Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25148 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. III, 10/11/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 10/11/2020), n.25148

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29853/2019 proposto da:

U.S.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

COLLINA, 48, presso lo studio dell’avvocato ERMANNO PACANOWSKI, che

lo rappresenta e difende per procura spillata in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO

PROTEZIONE INT. ROMA, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ex lege;

– resistenti –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA, depositato il 29/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/07/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1. U.S.O., cittadino della (OMISSIS), propone ricorso nei confronti del Ministero dell’Interno, articolato in quattro motivi, notificato il 17.10.2019, avverso il Decreto n. 14557/2019 del Tribunale di Roma, pubblicato in data 29.7.2019, con il quale il tribunale, previa audizione del ricorrente, ha negato lo status di rifugiato e ha ritenuto non sussistere il suo diritto nè alla protezione sussidiaria nè alla protezione umanitaria.

2. – In particolare, il tribunale rilevava che la situazione del paese di provenienza del ricorrente era in via di miglioramento e non tale da poter ritenere sussistente una situazione di rischio generalizzato per la popolazione. Rilevava altresì la genericità della narrazione della vicenda personale da parte del ricorrente (sarebbe fuggito nel 2015 dalla sua regione di provenienza, l’Edo State, perchè minacciato da una banda criminale che voleva costringerlo a prendere il posto del fratello all’interno di essa). Quanto alla richiesta protezione umanitaria, deduceva che il ricorrente non avesse neppure allegato alcuna specifica ragione di vulnerabilità.

3. – Il Ministero ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

4. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente deduce la violazione della direttiva 2004/83 CE, recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007, ovvero la violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione alle dichiarazioni rese da parte del ricorrente, ed al mancato supporto probatorio.

Osserva che è opinione univoca che l’opposizione del D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, non costituisca un’impugnazione in senso tecnico e che il giudice debba svolgere, per obbligo di legge, un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, che nel caso di specie non sarebbe stato svolto.

In particolare, sostiene che i primi giudici, anzichè limitarsi ad affermare che il ricorrente non ha dimostrato ed allegato la condizione che lo ha portato all’espatrio, avrebbero dovuto indicargli “quali documenti allegare, ovvero cosa dovesse dimostrare e non ha dimostrato, o acquisire d’ufficio i mezzi di prova che ritenevano necessari ai fini del decidere, ovvero indicare alla parte le prove ritenute rilevanti e non prodotte e, solo all’esito di una carente e/o insufficiente integrazione, avrebbero potuto rigettare il ricorso”.

Il motivo è inammissibile.

In primo luogo, il ricorrente non precisa chiaramente a quale delle protezioni richieste si riferisca, o se si riferisca ad una carenza che si riverbera su entrambe.

Come emerge dalla lettura del provvedimento impugnato, l’attività istruttoria anche ufficiosa è stata svolta, avendo il tribunale assunto le informazioni documentali di cui dà conto a pagina 2. Nè la cooperazione istruttoria, il cui obbligo la legge pone in questi procedimenti in capo al giudice, in ragione della diffusa difficoltà per i ricorrenti di attingere alle fonti necessarie per supportare di prove secondo i criteri ordinari il loro racconto, può estendersi, come sembra ritenere il ricorrente, fino ad una sostanziale sostituzione del giudice alla parte nell’adempimento allo stesso onere di allegazione e poi nella prova della Vicenda personale. La cooperazione istruttoria, invocabile in riferimento a tutte le domande di protezione internazionale, prevede un dovere del giudice di attivarsi per ricostruire, anche d’ufficio, attingendo a fonti ufficiali e aggiornate, il contesto del paese di provenienza, in riferimento ai valori fondamentali che con le rispettive domande si assumono violati.

Con il secondo motivo si denuncia l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni in giudizio relative alla valutazione delle condizioni del paese di origine del ricorrente.

Sostiene che non si è sufficientemente considerato che il timore della persecuzione, rilevante al fine della concessione dello status di rifugiato, può essere determinato anche da persecuzioni da parte di soggetti terzi, siano essi la famiglia o altri, quando i soggetti deputati a proteggere il cittadino non possano o non vogliano offrire protezione.

Ribadisce che la Nigeria, anche nella regione dell’Edo State, sia caratterizzata da una violenza indiscriminata, e sostiene di esser dovuto fuggire per il rischio effettivo di subire una persecuzione, determinata da “ragioni politiche, religiose, razziali o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale…”.

Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia la mancata concessione della protezione sussidiaria cui avrebbe avuto diritto in ragione delle attuali condizioni socio-politiche del paese di origine, ovvero la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in virtù del quale la protezione sussidiaria deve essere concessa in presenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato interno o internazionale.

Sia il secondo che il terzo motivo sono inammissibili, in quanto volti a rimettere in discussione la valutazione in fatto sottesa al diniego della protezione sussidiaria.

Il decreto impugnato compie la sua valutazione, citando fonti attendibili ed aggiornate al momento della decisione ed esclude, con valutazione in fatto non in questa sede rinnovabile, che in Nigeria – ed in particolare nella zona dell’Edo State di provenienza del ricorrente – sia esistente attualmente una situazione di violenza indiscriminata, pur esistendo una instabilità politica e condizioni socio economiche non ottimali. Il Tribunale ha inoltre dato rilievo alla circostanza che la vicenda raccontata fosse esclusivamente privata, non sussumibile sotto alcuna delle forme di protezione. Le considerazioni contenute nel secondo e terzo motivo di ricorso sono del tutto astratte e inidonee a superare la motivazione sulle condizioni del paese ai fini della protezione sussidiaria.

Infine, con il quarto ed ultimo motivo, il ricorrente denuncia la errata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione alla mancata concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Sostiene che nella vicenda in esame i giudici di prime cure non abbiano in alcun modo preso in considerazione il grado di integrazione sociale del ricorrente e le precarie condizioni socio-economiche del paese di provenienza.

La censura è inammissibile in quanto generica, non rapportata nè con il contenuto della pronuncia, che non è mai richiamato, per sottoporlo a revisione critica, neanche per sommi capi, nè tanto meno con la situazione personale del ricorrente, al di là del singolo motivo che lo ha spinto ad espatriare, ritenuto dal tribunale un mero motivo soggettivo (il timore di essere perseguitato da un gruppo di persone che volevano farlo inserire, al posto del fratello, in una banda criminale) non suscettibile di essere posto a fondamento di una oggettiva condizione di vulnerabilità.

In particolare, il motivo di ricorso non si confronta sull’affermazione fondante il rigetto della domanda di protezione umanitaria, contenuta nel provvedimento impugnato, secondo la quale non sarebbero state neppure allegate situazioni di vulnerabilità.

Va puntualizzato che il riferimento alla condizione personale del ricorrente, ed ai punti della pronuncia impugnata in cui essa non sarebbe stata adeguatamente presa in considerazione sono necessari, non perchè la Corte debba o possa in questa sede rinnovare il giudizio sulla presenza dei presupposti per il rilascio del permesso per ragioni umanitarie, ma perchè deve valutare se il giudice di merito sia effettivamente incorso nelle violazioni denunciate, omettendo di considerare non solo la condizione di pericolosità del paese di provenienza, ma il rischio di compressione dei diritti umani del richiedente e il percorso di integrazione seguito in Italia, ovvero per procedere ad un giudizio di comparazione non in astratto ma in concreto, in riferimento alla sua vicenda personale, in attuazione dei principi già più volte affermati da questa Corte: “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass. n. 4455 del 2018, richiamata sul punto, quanto alla necessità di compiere il giudizio di comparazione secondo i criteri ivi indicati, da Cass. S. U. n. 29459 del 2019).

Da ultimo, il ricorrente prospetta l’eccezione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, come modificato dal D.L. n. 13 del 2017, art. 6, in relazione agli artt. 3,24,111 e 113 Cost., per aver eliminato in riferimento ai ricorsi concernenti la protezione internazionale il mezzo di impugnazione ordinaria, ovvero l’appello, prevedendo esclusivamente la possibilità di esperire per l’ipotesi in cui sussistano vizi di legittimità, il ricorso per cassazione.

La questione è stata già più di una volta sollevata davanti a questa Corte e ritenuta manifestamente infondata, da ultimo da Cass. n. 27700 e 28119 del 2018 (“E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che il procedimento per l’ottenimento della protezione internazionale è definito con decreto non reclamabile in quanto è necessario soddisfare esigenze di celerità, non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado ed il procedimento giurisdizionale è preceduto da una fase amministrativa che si svolge davanti alle commissioni territoriali deputate ad acquisire, attraverso il colloquio con l’istante, l’elemento istruttorio centrale ai fini della valutazione della domanda di protezione”). La valutazione di manifesta infondatezza della questione relativa alla soppressione dell’appello, va in questa sede confermata.

In primo luogo, come è noto, il principio del doppio grado di giurisdizione è privo di copertura costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 80 e 395 del 1988; n. 543 del 1989; n. 433 del 1990; n. 438 del 1994). Ed in effetti, il principio del doppio grado non opera affatto in una pluralità di ipotesi, già nel procedimento di cognizione ordinaria, e ciò non soltanto nel caso delle controversie destinate a svolgersi in unico grado: si pensi alle numerose ipotesi estranee alla previsione degli artt. 353-354 c.p.c., in cui il giudice di appello deve, per la prima volta in tale sede, decidere il merito della controversia; al caso della (fondata) denuncia in appello del vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado; al caso della domanda correttamente non esaminata dal primo giudice perchè dichiarata assorbita; al caso del ricorso per cassazione per saltum, ecc.. A maggior ragione il legislatore può sopprimere l’impugnazione in appello al fine di soddisfare specifiche esigenze, come in particolare quella della celerità che è decisiva per i fini del riconoscimento della protezione internazionale.

Con specifico riguardo a quest’ultima, se per un verso non può mancare di considerarsi il rilievo primario del diritto in contesa, deve per altro verso sottolinearsi, ai fini della verifica della compatibilità costituzionale della eliminazione del giudizio di appello, che il ricorso in esame è preceduto da una fase amministrativa, destinata a svolgersi dinanzi ad un personale specializzato, nell’ambito del quale l’istante è posto in condizioni di illustrare pienamente le proprie ragioni attraverso il colloquio destinato a svolgersi dinanzi alle Commissioni territoriali, di guisa che la soppressione dell’appello si giustifica anche per il fatto che il giudice è chiamato ad intervenire in un contesto in cui è stato già acquisito l’elemento istruttorio centrale – per l’appunto il detto colloquio – per i fini dello scrutinio della fondatezza della domanda di protezione, il che concorre a far ritenere superfluo il giudizio di appello.

Il ricorso va pertanto dichiarato complessivamente inammissibile.

Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis e comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

 

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