Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25123 del 16/09/2021

Cassazione civile sez. I, 16/09/2021, (ud. 18/05/2021, dep. 16/09/2021), n.25123

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24882/2020 proposto da:

A.Z., rappresentato e difeso dall’avvocato Antonella

Macaluso, con studio in Caltanissetta Corso Sicilia 105, elegge

domicilio presso l’indirizzo di posta elettronica certificata

antonella.macaluso.avvocaticl.legalmail.it;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, ((OMISSIS)), in persona del Ministro pro

tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 764/2019 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 09/12/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/05/2021 dal Consigliere relatore Dott. Rita RUSSO.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

Il ricorrente, cittadino pakistano, ha narrato di avere lasciato il suo paese per timore di vendette private; un suo amico è stato ucciso dei familiari di una ragazza, contrari per motivi religiosi alla loro unione, e poiché egli aveva assistito alla sparatoria, si sentiva minacciato dagli autori dell’omicidio. Respinta la richiesta di protezione internazionale dalla competente Commissione territoriale, il ricorrente ha adito il Tribunale di Caltanissetta che ha ritenuto la storia poco credibile e confermato il giudizio della Commissione.

La Corte d’appello di Caltanissetta ha respinto l’appello dell’odierno ricorrente rilevando che il racconto della vicenda individuale è fortemente contraddittorio e connotato dalla rappresentazione di più ragioni di timore: narra infatti dell’uccisione dell’amico, ma anche di contrasti con parenti per una casa degli stava costruendo e di una denuncia da parte dei fratelli del ragazzo ucciso perché il corpo era stato trovato in una sua fattoria. La Corte ha quindi escluso il rischio di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), rilevando che, secondo le informazioni tratte dal report EASO 2018 nel paese di provenienza del ricorrente (Punjab) non si rileva una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato. La Corte ha infine escluso il diritto al riconoscimento della protezione umanitaria considerando che sebbene il ricorrente abbia dimostrato un certo grado di integrazione nel tessuto sociale italiano, il rimpatrio nel paese di origine, considerata la sua situazione individuale e familiare non lo esporrebbe a rischio di lesione dei diritti umani fondamentali.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il richiedente asilo affidandosi a tre motivi.

Il Ministero non costituito tempestivamente ha depositato istanza per la partecipazione all’eventuale discussione orale.

La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 18 maggio 2021.

Diritto

RITENUTO

Che:

1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e), nonché degli artt. 5, 6, 7, 8, in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.

Il ricorrente deduce che non è stata data applicazione alla regola dell’onere della prova attenuato, fondata sull’oggettiva difficoltà per chi è costretto a fuggire dal proprio paese di fornire elementi sulla persecuzione subita. Egli ha ricostruito i fatti, circostanziandoli, e si tratta di una vicenda verosimile, ove la si valuti nel contesto della società pakistana, caratterizzato dal ricorso alla violenza privata che si tramuta in vendetta, dalla corruzione della polizia, e dal conflitto tra sunniti e sciiti. La Corte ha omesso la cooperazione istruttoria officiosa perché non ha calato il racconto nel contesto della società pakistana, con particolare riferimento alla zona di provenienza del ricorrente.

1.2.- Il motivo è infondato.

Il corretto svolgimento della attività di cooperazione istruttoria presuppone che tutti i soggetti coinvolti assolvano i propri compiti, poiché anche il richiedente asilo ha il dovere di cooperare per una

corretta istruzione della domanda compiendo ogni ragionevole sforzo per motivarla e circostanziarla (art. 13 Direttiva 2013/32/UE e art. Direttiva 2011/95/UE) mentre il compito del giudicante si esplica in termini di integrazione istruttoria (Cass. n. 16411/2019), trattandosi di cooperazione con la parte e non sostituzione ad essa, sicché le relative modalità di svolgimento devono essere improntate a criteri di trasparenza, di modo che la terzietà dell’organo giudicante non ne risulti compromessa (Cass. 29056/2019).

Questa Corte, in più occasioni, ha escluso che il giudice, ritenuto inattendibile intrinsecamente il racconto, debba anche assumere informazioni (COI) sul paese di origine (Cass. n. 28862/2018; Cass. n. 33858/2019; Cass. n. 08367/2020).

Se il racconto è affetto da estrema genericità o da importanti contraddizioni interne, la ricerca delle COI è inutile perché manca

alla base una storia individuale attendibile rispetto alla quale valutare la coerenza esterna, la plausibilità ed il livello di rischio; il giudice non può e non deve supplire ad eventuali carenze delle allegazioni (Cass. n. 2355/2020; Cass. 8819/2020). Una volta esclusa la credibilità intrinseca della narrazione offerta dal richiedente asilo per la gravità delle riscontrate contraddizioni, lacune e incongruenze, non deve procedersi al controllo della credibilità estrinseca, che attiene alla concordanza delle dichiarazioni con il quadro culturale, sociale, religioso e politico del Paese di provenienza (Cass. 24575/2020; Cass. 6738/2921).

1.3.- Nella fattispecie il giudice di merito ha riscontrato contraddizioni interne del racconto, così da escluderne l’attendibilità, con giudizio in fatto conforme a quello già reso dalla Commissione e dal Tribunale; in particolare ha evidenziato che la parte ha esposto ragioni di timore in contrasto tra di loro e cioè di temere alternativamente gli assassini ed parenti della vittima, la corruzione della polizia che non l’avrebbe ascoltato in quanto semplice testimone e perché le persone coinvolte erano potenti, ed infine i suoi stessi parenti per ragioni di tipo economico. Nel motivo di ricorso questi punti non sono specificamente censurati, né si spiegano le contraddizioni, le incongruenze e le lacune rilevate dalla Corte, ripetendo la storia nei suoi tratti salienti già ritenuti privi di coerenza interna e prospettando contemporaneamente il rischio di pena di morte e di vendetta privata, lamentando che la storia non sia stata calata nel contesto del paese di origine, ma con riferimento ad un contesa tra sunniti e sciiti che, se in ipotesi potrebbe spiegare l’avversione contro l’amico del ricorrente, non spiega però le contraddizioni del racconto rilevate dal giudice di merito.

2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio.

Il ricorrente deduce che ha errato la Corte, fondandosi sul Report 2018 dell’EASO, a non considerare che nella regione di provenienza ricorrente perdura una violenza indiscriminata, omettendo di compiere un esame comparativo tra le informazioni provenienti dal ricorrente e la situazione nelle aree da esso indicate, da eseguirsi mediante la puntuale osservanza degli obblighi di cooperazione incombenti sull’autorità giurisdizionale. Deduce che il rapporto di Amnesty International dà una visione generale di come tale conflitto armato persiste; diverse fonti riferiscono di esplosioni con morti e feriti, scontri tra polizia e talebani e attentati suicida. Da ciò emerge una situazione di instabilità nel Punjab, come nel resto del Pakistan, che rende fondato il rischio che il ricorrente possa rimanere vittima di azioni contrarie ai diritti umani fondamentali.

2.1. Il motivo è infondato.

Con riferimento al rischio di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. C, la Corte ha assolto al dovere di cooperazione istruttoria assumendo informazioni sul paese di origine e specificamente sul Punjab zona di provenienza del ricorrente, da una fonte attendibile ed aggiornata (Report EASO 2018) che è stata esplicitamente menzionata in sentenza (Cass. n. 22527/2020). Le informazioni sono state assunte sul rischio specifico di cui all’art. 14, lett. c) e cioè il rischio di danno grave da violenza indiscriminata derivante da conflitto, escludendo che nella zona sia in corso un conflitto che genera violenza indiscriminata, e non con riferimento ad altri rischi non dedotti, quale il rischio di restare vittima occasionale di un attentato terroristico.

Nel fare riferimento a fonte informative sugli attentati terroristici, la difesa prospetta una nozione di violenza indiscriminata da conflitto armato che non collima affatto con quella rigorosa data dalla CGUE nelle sentenze del 17 febbraio 2009 (Eigafaji, C-465/07) e del 30 gennaio 2014, (Diakite’ C- 285/12), fatta propria anche dalla giurisprudenza di questa Corte.

La determinazione del significato e della portata del concetto di conflitto armato va stabilita sulla base del significato abituale nel

linguaggio corrente, prendendo in considerazione il contesto nel quale sono utilizzati e gli obiettivi perseguiti dalla normativa in materia di protezione internazionale (Diakite’, cit. p.27) e quindi “senza che l’intensità degli scontri armati, il livello di organizzazione delle forze armate presenti o la durata del conflitto siano oggetto di una valutazione distinta da quella relativa al livello di violenza che imperversa nel territorio in questione” (Diakite’, cit. p.35).

Ai fini della protezione internazionale il conflitto rileva se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria.

Secondo questo indirizzo ormai consolidato, il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nei Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 13858/2018, Cass. n. 11103/2019). La Corte Europea ha infatti precisato che tanto

più il richiedente è eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria (Elgafaji, cit., p. 39).

La violenza indiscriminata derivante da conflitto, intesa in questi termini, è dunque cosa ben diversa dalle limitazione delle libertà individuali, dalle tensioni sociali ed economiche, dalla povertà, dalla diffusione della criminalità comune e dal rischio di attacchi terroristici, di cui riferiscono le fonti citate dal ricorrente.

3.- Con il terzo motivo del ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19; deduce che ha errato la Corte a non riconoscere la protezione umanitaria, perché il ricorrente è integrato nel tessuto sociale italiano, come si evince dalla documentazione allegata, considerata la situazione di insicurezza del paese di origine.

Il motivo è inammissibile, in quanto con esso si sollecita la revisione del giudizio di fatto operato dalla Corte, la quale analizzando la situazione familiare e personale del richiedente ha ritenuto che egli non sia esposto, in caso di rimpatrio, a rischio di lesione dei diritti fondamentali.

Il motivo di ricorso è peraltro generico e si limita a una trattazione di massima sui presupposti della protezione umanitaria ma senza specifici riferimenti a come le dedotte criticità del paese di origine – e tra esse anche la pandemia – inciderebbero sulla posizione individuale del ricorrente, trattandosi queste criticità in termini generali, affermando che esse riguardano “la maggior parte dei pakistani”.

Ne consegue il rigetto del ricorso.

Nulla sulle spese il difetto di regolare costituzione della parte intimata.

PQM

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio da remoto, il 18 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2021

 

 

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