Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25149 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. III, 10/11/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 10/11/2020), n.25149

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30193/2019 proposto da:

O.I., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO

38, presso lo studio dell’avvocato MARCO LANZILAO, che lo

rappresenta e difende per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ex lege;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 03/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/07/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

O.I., cittadino della (OMISSIS), propone ricorso nei confronti del Ministero dell’Interno, articolato in due motivi, avverso il Decreto n. 16375/2019 del Tribunale di Roma, pubblicato in data 3 settembre 2019, con il quale il tribunale, previa audizione del ricorrente, ha negato lo status di rifugiato e ha ritenuto non sussistere il suo diritto nè alla protezione sussidiaria nè alla protezione umanitaria.

In particolare, il tribunale rilevava che la situazione del paese di provenienza del ricorrente era in via di miglioramento e non tale da poter ritenere sussistente una situazione di rischio generalizzato per la popolazione. Rilevava altresì la genericità della narrazione della vicenda personale da parte del ricorrente. Quanto alla richiesta protezione umanitaria, deduceva che il ricorrente non avesse neppure allegato alcuna specifica ragione di vulnerabilità.

Il Ministero ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Il ricorrente, proveniente dalla Nigeria, non riferisce neppure, nella parte introduttiva del ricorso dedicata alla sommaria esposizione del fatto, la sua vicenda personale, ma passa direttamente all’esposizione dei motivi.

Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente deduce la violazione di norme di diritto, denunciando la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14, nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, il difetto di motivazione ed il travisamento dei fatti, per aver la corte d’appello escluso il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria in modo disancorato dal contesto socioeconomico della Nigeria.

Nella succinta illustrazione del motivo, peraltro, il ricorrente denuncia l’esistenza di una motivazione solo apparente, priva di effettiva argomentazione se non a mezzo di affermazioni apodittiche, contenuta nella decisione del tribunale di negare al ricorrente il diritto al riconoscimento della protezione umanitaria.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dell’art. 19 del medesimo Decreto nonchè la violazione dell’art. 10 Cost., la mancanza del giudizio di comparazione, l’omesso esame delle fonti relative alla situazione socio-economica della Nigeria.

Segnala che non sia stata compiuta adeguatamente la valutazione comparativa, e che sia stato trascurato che la Nigeria ospita il più gran numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema. Segnala che la condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa.

Sottolinea che la ratio della protezione umanitaria sia quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo dei diritti della persona che integrino la dignità umana.

Aggiunge che solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa può ed anzi deve essere valutata, come fattore di rilevo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità.

E ribadisce che è necessaria una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio.

Esprime una critica diretta sulla conclusione cui è pervenuto il tribunale nel ritenere che la protezione umanitaria non potesse essere concessa al ricorrente in quanto la sua vicenda personale non presentava profili di vulnerabilità, nè sotto il profilo della condizione di menomata dignità vissuta in patria nè in riferimento alla sua condizione personale. Ritiene che il tribunale sia pervenuto alla conclusione negativa perchè non ha fatto corretto esercizio del proprio dovere di cooperazione istruttoria. Lamenta che non abbia completato l’indagine socio politica della Nigeria, limitandosi a verificare la condizioni nella regione dell’Edo State, e ad escludere, sulla base dei rapporti Easo, che la predetta regione sia tra quelle maggiormente minacciate da attacchi terroristici, senza considerare i dati generali ed in particolare le condizioni di povertà del paese, le disuguaglianze, la sostanziale inesistenza del sistema di welfare.

I due motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi.

Essi sono inammissibili.

Il primo, sotto una rubrica più idonea a denunciare la violazione di legge in relazione alla mancata concessione della protezione sussidiaria, anzichè umanitaria, inizia a sviluppare, lasciandole appena abbozzate, le argomentazioni del secondo motivo. Dopo una accurata ricostruzione dei caratteri del giudizio di comparazione, il ricorso si disperde nella totale genericità, in quanto non si confronta affatto con la sentenza impugnata, nè pone a confronto la specificità dei contenuti dei propri motivi con la asserita apoditticità della decisione di rigetto.

Non precisa minimamente come si sia sviluppato il suo percorso di integrazione in Italia, se esso sia stato esposto al giudice di merito, se sia stato documentato ed illegittimamente non preso in considerazione.

Le censure sono quindi inammissibili in quanto generiche, non rapportate nè con il contenuto della pronuncia, che non è mai richiamato, per sottoporlo a revisione critica, neanche per sommi capi, nè tanto meno con la situazione personale del ricorrente, al di là del singolo motivo che lo ha spinto ad espatriare, ritenuto dal tribunale un mero motivo soggettivo (il timore di essere perseguitato da un gruppo di persone che minacciavano il fratello per via di un culto – non meglio precisato – al quale questi aveva aderito) non suscettibile di essere posto a fondamento di una oggettiva condizione di vulnerabilità.

Il riferimento alla condizione personale del ricorrente, ed ai punti della pronuncia impugnata in cui essa non sarebbe stata adeguatamente presa in considerazione sono necessari, non perchè la Corte debba o possa in questa sede rinnovare il giudizio sulla presenza dei presupposti per il rilascio del permesso per ragioni umanitarie, ma perchè deve valutare se il giudice di merito sia effettivamente incorso nelle violazioni denunciate, omettendo di considerare non solo la condizione di pericolosità del paese di provenienza, ma il rischio di compressione dei diritti umani del richiedente e il percorso di integrazione seguito in Italia, ovvero per procedere ad un giudizio di comparazione non in astratto ma in concreto, in riferimento alla sua vicenda personale, in attuazione dei principi già più volte affermati da questa Corte: “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità persona/e, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass. n. 4455 del 2018, richiamata sul punto, quanto alla necessità di compiere il giudizio di comparazione secondo i criteri ivi indicati, da Cass. S. U. n. 29459 del 2019).

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis e comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

 

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