Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25153 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. III, 10/11/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 10/11/2020), n.25153

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28790/2019 proposto da:

A.C.B., elettivamente domiciliato in Roma Via

Chisimaio, 29, presso lo studio dell’avvocato Marilena Cardone, che

lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO

PROTEZIONE INTERNAZIONALE ROMA;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA n. 15822/2019, depositato il

05/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/07/2020 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. – Con ricorso affidato a tre motivi, A.C.B., cittadino (OMISSIS), ha impugnato il decreto del Tribunale di Roma, reso pubblico in data 5 giugno 2019, che ne rigettava l’opposizione avverso la decisione della competente Commissione territoriale che, a sua volta, ne aveva respinto la richiesta di protezione internazionale volta ad ottenere, in via gradata, il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria.

1.1. – A sostegno dell’istanza il richiedente aveva dedotto di essere stato costretto a lasciare il Paese d’origine (dove ancora risiedevano la moglie e i tre figli) per il timore di essere perseguitato dapprima dallo zio (il quale asseriva di aver provocato la morte dei suoi genitori, deceduti in un incidente stradale) al fine di ottenere un terreno di valore, e, quindi, dai cugini (dopo la morte dello zio avvenuta a seguito di colluttazione con esso richiedente), i quali, appartenenti ad un pericolosa setta (c.d. (OMISSIS)), avevano anche ucciso per avvelenamento l’unico suo fratello.

2. – Il Tribunale, per quanto in questa sede ancora rileva, osservava che: a) le allegazioni del richiedente non integravano affatto i presupposti di legge della situazione persecutoria atta al riconoscimento dello status di rifugiato; b) la vicenda narrata (sia davanti alla Commissione, che in sede di audizione giudiziale), avente “connotazioni privatistiche”, in assenza di allegazioni sulla “mancanza di protezione da parte delle autorità” e in costanza di una situazione di inattualità del contenzioso sulla terra e di mancanza di documentazione circa “un’incriminazione in suo danno per la morte dello zio”, portava ad escludere la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); c) la protezione sussidiaria di cui del citato art. 14, lett. c), non poteva essere riconosciuta in quanto, sulla base del “rapporto COI 2019 sulla Nigeria”, soltanto nella zona del nord-est vi erano condizioni persistenti di violenze (da parte di (OMISSIS) e con gravi abusi di diritti umani anche da parte delle milizie governative e paramilitari), ma non vi era una situazione di rischio di grave danno derivante da violenza indiscriminata nell’Abia State, zona di origine del richiedente, e neppure a Lagos dove il medesimo si era trasferito con la famiglia; d) non poteva essere riconosciuta la protezione umanitaria, non avendo il richiedente – “che ha moglie e figli nel paese di origine” – “dedotto nè allegato la mancanza di protezione da parte delle autorità statuali per far fronte alle minacce dei cugini”, nè “evidenziato ragioni particolari di specifica vulnerabilità” e di “possibile compromissione di diritti umani fondamentali”, non rappresentando la sua vicenda personale “un rischio specifico in caso di rimpatrio”, nè emergendo “attuali fragilità per motivi di salute”.

3. – L’intimato Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva, depositando unicamente “atto di costituzione” al fine di eventuale partecipazione ad udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e/o falsa del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4 e art. 7, non avendo il Tribunale, in punto di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), tenuto in considerazione le dichiarazioni dettagliate e congrue del richiedente, fornendo sul diniego della protezione richiesta una motivazione “meramente tautologica e contrastante con gli specifici atti del procedimento”, altresì ignorando le deduzioni in punto di conseguenze di tipo persecutorio e di pericolo di vita che avrebbe comportato il rientro nel Paese di origine di esso richiedente.

1.1. – Il motivo è infondato in tutta la sua articolazione.

1.1.1. – Quanto al rigetto della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, si palesa corretta la motivazione in diritto resa dal Tribunale in quanto volta a verificare la specifica posizione del richiedente e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psicofisica (Cass. n. 30105/2018).

Il relativo accertamento, integrando un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è stato attinto da censure congruenti con il paradigma legale del vizio di omesso esame di “fatto storico” discusso e decisivo (nei termini indicati da Cass., S.U., n. 8053/2014).

1.1.2. – Quanto al rigetto della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), il Tribunale – nel rilevare il carattere privatistico della vicenda narrata dal richiedente e l’assenza di allegazioni a supporto della stessa (cfr. sintesi nel “Rilevato che” e p. 3 del decreto) – ha pronunciato in armonia con il principio di diritto secondo cui, quando si alleghi un fatto riconducibile all’azione di privati, suscettibile di rilevare ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), l’onere di allegazione del richiedente deve essere adempiuto in termini sufficientemente specifici, non potendosi, in mancanza, attivare l’obbligo di integrazione istruttoria officiosa D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27 (Cass. n. 8930/2020, Cass. n. 3016/2019).

2. – Con il secondo mezzo è dedotta “violazione e/o falsa di norma di diritto D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8”, per aver il Tribunale omesso la cooperazione istruttoria “in ordine all’accertamento della situazione oggettiva del paese di origine” ai fini della verifica delle condizioni utili per il riconoscimento della protezione sussidiaria e di quella umanitaria, errando nel ritenere che nella zona di provenienza di esso richiedente “non ci sarebbe violenza generalizzata”, essendo ciò smentito da fonti attendibili del 2016/2018, nonchè omettendo di considerare la situazione persecutoria dedotta e quella di integrazione di esso richiedente in Italia.

2.1. – Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

Il Tribunale ha esaminato la situazione fattuale della realtà sociopolitica del Paese di provenienza del ricorrente, escludendo la sussistenza di una violenza indiscriminata sulla base di fonti accreditate e recenti, nonchè specificatamente individuate nel decreto impugnato (rapporto COI 2019 sulla Nigeria, p. 4 del decreto).

Per il resto, la censura è volta sostanzialmente a sollecitare un nuovo giudizio di fatto, non consentito in questa sede di legittimità, peraltro svolgendo critiche non affatto congruenti rispetto all’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito, giacchè le deduzioni del ricorrente non solo sono affatto generiche (e non calibrate rispetto al decisum), ma si fondano altresì su fonti precedenti a quelle utilizzate dallo stesso Tribunale.

3. – Con il terzo mezzo è prospettata, “ex art. 360 c.p.c.”, la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, non avendo il Tribunale compiuto la necessaria comparazione tra la situazione di vulnerabilità di esso richiedente nel Paese di origine e la situazione di integrazione del medesimo in Italia.

3.1. – Il motivo è infondato.

Il Tribunale ha motivato adeguatamente in punto di insussistenza di una situazione di vulnerabilità del ricorrente nel caso di rimpatrio nel suo Paese di origine (cfr. sintesi nel “Rilevato che” e pp. 4/5 del decreto), là dove le critiche mosse dal ricorrente si palesano affatto generiche e non pertinenti rispetto all’impianto argomentativo del decreto impugnato.

Sicchè, una volta esclusa la sussistenza di una condizione di vulnerabilità, il giudice di merito ha ritenuto di non tener conto dell’integrazione socio-lavorativa raggiunta del richiedente data l’insufficienza di tale fattore, da solo considerato, a giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, operando quale presupposto e non quale fattore esclusivo (Cass., S.U., n. 29459/2019).

4. – Ne consegue il rigetto del ricorso.

Non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva della parte intimata.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

 

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