in proprio e quali legali rappresentanti di Vi.An..

Generali Italia si è difesa con controricorso dal ricorso incidentale della C. e con controricorso dal ricorso incidentale I. – V..

Hanno depositato memoria Generali Italia, l’Azienda Ospedaliera e il T. nonchè la C..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il ricorso principale si articola in due motivi.

1.1 Il primo motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 194 del 1978, artt. 6 e 7 e dei principi relativi ai requisiti per l’interruzione volontaria della gravidanza dopo il novantesimo giorno.

La Corte d’appello non avrebbe tenuto conto dell’insegnamento di S.U. 22 dicembre 2015 n. 25767, per cui, affinchè sussista danno da nascita indesiderata, occorre che l’aborto fosse all’epoca legalmente consentito, onde il giudice deve accertare la ricorrenza per esso dei requisiti di legge. Oltrepassati i primi novanta giorni, necessitano dunque i requisiti di cui alla L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. a) e b) e della stessa legge occorre tenere in conto pure l’art. 7 in ordine alla sussistenza o meno di possibilità di vita autonoma del feto. Pertanto, secondo la ricorrente, sono necessari i requisiti positivi di cui all’art. 6, lett. a) e b), unitamente al requisito negativo dell’impossibilità di vita autonoma del feto evincibile dall’art. 7. Quest’ultimo non sarebbe stato vagliato dal giudice d’appello, benchè si tratterebbe di un accertamento al cui esito l’art. 7 condiziona la legittima invocabilità dei due requisiti positivi di cui all’art. 6. Avrebbe dunque errato la corte territoriale nel ritenere che sussistesse, nel caso di specie, il diritto di autodeterminazione relativo all’aborto di I.D., e quindi nel ritenere altresì fondata la sua pretesa risarcitoria. Invero il giudice d’appello avrebbe violato tali norme, omettendo ogni doveroso accertamento sulla possibilità di vita autonoma del feto (viene citata Cass. sez. 3, 4 gennaio 2010 n. 13), accertamento al cui esito l’art. 7 subordina la legittima possibilità di invocare l’una o l’altra delle ipotesi previste nell’art. 6. E in difetto dei requisiti di legge rendenti legale l’aborto si verificherebbe – diventando l’aborto un reato – l’esclusione della antigiuridicità del danno, “dovuto non più a colpa professionale, bensì a precetto imperativo di legge”.

1.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2727 c.c. nonchè delle norme e dei principi relativi alle presunzioni.

Dalla giurisprudenza di legittimità si evince che, in ordine alla responsabilità medica da nascita indesiderata, chi agisce per ottenere il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la gestante avrebbe esercitato la facoltà di abortire – ricorrendone i presupposti di legge – se fosse stata tempestivamente informata dalla anomalia fetale, prova ottenibile con praesumptio hominis, rilevando fatti dimostrati come il ricorso al consulto medico per conoscere lo stato di salute del feto, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante e le pregresse manifestazioni del suo pensiero propenso all’aborto; grava poi sul medico la prova contraria che la gestante non avrebbe optato per quest’ultimo.

Il giudice d’appello avrebbe ritenuto assolto l’onere probatorio di I.D. non in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova in atti, bensì mediante ragionamenti astratti, così incorrendo nella violazione dell’art. 2727 c.c., il quale, in connessione all’art. 2729 c.c., limita la fonte di inferenza al “fatto noto”. La corte territoriale avrebbe limitato quell’indagine ad una elencazione di malformazioni che giustificherebbero la presunzione di opzione abortiva: presunzione che, poichè generale e astratta, costituirebbe una inammissibile prefigurazione giudiziale di presunzione juris tantum (si richiama ancora l’intervento delle Sezioni Unite già citato). Si sarebbe verificato un disancoramento dai dati istruttori laddove la corte afferma “evidente” che dopo il parto i genitori “non possano non aver patito un trauma che non può portare ad escludere i plurimi effetti pregiudizievoli che l’eventuale scelta abortiva avrebbe potuto escludere”.

2. La controricorrente C.L. dichiara di condividere pienamente i motivi del ricorso principale, e propone ricorso incidentale con quattro motivi.

2.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione della L. n. 194 del 1978, artt. 6 e 7 e dei principi relativi ai requisiti per accedere all’interruzione di gravidanza superatone il novantesimo giorno.

Il giudice d’appello, dopo aver richiamato la L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), sulla possibilità di abortire anche dopo i primi novanta giorni della gestazione se sussistono rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che possano mettere in grave pericolo la salute fisica o psichica della gestante, avrebbe confutato la conclusione del consulente tecnico d’ufficio S. – escludente pericolo per la salute della I. – rilevando che i quesiti sottoposti a tale consulente, specialista in ortopedia e fisioterapia, “non attenevano specificatamente a quali sarebbero gli effetti traumatici sulla donna derivanti dalla conoscenza delle malformazioni del feto durante la gravidanza quanto piuttosto alla quantificazione dell’eventuale danno biologico (sub specie psiche) da trauma in capo ai genitori per la scoperta della malformazione in sede di parto senza una previa preparazione psicologica” e all’accertamento dell’eventuale danno biologico sofferto dai genitori per la convivenza con il figlio malformato.

Quindi la corte territoriale avrebbe ritenuto provate le rilevanti possibilità di accertamento diagnostico anche ai fini di aborto terapeutico oltre i primi novanta giorni di gravidanza, il nesso causale tra l’omesso accertamento della malformazione e l’impossibilità per la I. di optare per l’aborto nonchè le “mancate informazioni ai genitori sui limiti o il grado tecnico di approssimazione degli accertamenti strumentali effettuati, non consentendo loro anche scelte trattamentali alternative (intervento chirurgico in utero la cui possibilità non è stata esclusa in termini assoluti e documentati)”.

Detto ragionamento sarebbe errato in punto di diritto, non avendo considerato il principio formulato da S.U. 25767/2015 per cui, in ogni caso, perchè sussista il danno da nascita indesiderata occorre che l’interruzione della gravidanza fosse all’epoca legalmente consentita, principio che impone al giudice di accertare rigorosamente se sussistono tutti i requisiti di legge per compiere l’aborto.

A questo punto la ricorrente dichiara di condividere quanto rilevato dalla ricorrente principale, per cui l’aborto, ai sensi della legge L. n. 194 del 1978, dopo i primi novanta giorni di gravidanza presuppone le condizioni di cui all’art. 6, lett. a) e b), e la condizione negativa di cui all’art. 7. Riprende, quindi, le argomentazioni offerte nel ricorso principale al riguardo sui pretesi errori del giudice d’appello che avrebbe violato tali norme, con le quali conclude.

2.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2727 c.c., nonchè delle norme e dei principi sulle presunzioni.

La giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, ha espresso il principio di diritto per cui il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la gestante avrebbe esercitato la facoltà di abortire, ricorrendone le condizioni di legge, se fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale (si citano le già richiamate S.U. 25767/2015, oltre a Cass. sez. 3, 11 aprile 2017 n. 9251 e Cass. sez. 3, 31 ottobre 2017 n. 25849). Questo principio sarebbe stato disatteso dal giudice d’appello, che così avrebbe violato l’art. 2727 c.c., nel seguente stralcio motivazionale:

“Le conclusioni dell’ A. – peraltro estremamente generiche e apodittiche e non supportate da verifiche testistiche – non forniscono seri elementi per escludere che, ove messa a conoscenza tempestivamente della malformazione del feto, la I. non avrebbe vissuto drammaticamente la scelta fra il portare avanti una gravidanza in presenza di una pregressa esperienza familiare di handicap, tanto temuta, e la possibilità di interromperla e non avrebbe comunque effettuato o potuto effettuare, per convinzioni personali o altri motivi, una scelta in tal senso.

E’ evidente che, una volta appreso, solo dopo il parto, della malformazione del bambino i genitori non possano non aver patito un trauma che, anche ammesso che non abbia avuto gravi conseguenze psicologiche per le capacità di resilienza degli stessi, non può portare ad escludere i plurimi effetti pregiudizievoli che l’eventuale scelta abortiva avrebbe potuto escludere.

D’altro canto, per le capacità dimostrate dai genitori nel farsi carico al meglio, con senso di responsabilità, delle esigenze del figlio non può pretendersi che, una volta avvenuto il parto e appreso della grave patologia, essi dovessero manifestare, per presunta coerenza con una volontà abortiva, un rifiuto psicologico nei confronti dello stesso”.

Reputa la ricorrente che il “convincimento espresso” dalla corte territoriale sia “totalmente disancorato dalle risultanze processuali e frutto di mere congetture”. Anche qui si richiama una censura del ricorso principale, e precisamente quella per cui il giudice d’appello avrebbe violato l’art. 2727, in connessione con l’art. 2729 c.c., giungendo ad una inammissibile prefigurazione giudiziale di una presunzione juris tantum.

2.3 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2236 e 1218 c.c..

Il giudice d’appello ha ritenuto responsabile anche C.L., nel senso che la sua responsabilità concorrente, violando i doveri contrattuali e deontologici, atterrebbe “all’aver tranquillizzato la I. escludendo malformazioni e non consentendole di valutare rischi o praticare altre opzioni diagnostiche”. Ciò presupporrebbe però la dimostrazione che la ricorrente avrebbe potuto diagnosticare la malformazione del feto e che non lo abbia fatto per colpa lieve, dato che l’art. 2236 c.c., prevede la responsabilità solo in caso di dolo o colpa grave se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.

Nel caso in esame il problema tecnico di speciale difficoltà – la diagnosi della malformazione – emergerebbe “anche nell’elaborato peritale di chiarimenti del CTU professor Ma.”, per il quale, condividendo la posizione della consulente tecnica di parte dell’attuale ricorrente, “con l’avanzare della gravidanza diminuisce, in proporzione rispetto al feto, il volume della cavità occupata dal liquido amniotico e di conseguenza la qualità dell’immagine delle strutture superficiali del feto. Quindi è meno facile visualizzare le tumefazioni esterne al feto man mano che la gravidanza procede; il fatto che la tumefazione fosse ecogenica significa che aveva un aspetto ecografico simile a quella di normali tessuti fetali e per tale motivo è difficile da differenziare dai medesimi. Non a caso sono pochissime in letteratura le segnalazioni di diagnosi prenatale di lipomielomeningocele”.

La difficoltà di evidenziare tale malformazione sarebbe stata provata anche dal percorso ospedaliero del bambino, sottoposto a varie indagini, sia ecografiche che radiologiche tra cui la risonanza magnetica nucleare, per precisare la diagnosi che alla prima risonanza magnetica nucleare “non venne neppure identificata”. Il che significherebbe che la diagnosi non avvenne precocemente neppure dopo il parto, proprio per la difficoltà di visualizzare la malformazione “anche con le più comuni metodiche diagnostiche in vivo”.

Si aggiunge che il giudizio di probabilità sulla visione ecografica della tumefazione espresso nella consulenza del professor Ma. sarebbe stato “smentito dagli stessi documenti presenti agli atti visionati prima di lui da due esperti nominati dalla procura della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro”, i professori F. e G., i quali avrebbero escluso la responsabilità dell’attuale ricorrente “affermando che l’ecografia eseguite (sic) 25 + 3; 31 + 5; 36 + 3 settimane non sono supportate da un quadro iconografico tale da poter capire se la malformazione si riferisce in particolare alla presenza di lipoma in sede lombosacrale fossero (sic) meno diagnosticabile”. Questo significherebbe che la mancata visione del lipoma nell’ultima ecografia “non delinea in sè aspetti di errore diagnostico, posto che se è vero che teoricamente la massa poteva essere evidenziata, è anche vero che potevano sussistere fattori in base ai quali il lipoma non poteva essere visualizzato”; e nel caso in esame, “per quanto esposto documentato”, non sarebbe stata possibile la diagnosi neppure nelle tre ecografie compiute dalla ricorrente.

Se ne deduce che il giudice d’appello, “esaminando correttamente tutte le risultanze processuali in fatto ed in diritto” e correttamente applicando gli artt. 1218 e 2236 c.c., avrebbe dovuto escludere ogni responsabilità della ricorrente, riconoscendo l’assenza anche di colpa lieve, perchè la malformazione sarebbe stata “di impossibile o comunque di difficile diagnosi”. Altrimenti “si dovrebbe ritenere che sussista una responsabilità oggettiva del medico o della struttura ospedaliera ogni volta che, come nel caso di specie, si sia verificato un evento”: interpretazione contrastante con l’art. 2236 c.c., in correlazione con l’art. 1218 c.c..

2.4 Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione ed erronea applicazione dell’art. 1917 c.p.c..

La corte territoriale, dopo aver correttamente riconosciuto il diritto della ricorrente di essere manlevata dalla sua compagnia assicuratrice “nei limiti di quanto con la stessa contrattualmente convenuto”, avrebbe erroneamente compensato le spese del grado di giudizio tra la ricorrente stessa e gli altri appellati, tra cui proprio la compagnia assicuratrice – ora Generali Italia -.

Cass. sez. 3, 11 settembre 2014 n. 19176 viene invocata per la corretta interpretazione dell’art. 1917 c.c., comma 3 – prevedente che le spese sostenute dall’assicurato per resistere all’azione del danneggiato gravano l’assicuratore nei limiti del quarto della somma assicurata -. L’arresto concerne proprio le spese di resistenza, cioè quelle che l’assicurato dovrebbe sostenere per resistere al terzo in giudizio. L’obbligo della manleva delle spese ai sensi appunto dell’art. 1917 c.c., comma 3, sussisterebbe anche quando l’assicuratore abbia assunto direttamente la difesa, prescindendo dalla clausola di “patto di gestione della lite” rinvenibile nelle polizze. La manleva sulle spese di resistenza investirebbe qualunque tipo di domanda risarcitoria del terzo.

Nel caso in esame sarebbe pacifico che la difesa dell’assicurato si svolse pure nell’interesse della compagnia assicuratrice, come dimostra anche il fatto che questa, fin dalla costituzione in primo grado e poi in grado d’appello, ha condiviso le argomentazioni dell’attuale ricorrente, in particolare nella propria comparsa conclusionale d’appello richiamandone “tutte le argomentazioni difensive”. Il giudice d’appello ha poi accolto la prospettazione dell’attuale ricorrente quanto all’insussistenza di una propria responsabilità esclusiva, riconoscendo anche quelle del T. e dell’Azienda ospedaliera.

In conclusione, essendosi dunque la difesa dell’attuale ricorrente svolta anche nell’interesse di Generali Italia, la decisione del giudice d’appello di compensare le spese processuali tra la ricorrente e quest’ultima avrebbe violato l’art. 1917 c.c., comma 3.

3. I controricorrenti T.V. e Azienda Ospedaliera “(OMISSIS)” dichiarano di aderire ai motivi del ricorso principale e articolano il proprio ricorso incidentale in cinque motivi.

3.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 194 del 1978, artt. 6 e 7.

Ai sensi dell’art. 7, quando il feto ha possibilità di vita autonoma l’aborto è legittimo solo in caso di grave pericolo per la vita della gestante: pertanto gli artt. 6 e 7, escludono l’aborto eugenetico, come già è evincibile dall’art. 1 della stessa legge.

La corte territoriale avrebbe affermato che il giudice deve valutare la lesione del diritto a scegliere o meno l’aborto, diritto correlato alla mancata informazione sulle malformazioni; poi avrebbe ritenuto l’assenza di seri elementi per escludere che, se avesse saputo, “la I. non avrebbe vissuto traumaticamente la scelta” tra il proseguimento della gravidanza e “la possibilità di interromperla”, prospettando una sua impossibilità di scelta. Avrebbe quindi ritenuto provato la possibilità di diagnosticare la malformazione oltre i primi novanta giorni di gestazione, il nesso causale tra l’omessa diagnosi e l’impossibilità per la gestante di compiere una legittima scelta ai fini dell’interruzione della gravidanza e, infine, la mancata informazione dei genitori sulla possibilità di intervento chirurgico al feto nell’utero.

Per il danno da nascita indesiderata è necessario che l’aborto sia “legalmente consentito” (si richiama lo stesso intervento delle Sezioni Unite citato nel ricorso principale), mentre nel caso in esame non lo sarebbe stato, vista l’assenza di un grave pericolo per la vita della I. avendo il feto – e ciò costituirebbe il presupposto dell’applicabilità dell’art. 7 – possibilità di vita autonoma “poichè presentava una spina bifida chiusa, operabile e comunque non comportante alcun rischio di non sopravvivenza”.

3.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2727 c.c. e dei principi relativi alle presunzioni.

I.D. e Vi.Ad. non avrebbero dimostrato le condizioni legittimanti l’aborto, il che sarebbe stato loro onere in quanto attori. In particolare, la gestante avrebbe dovuto dimostrare che l’omessa informazione avrebbe portato un “grave pericolo per la sua salute” e che ella avrebbe effettivamente optato per l’aborto.

Viene ancora invocata, oltre a pronunce delle sezioni semplici, S.U. 25767/2015, per cui è necessario provare le rilevanti anomalie e il nesso causale tra queste e un grave pericolo per la salute fisica o psichica della gestante; è parimenti necessario provare la volontà della gestante di abortire; e anche nel caso di responsabilità medica per nascita non desiderata compete alla madre l’onere probatorio, assolvibile con praesumptio hominis, ovvero con i requisiti di cui all’art. 2729 c.c..

La corte territoriale avrebbe richiamato la giurisprudenza di legittimità, ma deciso poi “senza alcun elemento di prova agli atti…, non essendo stato assolto l’onere della prova neppure a mezzo di presunzioni semplici”: non avrebbe infatti proceduto sulla base di un fatto noto, bensì “all’esito di ragionamenti completamente disancorati dalle risultanze”. Pertanto non vi sarebbe la prova che la I. avrebbe optato per la gravidanza interrotta.

3.3.1 Il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denuncia nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione (motivazione incomprensibile) sulle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio riguardanti la responsabilità del T. e della Azienda Ospedaliera: non si comprenderebbero le censure mosse all’attività di tale medico, considerato che il consulente tecnico d’ufficio lo avrebbe ritenuto privo di responsabilità.

3.3.2 La motivazione sarebbe incomprensibile anche sotto un altro profilo, ovvero per difetto di riscontro negli esiti istruttori.

Richiamato un periodo motivazionale della sentenza impugnata attinente alla una responsabilità dei ricorrenti, rinvenibile a pagina 8, si riprendono due passi dalla CTU Ma., deneganti la responsabilità trattandosi di una ecografia standard, in cui per la visualizzazione della sacca erniaria sarebbero state facilitanti scansioni orizzontali delle singole vertebre, non richieste in “ecografie standard come questa”, per giungere poi ad affermare che la corte territoriale avrebbe fornito una motivazione “incomprensibile” perchè “ancorata ad ipotesi del tutto empiriche e non ancorate alla realtà fattuale, ben prospettata e analizzata dal CTU”.

3.4 Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, lamentando “difetto assoluto di motivazione in ordine alla decisione di disattendere le risultanze della CTU”.

Riprendendo ancora dalla consulenza Ma. valutazioni relative alla malformazione e alla sua percepibilità ecografica, escludenti la responsabilità del T., si imputa al giudice d’appello di non aver indicato sulla base di quali elementi è giunto a una contraria decisione.

3.5 Il quinto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per “difetto assoluto di motivazione”: invoca il minimum costituzionale di cui all’art. 111 Cost. e l’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, sempre per un asserito discostamento immotivato della corte territoriale dagli esiti – ancora una volta riportati – della consulenza tecnica d’ufficio effettuata dal professor Ma..

4.1 Il ricorso incidentale I. – V. si fonda su un unico motivo, denunciante, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione ed erronea applicazione degli artt. 2043,2059 c.c. e art. 112 c.p.c..

Non si comprenderebbe come il giudice d’appello sia giunto alla quantificazione in Euro 200.000 per il danno non patrimoniale di ciascun genitore e in Euro 7000 per la I..

4.2 Quanto al danno non patrimoniale subito dai genitori, costituirebbe una voce di danno “di particolare intensità”: si sarebbe verificato lo sconvolgimento della vita “non solo a livello psichico”, ma pure in ordine all’organizzazione della quotidiana esistenza, con impossibilità di miglioramento, assenza dei normali sentimenti positivi genitoriali, prospettiva della necessità del figlio di essere assistito dopo la loro morte da estranei oppure in un istituto per disabili.

La prova di tale danno non patrimoniale, risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c., risiederebbe in re ipsa quale conseguenza della grave invalidità permanente del figlio, e sarebbe comunque raggiungibile anche per presunzioni. Si dovrebbe pertanto riconoscere ad ogni genitore l’importo di Euro 300.000 di risarcimento di tale danno non patrimoniale.

4.3 In secondo luogo, per le lesioni subite e l’impossibilità di stare autonomamente eretto, il figlio necessiterebbe assistenza “per tutte le sue esigenze di vita”, assistenza allo stato datagli dai genitori anche con l’ausilio di una collaboratrice domestica; quando però i genitori più non potranno assisterlo, perchè anziani, il figlio dovrà avvalersi di un assistente retribuito. Calcolando il costo di tale assistenza dal quarantesimo anno di età del figlio alla sua morte a ottant’anni, l’importo ammonterebbe a Euro 676.000.

4.4 I genitori, inoltre, dovrebbero effettuare “una drastica riduzione” dei propri orari di lavoro per assistere il figlio: ciò comporterebbe una perdita economica di Euro 300 mensili per ognuno, e dunque Euro 3120 annui, per almeno quindici anni (la distanza dall’età pensionabile) per un totale di Euro 46.800 di dovuto risarcimento.

5. Possono essere vagliati congiuntamente, in quanto plasmati nella medesima sostanza, i motivi del ricorso principale, i primi due motivi del ricorso incidentale C. e i primi due motivi del ricorso incidentale T.- Azienda Ospedaliera.

5.1 Il primo motivo del ricorso principale e il primo motivo dei suddetti ricorsi incidentali vertono sulla L. n. 194 del 1978, art. 7, il quale stabilisce come segue: “Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui dell’art. 6, lett. a) e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. Questa norma è stata inequivocamente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità nel senso del requisito negativo (cfr. Cass. sez. 3, 4 gennaio 2010 n. 13, invocata nella censura: “Salvo il caso di grave pericolo di vita per la donna, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la gestante può esercitare il diritto all’aborto, ai sensi del combinato disposto della L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 6 e art. 7, comma 3, solo in presenza, tra l’altro, di una condizione negativa, costituita dall’insussistenza di possibilità di vita autonoma per il feto. Per possibilità di vita autonoma del feto si intende quel grado di maturità del feto che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dall’ambiente materno. Pertanto in una causa in cui si discute se la donna sia stata impedita ad interrompere la gravidanza dopo un inadempimento del medico ad una sua obbligazione professionale, l’eventuale interrogativo concernente la possibilità di vita autonoma del feto va risolto avendo riguardo al grado di maturità raggiunto dal feto nel momento in cui il medico ha mancato di tenere il comportamento che da lui ci si doveva attendere.”; conforme Cass. sez. 3, 10 maggio 2002 n. 6735; e v. pure Cass. sez. 3, 1 dicembre 1998 n. 12195).

5.2 Ora, è indiscusso che la corte territoriale si è riferita all’art. 6, lett. b), – “grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” – e non alla lett. a) dello stesso articolo, cioè il “grave pericolo per la vita della donna”.

Peraltro, è del tutto evidente che per escludere la sussistenza del requisito negativo di cui all’art. 7 – come i ricorsi ora prospettano – occorre allegare e provare uno specifico dato fattuale: la possibilità di vita autonoma già acquisita dal feto quando si sarebbe potuto e dovuto diagnosticarne la malformazione così da consentire alla informata gestante di esercitare o meno il diritto all’aborto.

Al contrario – seguendo il contenuto dei ricorsi, in applicazione del principio di autosufficienza – ciò non risulta essere stato addotto nei giudizi di merito dai ricorrenti che lo pongono attualmente come base della censura; nè risulta, sempre si evince da quanto è esposto nei ricorsi, che sia stata chiesta o tantomeno espletata alcuna attività probatoria al riguardo: ovvero – si ripete per dimostrare che, quando la gestante avrebbe potuto ricevere l’informazione ed esercitare il conseguente diritto, il feto avesse, nel caso concreto in esame, già raggiunto la possibilità di vita autonoma. Il thema decidendum, invece, si è concretizzato esclusivamente sulla diagnosi della malformazione – id est sulla percepibilità o meno della malformazione mediante gli esami diagnostici effettuati durante la gravidanza – e sulla inclinazione della gestante, se la diagnosi fosse avvenuta, ad abortire.

5.3 L’allegazione fattuale non può d’altronde essere addotta per la prima volta, quale presupposto dell’applicazione dell’art. 7, al giudice di legittimità.

E’ pertanto insufficiente anche quanto addotto nel ricorso T. – Azienda, per cui si trattava “di feto avente possibilità di vita autonoma (poichè presentava una spina bifida chiusa, operabile e comunque non comportante alcun rischio di non sopravvivenza)”: non viene indicato, infatti, in quali atti questo sarebbe stato dai ricorrenti quantomeno addotto davanti ai giudici di merito.

In assenza della precedente proposizione del profilo della già acquisita possibilità di vita autonoma al momento della diagnosi raggiunta e del relativo accertamento, dunque, questo primo gruppo di motivi integra un novum, con conseguente inammissibilità.

6. Il secondo motivo del ricorso principale e il secondo motivo dei ricorsi incidentali si accomunano nel censurare la decisione del giudice d’appello quanto all’applicazione della prova presuntiva.

In realtà, ictu oculi il riferimento alla normativa che governa la prova presuntiva è uno schermo con il quale si tenta di celare la natura inammissibilmente fattuale di queste due censure, che si dirigono chiaramente verso una ricostruzione alternativa della vicenda, perseguendo così una revisione del merito da parte del giudice di legittimità.

Il ricorso principale risulta, in conclusione, inammissibile.

Occorre a questo punto esaminare i restanti motivi dei ricorsi incidentali C. e T. – Azienda Ospedaliera.

7.1.1 Prendendo le mosse dal ricorso C., si osserva che il terzo motivo lamenta la mancanza di prova di colpa lieve, ai fini dell’applicazione dell’art. 2236 c.c., in capo alla C., adducendo che quello diagnostico nel caso in specie costituiva un “problema tecnico di speciale difficoltà” e richiamando al riguardo chiarimenti del consulente d’ufficio Ma., nonchè le vicende ospedaliere del neonato, che dimostrerebbero che la malformazione non fu diagnosticata precocemente anche dopo il parto per la sua difficoltà ad essere visualizzata; si contesta poi il giudizio di probabilità della visione ecografica della tumefazione espresso dal suddetto consulente per la diversa opinione dei periti nominati dal PM, per concludere, infine, che, “per quanto esposto documentato”, la diagnosi non sarebbe stata attuabile neppure nelle tre ultime ecografie eseguite dalla C.. Per questo il giudice d’appello, esaminando correttamente “tutte le risultanze processuali in fatto ed in diritto” e rispettando gli artt. 1218 e 2236 c.c., avrebbe dovuto concludere che la diagnosi era difficile, se non impossibile, pena la configurazione di una responsabilità oggettiva del medico.

E’ evidente che, anche se nella parte finale la censura tenta di rientrare nei binari di una doglianza in termini di diritto, la sua sostanza è rinvenibile in una valutazione alternativa fattuale sulla possibilità, da parte della C., di diagnosticare la malformazione, in particolare criticando il passo motivazionale per cui la responsabilità della ricorrente sarebbe stata, secondo il giudice d’appello, l’avere tranquillizzato la I. escludendo malformazioni e non consentendole di valutare i rischi o praticare altre opzioni diagnostiche”.

Si tratta, quindi, di una censura inammissibile, che avrebbe potuto proporsi solo come motivo di gravame, non giungendo infatti a identificare violazione e/o falsa applicazione degli invocati gli artt. 2236 e 1218 c.c. e attestandosi, in realtà, nella critica dell’accertamento di merito che la corte territoriale ha espletato alla luce del compendio probatorio quale presupposto della successiva applicazione di tali norme.

7.1.2 Meramente ad abundantiam, a questo punto, si osserva che il giudice d’appello ha anche evidenziato, specificamente per la posizione della C., che “proprio gli assunti limiti diagnostici delle prestazioni rese avrebbero dovuto, a fronte delle preoccupazioni espresse dalla I., indurre responsabilmente la C. a informarla delle approssimazioni diagnostiche e dei rischi comunque che le modalità e le tecniche di accertamento adottate implicavano” – rilievo, questo, che è posto come logica premessa del passo riportato nel motivo -. E la censura tace del tutto in ordine all’obbligo di informazione della non affidabilità degli strumenti di controllo applicati, limitandosi ad argomentare fattualmente nel senso che non era possibile diagnosticare; ma proprio questo, se davvero così fosse stato, avrebbe dovuto imporre alla C., al contrario di tranquillizzare, di avvisare la I. che gli strumenti diagnostici non potevano affatto escludere i rischi da lei paventati (ed è pacifico che la I. aveva manifestato la sua preoccupazione per la presenza in famiglia di una parente affetta da una severa patologia neurologica).

7.2.1 Il quarto motivo, nella rubrica denunciante violazione dell’art. 1917 c.c., dapprima lamenta che il giudice d’appello, dopo avere correttamente riconosciuto il diritto della ricorrente di essere manlevata dalla sua compagnia assicuratrice, avrebbe errato nel compensare le spese del grado di giudizio tra lei e gli altri appellati, tra i quali proprio la sua assicuratrice Generali Italia.

Richiama Cass. sez. 3, 11 settembre 2014 n. 19176 (massimata come segue: “Nell’assicurazione per la responsabilità civile, la costituzione a difesa dell’assicurato, a seguito dell’instaurazione del giudizio da parte di chi assume di aver subito danni, è svolta anche nell’interesse dell’assicuratore, ritualmente chiamato in causa, in quanto finalizzata all’obiettivo ed imparziale accertamento dell’esistenza dell’obbligo di indennizzo. Ne consegue che, pure nell’ipotesi in cui nessun danno venga riconosciuto al terzo che ha promosso l’azione, l’assicuratore è tenuto a sopportare le spese di lite dell’assicurato, nei limiti stabiliti dall’art. 1917 c.c., comma 3”) per giungere a sostenere, in conclusione, che il giudice d’appello avrebbe errato, compensando le spese processuali tra la ricorrente e Generali Italia, essendosi la difesa della C. svolta anche nell’interesse della sua compagnia assicuratrice.

7.2.2 Invero, l’arresto invocato nel motivo riguarda una fattispecie diversa, come si comprende esaminando la sua sintetica motivazione.

In quel caso, la parte ricorrente aveva lamentato, riferendosi all’art. 1917 c.c., ma anche all’art. 91 c.p.c., che il giudice di merito aveva accolto la sua domanda di garanzia senza però gravare la compagnia assicuratrice delle spese di entrambi i gradi per il rapporto tra questa e la ricorrente: dal dispositivo emergeva infatti che era stata accolta la domanda principale di tenere la ricorrente indenne dagli effetti pregiudizievoli della sentenza, anche per le sole spese liquidate a favore della parte danneggiata, “ma non anche quelle relative alle spese da sè sostenute per resistere all’azione risarcitoria”. E così aveva accertato il giudice di legittimità, constatando che il giudice di merito aveva condannato la parte danneggiata omettendo “di provvedere, nel rapporto assicurata/assicuratrice, sulle spese sostenute dalla prima per resistere all’azione risarcitoria” (su questa tematica v. pure Cass. sez. 3, 18 gennaio 2016 n. 667: “L’obbligazione dell’assicuratore della responsabilità civile di tenere indenne l’assicurato delle spese erogate per resistere all’azione del danneggiato ai sensi dell’art. 1917 c.c., comma 3, ha natura accessoria rispetto all’obbligazione principale e trova limite nel perseguimento di un risultato utile per entrambe le parti, interessate nel respingere la detta azione”; e cfr. Cass. sez. 3, 19 marzo 2015 n. 5479).

Senonchè, nel caso qui in esame, come si è visto il motivo alla fine approda nel censurare la sentenza laddove ha compensato le spese processuali del grado tra l’attuale ricorrente e la sua compagnia assicuratrice: si è pertanto censurata una pronuncia del tutto diversa da quella relativa al tenere indenne l’assicurata – entro i limiti di legge – dalle spese processuali sostenute per resistere all’azione risarcitoria. Il motivo quindi, a prescindere da ogni altra considerazione (come il fatto che nel caso de quo non si tratta di condanna alla rifusione, bensì di compensazione di spese) risulta infondato.

Il ricorso, in conclusione, deve essere rigettato.

8. Devono ora vagliarsi le restanti censure del ricorso T. – Azienda Ospedaliera.

8.1 Il terzo motivo è in effetti composto da due submotivi.

8.1.1 Il primo concerne la pretesa nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione o motivazione incomprensibile sulle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio riguardo l’attività del T., e si riferisce a un passo della sentenza (rinvenibile a pagina 8) ove ad un certo punto compare effettivamente un refuso che interrompe la linea logica e la comprensibilità del ragionamento.

Peraltro, contestualizzando questo periodo con la pagina precedente, e in riferimento anche all’esposizione resa a pagina 5 della censura proposta nel gravame, si “recupera” la comprensibilità: la responsabilità del T., secondo la corte territoriale, deriva dal fatto che egli agiva in un centro di elevata qualità, per cui avrebbe dovuto effettuare una verifica superiore; e comunque vi sarebbe stata un’ampia possibilità di accertamento (il 75%); e ancora, soprattutto, non sarebbero stati spiegati “i limiti degli accertamenti effettuati a fronte delle chiare preoccupazioni manifestate sin dalle prime ecografie” da I.D. – che aveva una parente gravemente affetta da una patologia neurologica -: il riferimento è evidentemente diretto all’assenza delle scansioni orizzontali, che avrebbero “facilitato” la visualizzazione nel caso, come quello de quo, di sede posteriore della sacca erniaria.

La corte territoriale offre poi un ulteriore argomento, da cui si deduce che la fonte di responsabilità sugli “assunti limiti diagnostici” contraddittoriamente il giudice di prime cure l’aveva riconosciuta a discapito della C., la quale condivisibilmente – aveva infatti osservato che la stessa fonte avrebbe dovuto generare responsabilità anche per il T. e la Azienda Ospedaliera (è evidente che qui si interseca pure la questione della mancata informazione all’interessata dei limiti della verifica diagnostica effettuata, che consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte riconosce effettivamente fonte di responsabilità sanitaria).

Il primo submotivo risulta quindi infondato.

8.1.2 Il secondo submotivo, relativo alle pretese “ipotesi del tutto empiriche e non ancorate alla realtà fattuale” come emergente dalla consulenza tecnica d’ufficio adottate dal giudice d’appello, è direttamente fattuale e quindi inammissibile, o, al più, riconducibile alla fattispecie di motivazione insufficiente nel senso dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo previgente.

Si nota ad abundantiam che la censura non tiene conto neppure dell’elemento specifico del livello alto del centro e dell’ulteriore elemento specifico della denunciata parentela con una persona affetta da severa patologia neurologica.

8.2 Il quarto motivo è la sostanziale riproposizione del motivo precedente nella parte relativa al discostamento dalla consulenza tecnica d’ufficio che non sarebbe motivata, per cui vale quanto si è osservato a proposito del secondo submotivo presente nella terza censura.

8.3 Il quinto motivo è palesemente infondato, in quanto la motivazione sussiste, ictu oculi rispettando il minimum costituzionale.

. La censura, per di più, a ben guardare, inammissibilmente espande le sue argomentazioni anche in via diretta sul piano del merito.

In conclusione, pure questo ricorso incidentale merita rigetto.

9. Rimane da esaminare l’unico motivo del ricorso incidentale I. – V..

In primis, deve rimarcarsi che è palesemente infondato l’asserto che del danno non patrimoniale patito dai genitori la sussistenza possa rinvenirsi in re ipsa, ogni danno dovendo essere allegato e provato, pur essendo la dimostrazione effettuabile anche per via presuntiva, via che più di frequente si percorre in alcuni tipi di danno. Sotto questo profilo, dunque, il motivo è infondato.

Per il resto della censura, tutto quanto asserito a proposito del danno non patrimoniale subito dai genitori del minore I.D. e Vi.Ad. ictu ocull si appalesa direttamente fattuale e quindi in questa sede inammissibile.

Il motivo include pure un’ulteriore critica fattuale e in gran parte riguardante i danni che sarebbero subiti direttamente dal figlio per quello che gli accadrebbe nel periodo successivo alla morte dei genitori: anche qui l’inammissibilità emerge con assoluta evidenza, assorbendo ogni altro profilo.

Anche questo ricorso deve essere pertanto rigettato.

10. In conclusione, il ricorso principale è inammissibile e tutti i ricorsi incidentali devono essere rigettati, con compensazione per il grado delle spese relative a tutti i rapporti processuali.

Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di tutti i ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il rispettivo ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta i ricorsi incidentali, compensando tutte le spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il rispettivo ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 20 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

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