Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25146 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. III, 10/11/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 10/11/2020), n.25146

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29517/2019 proposto da:

I.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 38,

presso lo studio dell’avvocato MARCO LANZILAO, che lo rappresenta e

difende per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO

PROTEZIONE INTERNAZIONALE ROMA;

– intimato –

MINISTERO DELL’INTERNO COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO

PROTEZIONE INTERNAZIONALE Frosinone;

– intimato –

MINISTERO DELL’INTERNO, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ex lege;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 03/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/07/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

I.B., cittadino della (OMISSIS), propone ricorso nei confronti del Ministero dell’Interno, articolato in due motivi, notificato il 26.9.2019, avverso il Decreto n. 16239/2019 del Tribunale di Roma, pubblicato in data 3.7.2019, con il quale il tribunale, previa audizione del ricorrente, ha negato lo status di rifugiato e ha ritenuto non sussistere il suo diritto nè alla protezione sussidiaria nè alla protezione umanitaria.

In particolare, il tribunale rilevava che la situazione del paese di provenienza del ricorrente fosse in via di miglioramento e non tale da poter ritenere sussistente una situazione di rischio generalizzato per la popolazione. Ricostruiva la vicenda personale del ricorrente (che affermava di essere originario della Nigeria, in particolare dell’Edo State, di aver vissuto nel villaggio di (OMISSIS), di aver lavorato come autista, di essere di religione cristiana, che si erano verificati scontri tra fazioni religiose sia a Benin city che nel suo villaggio, che tornando al villaggio, dopo un viaggio di lavoro, aveva trovato la casa distrutta e la sua famiglia scomparsa e per questo si era messo in viaggio attraverso la Libia).

Il decreto impugnato affermava altresì che, anche in tema di protezione internazionale, il processo sia retto dal principio dispositivo, e che il dovere di cooperazione istruttoria del giudice non incide sull’onere di allegazione della parte ma piuttosto opera attenuando l’onere probatorio.

Ciò detto, rilevava insanabili incongruenze e contraddizioni nel racconto personale del ricorrente, che ne inficiavano la credibilità personale e quindi portavano ad escludere che il ricorrente provenisse da una zona a rischio del paese.

Quanto alla richiesta protezione umanitaria, il tribunale affermava, richiamando Cass. n. 32213 del 2018, che la situazione di vulnerabilità non può incentrarsi solo sulla sussistenza di una fortissima sproporzione tra le condizioni di vita presenti nel paese di partenza e quelle correnti nel paese di accoglienza e rigettava la domanda volta all’ottenimento del permesso per ragioni umanitarie affermando che non fossero state offerte dall’istante – che non aveva ancora una occupazione regolare in Italia – specifiche allegazioni in merito ad una condizione di povertà inemendabile o all’impossibilità di soddisfare esigenze primarie di sopravvivenza in patria in violazione dei suoi diritti fondamentali.

Il Ministero ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Con il primo motivo si denuncia l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione delle condizioni del paese di origine del ricorrente.

Si sostiene che il decreto si sia limitato ad affermare l’esistenza di contraddizioni, senza considerare che esse potevano essere dovute ad una imperfetta traduzione, e senza considerare altresì che la persecuzione per motivi etnici in Nigeria viene tollerata dalle autorità e pertanto l’esistenza di violenza da parte dell’etnia dei Fulani è atta a travalicare l’ambito familiare.

Non si è sufficientemente considerato, nella ricostruzione del ricorrente, che il timore della persecuzione, rilevante al fine della concessione dello status di rifugiato, può essere determinato anche da persecuzioni da parte di soggetti terzi, siano essi la famiglia o altri, quando i soggetti deputati a proteggere il cittadino non possano o non vogliano offrire protezione.

Si prospetta, poi che la Nigeria, anche nella regione dell’Edo State, sarebbe caratterizzata da una violenza indiscriminata, e si dice che il ricorrente sia dovuto fuggire per il rischio effettivo di subire una persecuzione, determinata da “ragioni politiche, religiose, razziali o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale…”.

Il motivo è inammissibile.

Il decreto impugnato compie la sua motivata valutazione, facendo riferimento a fonti attendibili ed aggiornate al momento della decisione ed esclude, con valutazione in fatto non in questa sede rinnovabile, che in Nigeria – ed in particolare nella zona dell’Edo State di provenienza del ricorrente sia esistente attualmente una situazione di violenza indiscriminata, pur riconoscendo l’esistenza di instabilità politica e condizioni socio-economiche non ottimali.

Quand’anche si volesse riqualificare il motivo in termini di denuncia di una violazione di legge, peraltro non indicata, in ogni caso esso non individua le allegazioni di cui non si sarebbe tenuto conto, sulle quali ragiona nella intestazione.

Con il secondo motivo, si denuncia la nullità della sentenza o del procedimento, per violazione del potere-dovere officioso del giudice di acquisire informazioni e documenti rilevanti e quindi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e della direttiva 2004/83 CE, recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007, nonchè il contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili. Si contesta sostanzialmente che la decisione si sia appiattita sulla valutazione di non credibilità già formulata dalla Commissione, senza considerare affatto il contenuto della pur espletata audizione.

Le affermazioni inconciliabili invece sarebbero quelle secondo le quali da un lato si riconosce l’esistenza, in Nigeria, di una instabilità politica e di un insufficiente rispetto dei diritti umani, ma per l’altro si nega il diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

Il secondo motivo è anch’esso inammissibile. Quanto alla prima censura, viola totalmente l’art. 366 c.p.c., n. 6, giacchè non riferisce nemmeno indirettamente quali erano state le dichiarazioni rese all’ausiliario delegato e comunque, proprio per ciò denuncia un vizio processuale riguardo al quale difetta la indicazione di decisività richiesta dell’art. 360-bis, n. 2 (Cass., n. 22341 del 2017, seguita da numerose conformi).

Con il terzo motivo di ricorso, in relazione alla richiesta protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. C), il ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, consistente nella condizione di pericolosità e nelle situazioni di violenza generalizzata esistenti in Nigeria.

Riporta a tale scopo informazioni tratte dal sito di Amnesty International e non meglio individuate nel tempo note del MAE, nonchè indicazioni tratte dal sito “(OMISSIS)” atte ad illustrare la pericolosità della situazione nel delta del Niger.

Esso lamenta nuovamente un vizio derivante da affermazioni inconciliabili e si diffonde, quindi, sulle condizioni dello Stato di Edo, senza considerare che il decreto incentra la sua valutazione a proposito dello status di rifugiato su un’ampia motivazione in ordine alla inattendibilità, che si conclude ricordando che la scarsa attendibilità del racconto nemmeno consentiva di ritenere che il ricorrente provenisse da zona insicura, sicchè ben si comprende come e perchè il tribunale capitolino non si sia soffermato sulle condizioni di quel particolare Stato della Nigeria.

Infine, con il quarto ed ultimo motivo (erroneamente rubricato 5), il ricorrente denuncia la errata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione alla mancata concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari nonchè la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, l’omessa applicazione dell’art. 10 Cost., l’omesso esame delle condizioni personali per l’applicabilità della protezione umanitaria e della necessaria comparazione tra la condizione raggiunta in Italia e la situazione socio-economica in Nigeria.

Sostiene che nella vicenda in esame i giudici di prime cure non abbiano in alcun modo preso in considerazione il grado di integrazione sociale del ricorrente e le precarie condizioni socio-economiche del paese di provenienza.

Conclusivamente, sostiene che il tribunale abbia violato il proprio dovere di cooperazione istruttoria perchè avrebbe dovuto verificare se dal complesso delle allegazioni del ricorrente, pur predisposte per il riconoscimento di status tipici, non emergesse invece l’esistenza di una condizione di vulnerabilità ed afferma che: “quindi, in caso di dubbio, il tribunale avrebbe dovuto attivarsi per completare l’istruttoria in merito agli elementi necessari a compiere la valutazione comparativa sopra descritta”. Il giudice avrebbe cioè dovuto, ad avviso del ricorrente, completare l’indagine socio-politica sulla Nigeria non limitandosi alle condizioni di violenza nella regione dell’Edo State, ma traendo anche dal pur esaminato rapporto Easo i dati relativi alla condizione di povertà diffusa nel paese africano e alla inesistenza di una struttura di welfare funzionante.

Quindi sottolinea che la valutazione sottostante alla concessione della protezione umanitaria è diversa rispetto a quella sottostante alla concessione della sussidiaria, perchè la ratio è quella di evitare che i cittadini stranieri possano essere esposti, a mezzo del loro forzato rientro in patria, a condizioni di vita inferiori al nucleo minimo dei diritti della persona atto a garantirne la dignità.

In generale, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile nel suo complesso, in quanto in riferimento a tutti i motivi in cui è articolato, ed in particolare al quarto, rimane astratto, cioè non si confronta con la decisione in concreto adottata, che è scrupolosamente motivata laddove non ritiene credibile che il ricorrente sia fuggito dal suo paese di origine per motivi di persecuzione religiosa, ed anche che nel paese di origine ed in particolare nella regione di provenienza esista una situazione di violenza indiscriminata. Quanto alla protezione umanitaria, all’esito del giudizio di comparazione, afferma che dagli elementi a disposizione, relativi alla condizione personale del ricorrente non emerga una sua personale, particolare condizione di vulnerabilità in caso di rimpatrio, nè il ricorrente illustra adeguatamente quali profili decisivi, pur allegati, sarebbero stati ignorati.

Va puntualizzato che il riferimento alla condizione personale del ricorrente, ed ai punti della pronuncia impugnata in cui essa non sarebbe stata adeguatamente presa in considerazione sono necessari, non perchè la Corte debba o possa in questa sede rinnovare il giudizio sulla presenza dei presupposti per il rilascio del permesso per ragioni umanitarie, ma perchè deve valutare se il giudice di merito sia effettivamente incorso nelle violazioni denunciate, omettendo di considerare non solo la condizione di pericolosità del paese di provenienza, ma il rischio di compressione dei diritti umani del richiedente e il percorso di integrazione seguito in Italia, ovvero per procedere ad un giudizio di comparazione non in astratto ma in concreto, in riferimento alla sua vicenda personale, in attuazione dei principi già più volte affermati da questa Corte: “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass. n. 4455 del 2018, richiamata sul punto, quanto alla necessità di compiere il giudizio di comparazione secondo i criteri ivi indicati, da Cass. S.U. n. 29459 del 2019).

Il ricorso va pertanto dichiarato complessivamente inammissibile.

Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis e comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

 

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