Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2514 del 27/01/2022

Cassazione civile sez. VI, 27/01/2022, (ud. 14/01/2022, dep. 27/01/2022), n.2514

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32541-2019 proposto da:

D.J.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A GRAMSCI

29, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA RIITANO, rappresentato e

difeso dall’avvocato MARCELLO CARMINE SALVIONE giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

ATG GROUP, rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE FASSI giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1318/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 25/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/01/2022 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;

Lette le memorie delle parti.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

D.J.M. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo, emesso dal Tribunale di Milano con il quale gli era stato ingiunto il pagamento in favore della Arcotecnica Real Estate S.p.A., oggi ATG Group S.r.l., della somma di Euro 8.400,00, quale corrispettivo residuo per l’acquisto del capitale sociale della Icore Italia S.r.l., credito originariamente vantato dalla Icade Italia S.p.A., nella cui titolarità era subentrata la ricorrente a seguito di atto di cessione di azienda.

Oltre ad eccepire la nullità del decreto ingiuntivo per il difetto di legittimazione ad agire della ricorrente e la nullità del mandato alle liti, in via riconvenzionale chiedeva accertare il proprio credito, vantato in ragione delle prestazioni professionali rese in favore della società in virtù del contratto del 1 gennaio 2010, e precisamente per le prestazioni di consulenza rese per tutto l’anno 2012 e per il mese di dicembre 2011, nonché per il procacciamento dell’affare di cui alla fattura n. 6/2012 e della somma dovuta per il conferimento della procura da parte della committente per l’anno 2012.

Si costituiva in giudizio l’opposta che sosteneva la risoluzione consensuale del contratto d’opera intervenuto con l’opponente a far data dal novembre 2011, lamentando in ogni caso l’inadempimento del medesimo agli obblighi scaturenti dal contratto.

Il Tribunale di Milano con la sentenza n. 8010 del 14/7/2017, in accoglimento dell’opposizione e della domanda riconvenzionale, revocava il decreto ed accertato il credito dell’opposta e quello oggetto della riconvenzionale, condannava la società al pagamento in favore del D. della somma di Euro 27.185,84 oltre interessi legali a far data dal 18 marzo 2014 al saldo.

La Corte d’Appello di Milano, a seguito di gravame della società, con la sentenza n. 1318 del 25/3/2019 revocava il decreto ingiuntivo e condannava l’appellato al pagamento della somma di Euro 2.400,00 oltre interessi legali a far data dalla notifica del decreto ingiuntivo; compensava per un quarto le spese di lite, condannando l’opponente al rimborso della residua parte come liquidata in dispositivo.

Ribadita l’ammissibilità della domanda riconvenzionale del D., in quanto inidonea a determinare spostamenti di competenza rispetto al giudice dell’opposizione, e richiamata la pacificità del credito vantato dalla società, esaminava partitamente le varie ragioni di credito vantate dall’opponente.

Quanto ai compensi per prestazioni di consulenza da novembre 2011 a dicembre 2012, ammontanti nel complesso ad Euro 26.053,84 (di cui Euro 2.053,84 risultanti dalla fattura n. 3/2012), i giudici di appello escludevano che fosse stato dimostrato l’effettivo svolgimento dell’attività per la quale si richiedeva il compenso.

Infatti, quanto alla fattura prodotta, poiché non atteneva a rapporti tra imprenditori, costituiva un documento unilaterale che non era di per sé idonea a fornire la prova del credito, e ciò anche nel caso in cui fosse stata annotata nei propri registri contabili.

Le e-mail che attesterebbero l’esistenza del credito erano dirette ad un indirizzo di posta elettronica di una società della quale l’opponente era dapprima consigliere di amministrazione e poi amministratore delegato, e non consentivano di affermare che facessero riferimento a specifica attività svolta per conto e nell’interesse della società opposta.

Inoltre, le prove orali richieste erano in parte irrilevanti ed in parte inammissibili.

Quanto ai compensi per l’attività di procacciamento d’affari, per la quale era chiesto la somma di Euro 3.232,00 come da fattura n. 6/2012 del 20/1/2012, la sentenza d’appello riteneva che del pari non fosse stata offerta la prova dell’espletamento dell’attività da parte dell’appellato.

Quanto alla fattura, richiamato il ragionamento svolto in relazione alla prima posta creditoria, ribadiva che alcuna rilevanza poteva avere l’annotazione della medesima nei libri contabili della società, e che non assumevano carattere significativo le varie mail scambiate, sempre in ragione degli indirizzi dai quali provenivano ed erano indirizzate.

Anche le prova orali erano inidonee a fornire la prova dell’assunto dell’opponente.

Doveva però essere riconosciuto il credito, pari ad Euro 6.000,00, per il conferimento al D. della procura ad agire in nome e per conto della società per l’anno 2012, attesa la sua mancata revoca.

Inoltre, non rilevava che la procura in tale anno non fosse stata utilizzata come del pari non incideva sul diritto al compenso la mancata presentazione del conto, posto che la stessa società riferiva che nel corso del 2012. l’opponente non aveva svolto alcuna attività per suo conto, il che rendeva superfluo l’adempimento della presentazione del conto.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso articolato in tre motivi D.J.M..

ATG Group S.r.l. resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in quanto la motivazione della sentenza è del tutto inidonea a permettere di comprendere il percorso logico – giuridico seguito dai giudice di appello.

In particolare, si deduce che, sebbene il Tribunale avesse revocato il decreto ingiuntivo, la Corte d’Appello ha operato un’indebita compensazione tra il pur ridotto credito del ricorrente, vantato in via riconvenzionale, ed il credito di Euro 8.400,00 invece richiesto in via monitoria dalla società. Non risultano comprensibili le ragioni in base alle quali sono state determinate le reciproche poste creditorie, poi interessate dalla compensazione, e che stante la revoca del decreto, la Corte d’Appello avrebbe dovuto preliminarmente procedere ad un nuovo accertamento dell’esistenza del credito azionato in via monitoria.

Il secondo motivo denuncia la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la sentenza impugnata ha omesso di pronunciarsi sulla conferma della sentenza di primo grado e cioè sull’esistenza del credito azionato in via riconvenzionale e sull’accertamento del credito vanato da ATG Group.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

Occorre evidenziare che la sentenza del Tribunale ha sì disposto la revoca del decreto ingiuntivo, ma non già in ragione dell’accertamento dell’inesistenza del credito azionato in via monitoria dalla controricorrente, ma piuttosto per l’accertamento positivo del credito vantato in via riconvenzionale dall’opponente, il cui importo eccedeva quello vantato dalla controparte.

Coerentemente ha quindi provveduto a compensare le ragioni di credito reciprocamente vantate, ed atteso l’azzeramento del credito della società, ha quindi revocato il decreto, condannando l’opposta al pagamento del controcredito non estintosi per compensazione.

Il ragionamento che però emerge dalla sentenza di primo grado, come peraltro risulta anche dalla stessa esposizione sommaria dei fatti di causa, è che in realtà non era stata contestata la effettiva sussistenza del diritto al saldo del corrispettivo della cessione del pacchetto azionario azionato in via monitoria, e che una volta superate alcune eccezioni di carattere processuale, il titolo che reggeva l’opposizione era appunto l’esistenza di un controcredito di maggiore importo, che, una volta riconosciuto, avrebbe determinato l’assenza di una residua ragione di credito in capo alla società, proprio per effetto dell’istituto della compensazione.

La sentenza di primo grado ha, quindi, operato la compensazione, attribuendo a titolo di condanna al D. la somma richiesta in via riconvenzionale decurtata del credito vantato in via monitoria dalla controparte.

La decisione del tribunale è stata però impugnata solo dalla società, avendo il ricorrente chiesto semplicemente la conferma della sentenza di primo grado, con la conseguenza che, in assenza di impugnazione incidentale da parte del D., deve ritenersi che l’esistenza del credito della società, oltre che mai contestato, era coperto da un accertamento con efficacia di giudicato, essendo stata devoluta al giudice di appello solo la questione circa la fondatezza della domanda riconvenzionale dell’opponente.

Ne’ può tacciarsi la Corte d’Appello di avere provveduto ad una sorta di riesumazione del decreto ingiuntivo ormai revocato, attribuendo sul maggior credito riconosciuto alla società, all’esito della diversa valutazione della domanda riconvenzionale, gli interessi a far data dalla notifica del decreto ingiuntivo, posto che tale data veniva a coincidere con il primo atto di messa in mora, e quindi risultava idoneo sul piano sostanziale a permettere l’individuazione del dies a quo di decorrenza degli interessi di mora.

Va quindi escluso che la sentenza sia affetta da anomalie motivazionali tali, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. S.U. n. 8053/2014) da determinare la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, come del pari non si ravvisa alcuna violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, posto che la sentenza ha espressamente deciso sulla fondatezza della domanda riconvenzionale, come appunto sollecitato dall’appello della società, senza però anche doversi pronunciare sulla fondatezza del credito vantato in via monitoria, e ciò sia in ragione della non contestazione della sua esistenza da parte della difesa del ricorrente, sia per il fatto che il suo accertamento era già contenuto nella sentenza del Tribunale, senza che lo stesso fosse stato attinto da un mezzo di impugnazione incidentale.

Il terzo motivo denuncia la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 116 c.p.c. quanto all’erronea valutazione delle prove offerte dal ricorrente, ed in particolare le fatture annotate nei libri contabili della società.

Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del motivo per avere parte ricorrente inquadrato il vizio denunciato nella previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, anziché in quella di cui al n. 3, occorrendo a tal fine richiamare il principio per cui il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass. S.U. n. 17931/2013).

Quanto al merito della censura, la Corte d’Appello, facendo richiamo alla natura unilaterale delle fatture, ha escluso che le stesse potessero fornire una valida prova del diritto di credito dell’opponente, sebbene fossero state regolarmente annotate nella contabilità della società. Tale condotta invece, ancorché non si verta in una controversia che veda contrapposti due imprenditori, merita un diverso apprezzamento, atteso l’orientamento del giudice di legittimità che annette alla stessa il valore di atto ricognitivo del credito riportato nella fattura.

Il motivo è fondato.

Il giudice di appello a pag. 14 (quanto al credito derivante dall’attività di consulenza) ed a pag. 16 (per il credito derivante da attività di procacciamento d’affari) ha escluso che potesse influire sula necessità che la prova delle prestazioni fatturate fosse offerta dal ricorrente, la circostanza che le fatture stesse fossero state annotate nei registri contabili della ATG Group S.r.l. Trattasi però di affermazione che contrasta con il costante orientamento di questa Corte che ha ribadito che (Cass. n. 32935/2018), sebbene alle annotazioni del registro IVA non si applichi la disciplina dettata, per i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione, dagli artt. 2709 e 2710 c.c. (che ne regolano, rispettivamente, l’efficacia probatoria contro l’imprenditore e quella tra imprenditori), esse possono tuttavia costituire idonee prove scritte dell’esistenza di un credito, giacché la relativa annotazione, con richiamo della fattura ad essa inerente, costituisce atto ricognitivo in ordine ad un fatto produttivo di un rapporto giuridico sfavorevole al dichiarante ex art. 2720 c.c..

In motivazione, il precedente citato ha ritenuto che fosse erronea la decisione sottoposta al suo esame che, come nella specie, aveva del tutto omesso di valutare l’efficacia probatoria della fattura annotata con riferimento alla posizione della società debitrice, che aveva registrato le fatture, delle quali la parte chiedeva il pagamento.

Infatti, le scritture prescritte dalle leggi tributarie, come lo sono i registri contenenti le annotazioni delle fatture indicate dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 22, ancorché non rientrino nella disciplina dettata dagli artt. 2709 c.c. (secondo cui i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore) e art. 2710 c.c. (il quale stabilisce che i libri bollati e vidimati nelle forme di legge, quando sono regolarmente tenuti, possono formare prova tra imprenditori per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa), possono però essere considerate idonee prove scritte dell’esistenza di un credito, giacché la relativa annotazione, con richiamo alla fattura da cui nascono, costituisce atto ricognitivo in ordine ad un fatto produttivo di un rapporto giuridico sfavorevole al dichiarante, con efficacia confessoria ex art. 2720 c.c. (Cass. 01/08/2008, n. 20982; Cass. 18/02/2005, n. 3383).

Deve poi escludersi che tale soluzione, proprio alla luce dei numerosi precedenti richiamati, sia frutto di un repentino mutamento giurisprudenziale, atteso che i riferimenti giurisprudenziali, anche reiterati in memoria, non appaiono pertinenti rispetto alla vicenda qui in esame.

Ai richiamati principi la decisione impugnata ha omesso di conformarsi e deve quindi essere cassata, dovendo il giudice del rinvio rivalutare la vicenda, in vista della decisione della domanda riconvenzionale, tenendo conto della significatività della condotta della società opposta, quanto all’annotazione delle fatture emesse dal ricorrente nei propri libri contabili.

L’accoglimento del terzo motivo, nei limiti di cui in motivazione, determina quindi la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione.

P.Q.M.

Accoglie il terzo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, e rigettati i primi due, cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2022

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