Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2514 del 04/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 04/02/2020, (ud. 08/10/2019, dep. 04/02/2020), n.2514

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18571-2018 proposto da:

AZIENDA SANITARIA LOCALE DI CASERTA, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

AMITERNO 3, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNA BATTISTA

BUONAVOGLIA, rappresentata e difesa dall’avvocato AUGUSTO CHIOSI;

– ricorrente –

contro

D.C.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. PAOLUCCI

DE’ CALBOLI 60 presso lo studio dell’avvocato CINZIA AMMIRATI, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7565/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 12/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’08/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. DE

FELICE.

Fatto

RILEVATO

CHE:

la Corte d’Appello di Napoli, a conferma della sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, ha rigettato il ricorso dell’Asl Caserta 2 avverso la pronuncia di prime cure che aveva accertato: a) l’illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto nei confronti di D.C.N., dirigente medico, perchè in realtà mosso da un motivo ritorsivo illecito unico e determinante; b) la sussistenza del nesso causale tra l’aggravamento del quadro patologico del D.C., certificato dal medico competente, e la condotta di mobbing di cui lo stesso era risultato vittima; c) la propagazione degli effetti della condotta “mobizzante” anche dopo il 2002, data di emissione della sentenza di prime cure, in ragione non solo dell’assenza di atti riparatori da parte dell’Asl, ma anche della prosecuzione di attività illecite nei confronti del medico; d) la raggiunta prova in giudizio dell’assenza della giusta causa di recesso da parte dell’Asl in ragione dell’accertato nesso causale fra le patologie psico-fisiche riscontrate in capo al D.C., e la condotta illecita dell’Asl, rivolta sostanzialmente a svalutarne le capacità professionali;

la cassazione della sentenza è domandata dall’Asl Caserta 2 sulla base di due motivi; D.C.N. ha resistito con tempestivo controricorso;

è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, parte ricorrente deduce “Violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 25 del c.c.n.l., nonchè degli artt. 2110 e 2087 c.c., per aver arbitrariamente ravvisato il demansionamento ed il conseguente danno da mobbing per il periodo successivo a quello circoscritto dal febbraio 2001 al dicembre 2002 (per il quale solo era stata accertata la dequalificazione professionale) senza considerare che dal 2003 e quasi fino al licenziamento il Dott. D.C. era il malattia”; rilevando che l’odierno controricorrente era stato assente per malattia per cinque anni consecutivi con conseguente superamento del periodo di comporto – giusta causa di recesso – solleva il vizio della sentenza gravata per avere, quest’ultima, ritenuto provato il nesso fra aggravamento della malattia e condotta “mobizzante” in relazione all’intera vicenda lavorativa del D.C., senza tener conto che l’accertamento del legame eziologico da parte del primo giudice, che si era pronunciato nel 2002, non aveva investito la fase di svolgimento del rapporto che era seguita alla reintegra del D.C. ed era proseguita fino al 2008;

col secondo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contesta “Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori”, per avere la Corte territoriale ritenuto di fare applicazione della più grave delle sanzioni senza una congrua motivazione e senza detrarre dall’indennità risarcitoria gli importi percepiti dall’odierno controricorrente considerati “…del tutto pacifici” (p.26 ric.);

il primo motivo è inammissibile;

dal complessivo iter argomentativo della sentenza impugnata si desume che la Corte territoriale ha valutato nello specifico le circostanze censurate dall’odierno ricorrente; dal quadro che viene delineato scaturisce, secondo il giudice dell’appello, che “…per quanto attiene al mobbing, non vi è dubbio che la sua esistenza sia cristallizzata nella sentenza del Tribunale di S.M. Capua V. passata in giudicato, come sopra detto, per i fatti avvenuti fino al 31.12.2002, però gli effetti dello stesso, nel periodo successivo, in assenza di condotte riparatorie hanno continuato a propagarsi con la produzione di ulteriori danni, ben esposti nella consulenza tecnica e ben valutati dal primo giudice” e che “…sul punto alcuna censura è stata avanzata avverso la ricostruzione in diritto effettuata dal primo giudice in ordine alla concreta qualificazione come patrimoniale ed, in parte, non patrimoniale del danno patito; nonchè alla successiva qualificazione dello stesso sulla scorta di tali principi. Inadeguate sono anche le censure che attengono al licenziamento e al superamento del periodo di comporto… (p.4 sent.)”;

pertanto, non si ravvisa il vizio dedotto di omessa pronuncia, atteso che la Corte territoriale, nel caso in esame, ha adeguatamente argomentato in merito ai vari aspetti sollevati dall’odierno ricorrente con il primo motivo;

in ogni caso, non è inutile ricordare che in base al principio di diritto affermato da questa Corte, il vizio di omessa pronuncia non ricorre, anche qualora dovesse riscontrarsi una mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo, ricavabile dalla ricostruzione complessiva del decisum (ex multis cfr. Cass. n. 20191 del 2017);

il secondo motivo è inammissibile;

le prospettazioni della ricorrente deducono solo apparentemente una violazione di legge, là dove mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito;

va, pertanto, data attuazione al costante orientamento di questa Corte, che reputa “…inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito.” (Cass. n. 18721 del 2018; Cass. n. 8758 del 2017);

quanto, in particolare, alla contestazione relativa alla mancata detrazione, nel decisum, dell’aliunde perceptum, va rilevato, un vizio di specificità della censura ex art. 366 c.p.c., n. 4;

la ricorrente non allega in modo autosufficiente il fatto della cui mancata considerazione si duole; il motivo non trascrive nè produce l’atto introduttivo del giudizio d’appello da cui risulta che la questione fosse stata proposta davanti al giudice del merito, nè allega atti difensivi decisivi dai quali si deduca la fondatezza della domanda relativa alla maturazione di un aliunde perceptum;

in definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

in considerazione dell’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 5.000 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 8 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2020

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