Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25144 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. III, 10/11/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 10/11/2020), n.25144

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28290/2019 proposto da:

C.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MACHIAVELLI,

50, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO PREZIOSI, che lo

rappresenta e difende per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ex lege;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 27/08/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/07/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1. C.B., cittadino della (OMISSIS), propone ricorso nei confronti del Ministero dell’Interno, articolato in due motivi, notificato il 26.9.2019, avverso il Decreto n. 16129/2019 del Tribunale di Roma, pubblicato e comunicato in data 27.8.2019, con il quale il tribunale, previa audizione del ricorrente, ha negato lo status di rifugiato e ha ritenuto non sussistere il suo diritto nè alla protezione sussidiaria nè alla protezione umanitaria. Dichiara di concentrare le sue censure con specifico riferimento alla denegata protezione umanitaria.

2. Il tribunale riteneva plausibile lo svolgersi di scontri interreligiosi tra musulmani di diverse fazioni che avrebbero portato all’assassinio di un imam e all’arresto di alcune persone, ma non plausibile, non soltanto per mancanza di prova, ma anche per la genericità dei riferimenti forniti dal ricorrente, il legame tra tale vicenda e la famiglia del ricorrente (in particolare ne sarebbe stato coinvolto il marito della madre, presidente di una associazione finalizzata a diffondere la cultura musulmana).

Escludeva il diritto alla protezione sussidiaria in relazione alle ipotesi previste del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non essendo documentato alcun ruolo del ricorrente nella associazione religiosa e quindi il rischio di eventuali ritorsioni ai suoi danni da parte del vicepresidente di essa.

Attivava il proprio dovere di cooperazione ufficiosa, e nondimeno escludeva il diritto del ricorrente alla protezione di cui all’art. 14, lett. c), non sussistendo in Costa d’Avorio, sulla base di informazioni aggiornate ed attendibili, una situazione di violenza indiscriminata o di conflitto armato.

Quanto alla protezione umanitaria, all’esito del giudizio di comparazione, paragonato il grado di integrazione raggiunto in Italia con il complessivo contesto economico di provenienza, escludeva in capo al ricorrente il rischio di proiezione in un contesto di assoluta privazione, qualora rimandato in patria, ove si sarebbe reinserito nell’attività lavorativa precedente insieme alla madre e alla sorella, autonome economicamente.

3. Il Ministero non ha notificato controricorso, ma ha depositato un atto di costituzione con cui si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

4. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

5. Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 1, artt. 8,13 e art. 737 c.p.c., nonchè la violazione dell’art. 606, comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Afferma che davanti al tribunale il Ministero non depositava il verbale dell’audizione davanti alla commissione territoriale nè la documentazione prodotta dal ricorrente e che il giudice di primo grado si sarebbe fondato, per formare il suo convincimento, solo sui fatti come riferiti nel provvedimento della Commissione territoriale, senza attingere alle fonti di prova.

Contesta la valutazione di non credibilità formulata dal tribunale, il quale, dopo aver ritenuto che fosse verosimile il verificarsi di scontri interreligiosi, ha ritenuto che non ci fosse alcuna prova di un coinvolgimento personale in essi del ricorrente.

In particolare, sostiene che:

a) Il tribunale ha fondato la sua valutazione solo sulla decisione della commissione;

b) così facendo, ha travisato la stessa decisione della commissione, che non ha mai affermato che la vicenda personale del ricorrente non fosse credibile ma ha affermato, al contrario, che questa fosse priva di riscontri documentali e comunque irrilevante ai fini della protezione.

Denuncia inoltre la violazione dei criteri di valutazione previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, avendo il ricorrente compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda.

Osserva che il rigetto della domanda volta all’ottenimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie è il frutto della non ritenuta credibilità del suo narrato, perchè se il tribunale avesse ritenuto convincente la sua narrazione della vicenda personale (ovvero l’uccisione del padre e del fratello, il rischio di essere arrestato e sottoposto a trattamenti inumani e degradanti) il secondo termine di comparazione sarebbe stato ricostruito diversamente, e l’esito del giudizio sarebbe stato differente.

6. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 8 Cedu, artt. 2 e 32 Cost., D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2, D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, lett. c) ter, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 28, comma 1 e del D.Lgs. n. 140 del 2005, art. 8.

Contesta la conclusione cui è prevenuto il tribunale, il quale ha ritenuto, ai fini della protezione umanitaria, che il giudizio di comparazione avesse dato esito negativo, pur avendo lui concluso un contratto di lavoro a tempo indeterminato in un negozio di casalinghi, avendo seguito corsi di lingua italiana e corsi di formazione, attività tutte atte a documentare un impegno e un elevato livello di integrazione raggiunto in Italia, sulla considerazione che il ricorrente lavorava anche nel paese di origine, che sarebbe tornato a casa della madre, e che un eventuale rimpatrio non avrebbe dato luogo ad una regressione delle condizioni personali e sociali idonea a determinare una incolmabile sproporzione nella titolarità e nell’esercizio dei diritti fondamentali al di sotto del parametro della dignità personale (come dettato da Cass. n. 4455 del 2018).

7. Preliminarmente, il ricorso è complessivamente inammissibile perchè non contiene una propria autonoma idonea, benchè sommaria, esposizione dei fatti di causa, in quanto si limita per essi a rinviare al decreto impugnato.

8. Il primo motivo è inammissibile, in quanto le affermazioni in esso contenute sono tese a sviluppare una tesi difensiva e non si non si confrontano col provvedimento impugnato, il quale fonda il rigetto sulla valutazione di tutti gli elementi di prova raccolti, ed in particolare sul racconto del ricorrente che è stato ascoltato in udienza dal tribunale. Il motivo, nella sua interezza, non si correla alla motivazione del decreto, non attinge alla ratio decidendi che fonda la decisione di rigetto in relazione alla richiesta concessione della protezione umanitaria ed impinge in inammissibilità, in quanto con i motivi di ricorso per cassazione la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice del merito, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poichè in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (principio affermato con continuità, da Cass. n. 359 del 2005, fino a Cass. n. 22478 del 2018).

Sulla prima censura del primo motivo, concernente l’essere avvenuta la decisione in mancanza di deposito degli atti della fase amministrativa e l’essersi basato il Tribunale sul provvedimento della Commissione, la lettura del decreto smentisce che il Tribunale si sia adagiato su quel provvedimento a proposito dello status di rifugiato: ha invece rilevato che la situazione allegata dal ricorrente non era riconducibile alla normativa legittimante il relativo riconoscimento (vedi pag. 2, parte centrale). Quanto alla protezione sussidiaria il Tribunale, con motivazione che inizia con l’ultima proposizione della pagina 2 e termina a metà della pagina 4 parimenti motiva in modo autonomo ed approfondito, e non risulta adagiato sul decreto della Commissione.

9. Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile, in quanto volto alla rinnovazione del giudizio in fatto.

In realtà, l’accertamento in concreto è stato compiuto, e con esso si è proceduto al giudizio di comparazione nel rispetto dei criteri fissati dalla giurisprudenza di legittimità, all’esito del quale il tribunale ha ritenuto che il ricorrente fosse ben integrato in patria, in un contesto familiare e all’interno di un paese che meno degli altri paesi africani è oppresso dalla povertà, e che parimenti sia ben integrato in Italia. Complessivamente, ha ritenuto esclusa una sua vulnerabilità ove fosse rimandato indietro. E questo anche perchè aveva escluso, a monte, valutando i presupposti per la protezione sussidiaria, che la vicenda personale del ricorrente fosse credibile laddove asseriva di poter essere in qualche modo coinvolto personalmente negli scontri tra le fazioni religiose, quindi ha escluso che fosse sottoposto a quel rischio specifico.

La nozione di vulnerabilità è frutto di una comparazione tra la situazione di integrazione raggiunta nel paese di arrivo e la situazione ove si troverebbe riproiettato il ricorrente ove rimpatriato, che deve tener conto, in ogni caso, della situazione generale del paese di provenienza e del fatto che in esso avvenga o meno una compressione oltre la soglia minima dei diritti fondamentali, ma anche, ove allegato dal ricorrente, deve andare a verificare se esista una particolare vulnerabilità del ricorrente (non atta ad integrare una forma di persecuzione, suscettibile della concessione della protezione maggiore ma comunque relativa all’esposizione al rischio di lesione di uno dei diritti fondamentali in particolare (salute, religione etc.). Ove sia allegata una condizione di particolare vulnerabilità, essa deve essere valutata secondo il principio dell’onere probatorio attenuato.

Nel caso di specie, l’accertamento in concreto è stato effettuato, e motivato compiutamente, a pag. 6, sulla base di quella parte della vicenda personale che il tribunale ha ritenuto non provata ma attendibile e tuttavia non idonea a fondare una particolare vulnerabilità del soggetto.

E’ lo stesso ricorrente che, per ribaltare l’esito del giudizio di comparazione, vorrebbe far riferimento non alla situazione complessiva del paese, dove non è in atto una compressione dei diritti umani al di sotto della soglia, ma alla sua vulnerabilità soggettiva nel paese di provenienza, che potrebbe rilevare attribuendo una ulteriore componente alla sua vulnerabilità: ma il tribunale l’ha scrupolosamente considerata ed esaminata e ha escluso che la vicenda narrata fosse tale da poter fondare una particolare vulnerabilità del ricorrente, nel paese di provenienza, per motivi religiosi. Il ricorrente prospetta in proposito un generico dissenso.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30

gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis e comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

 

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