Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25113 del 24/10/2017


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Cassazione civile, sez. III, 24/10/2017, (ud. 13/06/2017, dep.24/10/2017),  n. 25113

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7754-2015 proposto da:

(OMISSIS) SRL IN FALLIMENTO, in persona del Curatore fallimentare e

legale rappresentante pro tempore Dott. LUCIANO MASCENA,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo

studio dell’avvocato MICHELE ROMA, che la rappresenta e difende

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.D.E.;

– intimato –

Nonchè da:

R.D.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE

ASOLONE, 8, presso lo studio dell’avvocato MILENA LIUZZI, che lo

rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso e

ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

(OMISSIS) SRL IN FALLIMENTO, in persona del Curatore fallimentare e

legale rappresentante pro tempore Dott. M.L.,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo

studio dell’avvocato MICHELE ROMA, che la rappresenta e difende

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente all’incidentale –

avverso la sentenza n. 2014/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/06/2017 dal Consigliere Dott. COSIMO D’ARRIGO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE ALESSANDRO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCESCA RAUSO per delega;

udito l’Avvocato FABIOLA LUZZI per delega.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La curatela del fallimento Lido delle Salzare s.r.l. convenne in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma, il notaio R.D.E., chiedendo che si accertasse la sua colpa professionale, consistita nell’aver stipulato, in data 17 novembre 1989, un contratto di permuta di alcuni terreni ricadenti nel Comune di Ardea senza avvertire l’acquirente dell’esistenza di un vincolo archeologico; vincolo in ragione del quale il Comune, con provvedimento del 1 agosto 1997, dapprima revocò in autotutela la concessione edilizia precedentemente rilasciata per la realizzazione di un complesso residenziale di circa 250 appartamenti, e poi, con ordinanza del 29 agosto 1997, ordinò la demolizione delle opere realizzate, così determinando l’insolvenza e quindi il fallimento della società. La Curatela, stante la difficoltà di quantificare il danno subito, chiese espressamente di riservare ad ulteriore e separato giudizio la liquidazione del danno.

Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale, con sentenza del 10 maggio 2007, accolse le domande della curatela, fatta eccezione per quella relativa alla liquidazione di una provvisionale.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 27 marzo 2014, in accoglimento dell’impugnazione proposta dal R.D., rigettò invece tutte le domande della curatela.

Quest’ultima ricorre per la cassazione della sentenza d’appello allegando sei motivi. Il R.d. resiste con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato articolato in tre motivi, cui resiste, a sua volta, la curatela con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 Il ricorso principale è articolato in sei motivi largamente sovrapponibili.

Le questioni effettivamente dedotte con i primi tre motivi riguardano il nesso di causalità e possono essere trattate congiuntamente.

1.2 La Corte d’appello ha escluso che l’omessa informazione circa l’esistenza del vincolo archeologico abbia avuto efficacia causale nella revoca della concessione edilizia e quindi, in ultima istanza, nella determinazione dello stato di insolvenza della (OMISSIS) s.r.l. Ciò in quanto la concessione venne revocata anche per il simultaneo concorso di altre due cause, ciascuna autonomamente idonea a giustificare l’iniziativa del Comune: la mancata acquisizione del parere di cui alla L. n. 1497 del 1939, art. 7 e le difformità che l’edificio presentava rispetto al progetto approvato, comportanti un eccesso di cubatura. In sostanza, secondo il giudice d’appello, la concessione sarebbe stata revocata in ogni caso e quindi l’eventuale negligenza del notaio non avrebbe avuto alcuna efficienza causale nella perdita dell’opera costruita.

Tale ragionamento è censurato dalla ricorrente sostenendo, in sintesi, che se il notaio avesse segnalato l’esistenza del vincolo, la società non avrebbe permutato il terreno e quindi non si sarebbe neppure posto il problema della revoca della concessione edilizia.

La corte d’appello avrebbe dovuto compiere un giudizio “controfattuale” dal quale sarebbe risultato che l’omissione del notaio costituiva la condicio sine qua non della verificazione dell’evento dannoso. La conoscenza dell’esistenza del vincolo avrebbe avuto una portata obiettivamente decisiva nell’orientare le scelte della società, privando gli altri fatti di ogni efficacia causativa del danno. In tale contesto, sarebbe irrilevante il fatto che la società non si sia attivata per conseguire la sanatoria delle irregolarità edilizie, dato che, se fosse stata nota l’esistenza del vincolo archeologico, l’opera non sarebbe stata mai realizzata.

1.3 I motivi in esame sono fondati.

1.4 Com’è noto, in tema di responsabilità civile, anche contrattuale, la valutazione del nesso causale si ispira, tra gli altri, al criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione ex ante – del tutto inverosimili (Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008, Rv. 600899; ex Sez. 3, Sentenza n. 16123 del 08/07/2010, Rv. 613967).

In particolare, occorre scomporre il giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti.

Il primo è volto ad identificare il nesso di causalità materiale che lega la condotta all’evento di danno: in tale fase dell’indagine eziologica, il danno rileva solo come evento lesivo, e la problematica causale, sia pur regolata da diversi criteri sullo stesso piano morfologico (il giudice penale adottando il criterio c.d. condizionalistico, quello civile utilizzando la regola della causalità adeguata, se del caso integrata sostituita con quella dello scopo della norma violata e della signoria dell’uomo sul fatto), parrebbe sovrapponibile, in parte qua, a quella posta, in seno al giudizio penale, dagli artt. 40 e 41 c.p..

Ancor più significative risultano poi le differenze sul piano dell’analisi funzionale del nesso, in relazione al regime probatorio applicabile: mentre nel processo penale deve trovare applicazione il principio della prova piena “oltre il ragionevole dubbio” (Sez. U Pen., n. 30328 del 10/07/2002 – dep. 11/09/2002, Franzese, Rv. 222139), nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (Sez. 16/10/2007, Rv. 599816; Sez. 3, 11/05/2009, Rv. 608391; Sez. 3, 16/01/2009, Rv. 606129). Detta preponderanza, peraltro, non va intesa in termini di mera probabilità quantitativa della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare essere inconferente, ma va verificata, secondo la c.d. probabilità logica, nell’ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell’esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto (Sez. L, Sentenza n. 47 del 03/01/2017, Rv. 642263).

Il secondo segmento, al quale va riferita la regola dell’art. 1223 c.c., è diretto, pertanto, ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega l’evento alle conseguenze dannose risarcibili; si tratta cioè di individuare, all’interno delle serie causali, quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiono del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata della regolarità causale, in base a un giudizio formulato in termini ipotetici (Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 17/09/2013, Rv. 628703; Sez. 1, Sentenza n. 26042 del 23/12/2010, Rv. 615614).

Il danno connesso all’inadempimento è quindi quello causato dalla condotta del debitore, quando costituisce l’effetto normale, ordinario di essa. Devono conseguentemente essere eliminati dal novero dei danni risarcibili gli eventi che rappresentano sviluppi eccezionali, al di fuori di qualsiasi logica ordinaria, pur quando rinvengono come antecedente l’inadempimento del debitore. Viceversa, devono essere ricompresi nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale dell’inadempimento, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell’obbligazione risarcitoria, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto e immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo e purchè – come s’è detto – le conseguenze dannose non risultino del tutto inverosimili (Sez. 3, Sentenza n. 15274 del 04/07/2006, Rv. 591703; Sez. 3, Sentenza n. 16163 del 21/12/2001, Rv. 551313; Sez. 3, Sentenza n. 5913 del 09/05/2000, Rv. 536323).

1.5 Sulla base di tali premesse deve essere affrontata anche la problematica delle concause, rilevante sotto due distinti profili.

Per un verso, sul piano della causalità materiale, va verificata la questione dell’interruzione del nesso di causalità. Per altro verso, sul piano del danno risarcibile, deve essere esaminato il tema del concorso di colpa (rectius, di cause) ex art. 1227 c.c., comma 1.

Quanto al primo aspetto, occorre premettere che la soluzione non muta se il fattore concausale è di origine naturale (ossia si tratta di un fenomeno sottratto al controllo umano imputabile all’uomo (lo stesso danneggiato o terzi). In applicazione del principio di cui all’art. 41 c.p. – che sancisce, a differenza del precedente art. 40, una vera e propria regola (con)causale – l’interruzione della serie causale si verifica solo quando il fattore sopravvenuto, pur inserendosi nella serie causale già intrapresa, dia origine ad un’altra serie causale eccezionale ed atipica rispetto alla prima, idonea da sola a produrre l’evento dannoso, che sul piano giuridico assorbe ogni diversa serie causale e la riduce al ruolo di semplice occasione (Sez. 3, Sentenza n. 8096 del 06/04/2006, Rv. 588863).

Laddove, invece, non sia possibile distinguere fra cause mediate o immediate, dirette indirette, precedenti o successive e si deve riconoscere a tutte la medesima efficacia (Sez. 3, Sentenza n. 23915 del 22/10/2013, Rv. 629115; Sez. 3, Sentenza n. 8096 del 06/04/2006, Rv. 588863). Tuttavia, l’adozione del criterio correttivo della probabilità relativa (altrimenti detto della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”), implica un’analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola della “metà più uno (Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618880).

Passando al piano dell’individuazione del danno risarcibile, invece, occorre distinguere fra concause naturali e fattori dipendenti dal danneggiato o da terzi. Infatti, qualora si tratti di fattori naturali, se gli stessi non sono in grado di elidere in toto il nesso di collegamento fra la condotta dell’inadempiente e l’evento dannoso, l’autore del comportamento imputabile va ritenuto responsabile per intero di tutte le conseguenze scaturenti, secondo normalità, dalla sua condotta. Infatti, una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile e una concausa naturale, ovviamente non imputabile (Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618881; Sez. 3, Sentenza n. 2335 del 16/02/2001, Rv. 543924).

Invece, nel concorso fra cause concorrenti imputabili al medesimo fattore umano, è possibile operare una riduzione proporzionale del quantum del risarcimento in ragione della efficienza causale della condotta (colpevole) di ciascuno degli autori del danno.

1.6 Facendo applicazione di tali principi nel caso di specie si ha che:

– l’omessa rilevazione, da parte del notaio, del vincolo archeologico gravante sull’immobile ha avuto indubbia efficacia causale nella verificazione dell’evento dannoso; infatti, secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza, deve affermarsi la indubitabile probabilità logica che la (OMISSIS) s.r.l. non avrebbe acquistato l’immobile se avesse conosciuto della sua inedificabilità assoluta, ancorchè limitata a solo parte della superficie;

– la verificazione del danno conseguente era certamente non irragionevole, anzi del tutto prevedibile, secondo il criterio della regolarità causale, poichè rientrano nell’ambito della “normalità” sia che l’acquirente di un terreno edificabile lo usi, per l’appunto, per scopi edificatori, sia che l’esistenza di un vincolo archeologico possa comportare l’ordine di demolizione dei lavori compiuti e l’acquisizione dell’area al demanio;

– l’incidenza di fattori umani (l’omessa acquisizione del parere di cui alla L. n. 1497 del 1939, art. 7 e la difformità urbanistica che ha comportato un eccesso di cubatura, entrambe addebitabili alla stessa società danneggiata) quali concause del fatt di danno (l’ordine di demolizione e l’acquisizione della proprietà del fondo al demanio) non determina l’interruzione della serie causale, poichè, in applicazione del criterio di cui all’art. 41 c.p., la (OMISSIS) s.r.l. non avrebbe acquistato il fondo e sullo stesso non avrebbe intrapreso alcuna attività edilizia, se avesse conosciuto per tempo dell’esistenza del vincolo archeologico;

trattandosi di concorso di cause concorrenti imputabili, la loro incidenza si coglie solamente sul piano dell’individuazione della “quota” di danno addebitabile al notaio, in proporzione al contributo eziologico dell’autore di ciascuna delle condotte che hanno concorso alla verificazione dell’evento.

1.7 Le censure in esame devono essere quindi accolte e la sentenza impugnata va cassata con rinvio, formulando i seguenti principi di diritto:

“In tema di responsabilità professionale dei notai, l’omessa indicazione dell’esistenza di un vincolo (nella specie, di natura archeologica) su un bene immobile oggetto di compravendita permuta determina, secondo i criteri della preponderanza dell’evidenza del “più probabile che e della regolarità causale, l’addebito al professionista dell’evento dannoso consistito nella successiva adozione, da parte del Comune, della revoca in autotutela della concessione edilizia e dell’ordine di demolizione delle opere nel frattempo realizzate, nonchè nell’acquisizione dell’area al patrimonio demaniale”.

“Qualora la demolizione in via amministrativa di un’opera edilizia realizzata su un terreno gravato da vincolo archeologico non rilevato dal notaio rogante la relativa compravendita (o permuta) – dipenda anche dalla mancanza di talune autorizzazioni amministrative e da difformità urbanistiche, questi ultimi fattori, pur imputabili al danneggiato, non valgono ad interrompere la serie causale, poichè quest’ultimo, se avesse conosciuto dell’esistenza del vincolo, non avrebbe, secondo un criterio logico-probabilistico, acquistato il terreno e non avrebbe intrapreso alcuna attività edilizia (criterio della preponderanza dell’evidenza). Trattandosi, però, di fattori umani, degli stessi è possibile tenere conto nella liquidazione del danno, ponendo a raffronto l’efficienza causale della condotta (colpevole) del notaio e quella (altresì colpevole) dell’acquirente, che ha costruito in mancanza di alcune delle autorizzazioni necessarie e in difformità rispetto al progetto approvato”.

2.1 Con i restanti motivi la curatela deduce che la corte d’appello, dichiarando inammissibile la domanda di accertamento della responsabilità professionale separata da quella risarcitoria, sarebbe incorsa in vizio di ultrapetizione in quanto la relativa eccezione, formulata dal convenuto nel primo grado, era stata successivamente abbandonata. La corte, peraltro, affermando il “divieto di scissione” della domanda di accertamento dell’an da quella di determinazione del quantum debeatur, avrebbe imposto in capo all’attore un onere più gravoso di quello che gli sarebbe spettato in caso di espressa opposizione del convenuto alla separazione dei giudizi, in quanto, in quest’ultima ipotesi, l’attore ha l’onere di dimostrare la sussistenza del danno, ma non la sua quantificazione.

2.2 Anche queste censure sono fondate.

2.3 Questa Corte ha ripetutamente chiarito che, in linea generale, la domanda di condanna generica (cioè limitata all’an debeatur) e quella integrale (cioè estesa ad an e quantum) non possono essere formulate nel medesimo giudizio, quale che sia il nesso logico che lega le due domande: congiunzione, subordinazione o alternatività (Sez. 3, Sentenza n. 3366 del 20/02/2015, Rv. 634518; Sez. L, Sentenza n. 7847 del 10/08/1998, Rv. 517920; Sez. Sentenza n. 681 del 14/01/2005, in motivazione).

Infatti, la proposizione congiunta della domanda di condanna integrale e di quella di condanna generica sarebbe ovviamente viziata da nullità (da sanare ai sensi dell’art. 164 c.p.c.), per totale inconciliabilità.

La proposizione della domanda di condanna integrale in via principale e di quella di condanna generica in via subordinata, renderebbe inammissibile solo quest’ultima. L’esame della domanda subordinata, infatti, presuppone il rigetto di quella principale: ma poichè la domanda di condanna integrale formulata in via principale impone al giudice di accertare l’esistenza e l’ammontare del danno, l’eventuale carenza di prova in merito a quest’ultimo ne comporterebbe il rigetto, e la conseguente impossibilità che la questione relativa al quantum possa essere esaminata in un nuovo giudizio, ostandovi il divieto di bis in idem.

Anche la formulazione d’una domanda di condanna generica in via alternativa ad una domanda di condanna integrale (vale a dire quando l’attore non istituisce alcun ordine di priorità nell’esame delle domande da lui formulate, ma lascia al giudice la facoltà di esaminarle quomodo libet) è inammissibile, per la medesima ragione per cui lo sarebbe la formulazione delle due domande in via subordinata.

2.4 Nel caso di specie, tuttavia, la curatela ha formulato, fin dal principio, solamente una domanda di condanna generica.

Nulla impedisce all’attore di restringere ab origine la propria pretesa alla sola condanna generica sull’an debeatur. La giurisprudenza dapprima citata si basa – come s’è visto – sulla sola incompatibilità logico-giuridica della domanda di condanna generica formulata contestualmente a quella di condanna integrale, ma non rileva alcuna ragione di inammissibilità della sola domanda generica.

Piuttosto, la domanda dell’attore originariamente rivolta unicamente a ottenere una condanna generica costituisce espressione del principio di autonoma disponibilità delle forme di tutela offerte dall’ordinamento e risponde a un interesse giuridicamente rilevante dell’attore a forme di tutela cautelare (Sez. U, Sentenza n. 12103 del 23/11/1995, Rv. 494765).

Del resto, l’art. 278 c.p.c. prevede espressamente la possibilità per il giudice di pronunciare una condanna generica, il che consente di affermare, in modo speculare, la possibilità per l’attore di formulare una domanda di condanna solamente generica.

2.5 Affermata, dunque, l’ammissibilità della domanda limitata dall’inizio alla sola condanna generica del convenuto, si pone il dubbio se questi abbia facoltà di opporvisi.

Sul punto le Sezioni unite, con la sentenza appena citata (n. 12103 del 23/11/1995), hanno chiarito che la tesi affermativa (sostenuta da giurisprudenza risalente:

Cass. 14 maggio 1977 n. 1944; 8 maggio 1981 n. 3037; 26 agosto 1982 n. 4727; 8 agosto 1984 n. 4644) non trova riscontro nella disciplina del processo civile.

In particolare, l’opposizione del convenuto non potrebbe qualificarsi come un mero atto di impulso processuale: una simile definizione si attaglia all’ipotesi in cui, come nella previsione dell’art. 278 c.p.c., nel corso del giudizio diretto a una pronuncia di condanna specifica, l’attore faccia istanza di sentenza non definitiva di condanna generica; in tale caso l’opposizione del convenuto non fa che mantenere la causa nei limiti e nella linea della domanda originariamente proposta ed è collegata al potere giudiziale di valutare l’opportunità di pronunciare di una sentenza non definitiva. Ma nè il potere di valutazione del giudice, nè il relativo potere di sollecitazione del convenuto a una determinazione quantitativa del danno, vengono in gioco quando l’attore abbia fin dall’inizio agito per la sola condanna generica.

Il preteso potere del convenuto di opporsi alla domanda di condanna generica non può trovare giustificazione neppure nel principio di concentrazione processuale che, eccezionalmente derogabile in virtù dell’istituto della condanna generica prevista dall’art. 278 c.p.c., riprenderebbe pienamente il suo vigore per effetto dell’opposizione.

Detto principio, infatti, ha un ambito più ristretto, in quanto limitativo del diverso fenomeno del frazionamento in più sentenze non definitive della decisione sulla, peraltro già dedotta, materia del contendere. Il principio di concentrazione, quindi, ben richiamabile in una situazione regolata dall’art. 278 c.p.c., esula dalla fattispecie in cui ab origine la materia del contendere sia limitata al solo an debeatur.

Non si perviene a diverse conclusioni neppure richiamando l’art. 111 Cost., comma 2, in tema di ragionevole durata del processo. Infatti, per un verso, la “ragionevole durata” deve essere riferita al giudizio quale risulta in base alle domande formulate dalle parti e non vale a giustificare l’ampliamento dell’oggetto di una causa, il cui thema decidendum è circoscritto al solo accertamento dell’an debeatur, anche al quantum debeatur, per la cui liquidazione non è stata proposta alcuna domanda. Per altro verso, ragionando diversamente si finirebbe per appesantire – e quindi, paradossalmente, per allungare la durata- di un giudizio in cui l’interesse dell’attore ad una condanna generica risponde proprio ad esigenze di celerità della decisione.

D’altronde, porre il consenso (espresso o tacito) del convenuto come condizione di ammissibilità di procedibilità della domanda di condanna generica, finirebbe per creare una sorta di anomalo petitum provvisorio, sottoposto a condizione.

Il convenuto, tuttavia, non resta sprovvisto di tutela a fronte di una domanda di condanna generica che, in esito all’accertamento del solo an debeatur, potrebbe poi essere usata nei suoi confronti per ottenere provvedimenti cautelari o interinali.

Occorre considerare, infatti, che la condanna generica implica l’accertamento non solo del diritto leso e della lesione avvenuta, ma anche della sussistenza del danno quindi del diritto al risarcimento), ancorchè quest’ultima valutazione possa essere fatta con apprezzamento sommario e sulla base di un giudizio di semplice probabilità.

Consegue che l’esistenza del danno derivante dalla condotta contra legem addebitata al convenuto costituisce già oggetto del giudizio volto alla condanna generica, ancorchè detta parte del giudizio possa svolgersi con modalità sommarie e con valutazione probabilistica.

Di fronte a questa situazione, ben può individuarsi un interesse del convenuto alla negazione dell’esistenza di quel danno che, seppur sommariamente, è già oggetto della controversia.

La tutela del convenuto, dunque, si esplica mediante la proposizione di una domanda riconvenzionale di accertamento negativo della sussistenza del danno, su basi di certezza, volta a contrastare una domanda di accertamento positivo su basi probabilistiche.

2.6 In conclusione, va affermato il seguente principio di diritto:

“Il convenuto non può opporsi a una domanda di condanna generica, ma ha la facoltà di domandare in via riconvenzionale l’accertamento negativo della sussistenza del danno, con conseguente onere dell’attore, in tal caso, di dare piena prova dell’esistenza del danno e conseguente divieto per il giudice, ai sensi dell’art. 278 c.p.c., di rimettere la determinazione del quantum ad un separato giudizio” Sez. 3, Sentenza n. 3366 del 20/02/2015, Rv. 634518; così, nella sostanza, anche Sez. 1, Sentenza n. 25510 del 16/12/2010, Rv. 615795, sebbene nella massima ufficiale si faccia riferimento alla “facoltà di opposizione” del convenuto).

2.7 La sentenza impugnata, riconoscendo “al debitore la legittimazione a dedurre la violazione del divieto di scissione del giudizio sull’an da quello sul quantum, perchè anche il debitore ha quantomeno diritto, ai sensi dell’art. 111 Cost., ad evitare sdoppiamenti che possano comportare una dilatazione dei tempi e delle spese del processo”, non si è conformata al suesposto principio di diritto.

Le censure sono quindi fondate e la sentenza deve essere cassata anche in parte qua.

3. L’accoglimento del ricorso principale comporta la necessità di esaminare il ricorso incidentale condizionato.

Con il primo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione delle norme in materia di prescrizione, il cui termine decennale il R.D. vorrebbe far decorrere dalla data del rogito (17 novembre 1989) e non, come sostiene la corte d’appello, dalla manifestazione del danno.

Il motivo è infondato in quanto, in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, posto che essa, sia nel caso di responsabilità extracontrattuale che contrattuale, non può iniziare a decorrere prima del verificarsi del danno di cui si chiede il risarcimento, ove il danno consegua all’accoglimento giudiziale di una pretesa altrui, la prescrizione stessa inizia a decorrere soltanto dalla data del passaggio in giudicato di detto accoglimento ovvero dalla data in cui è emesso un provvedimento giudiziale suscettibile di essere posto in esecuzione (Sez. 3, Sentenza n. 26020 del 05/12/2011, Rv. 620328).

Nella specie, va rilevato che la (OMISSIS) s.r.l. ha resistito, innanzi alla giudice amministrativo, all’iniziativa del Comune di Ardea, che aveva revocato in autotutela la licenza edilizia a suo tempo concessa. Infine, la licenza è stata annullata, per violazione del vincolo archeologico, dal Consiglio di Stato con sentenza del 2007. Pertanto, solo in quel momento si è concretizzato il danno risarcibile ed è iniziato a decorrere il termine decennale per la prescrizione dell’azione di responsabilità contrattuale nei confronti del notaio.

4. Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – l’omesso esame del seguente fatto storico: il vincolo archeologico non riguardava l’intera particella catastale oggetto di permuta, bensì una parte soltanto di essa, con la conseguenza che non tutta l’area era coperta da vincolo assoluto di inedificabilità e comunque l’errore professionale sarebbe stato scusabile, data la particolare difficoltà di rilevazione del vincolo.

A parte il possibile carattere di novità della censura (che solo parzialmente sembra sovrapponibile al terzo motivo d’appello, così come descritto nella sentenza impugnata), la stessa è infondata.

Per un verso, non si coglie come l’asserita limitazione del vincolo a solo una parte della superficie di una particella catastale potesse renderne più difficile la rilevazione, dato che non vi è alcuna differenza nelle modalità di trascrizione del decreto impositivo del vincolo, tanto che esso si riferisca all’intera particella, quanto ad una parte soltanto della stessa.

Per altro verso, la doglianza non risponde ai requisiti di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, non essendo stata fornita alcuna spiegazione in ordine alla diversa efficacia causale che avrebbe avuto l’insistenza del vincolo su una parte dell’area, anzichè sull’intero.

5. Con il terzo motivo il ricorrente incidentale deduce falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e art. 1176 c.c., comma 2, artt. 2236 e 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116c.p.c., in quanto la corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulla rispondenza del suo operato ai parametri di diligenza professionale indicati dall’art. 1176 c.c..

Si tratta di questione che il R.d. ha posto fin dalla comparsa di costituzione e sulla quale, in effetti, la Corte d’appello non si è soffermata, perchè (implicitamente) assorbita dall’esito della causa.

A seguito dell’accoglimento del ricorso principale, il presente motivo è da ritenersi assorbito, perchè si tratta di questione che sarà esaminata ex novo dal giudice del rinvio, cui è demandato di rinnovare il giudizio sulla responsabilità professionale del convenuto alla luce dei principi di diritto sopra formulati.

6. Al giudice del rinvio viene demandato anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, incluse quelle relative al ricorso incidentale condizionato.

Poichè quest’ultimo è stato, nella sostanza, integralmente rigettato (la pronuncia di assorbimento del terzo motivo non implica una valutazione di fondatezza, bensì di incompatibilità dello stesso con l’accoglimento del ricorso principale), sussistono i presupposti per l’applicazione, nei confronti del ricorrente incidentale, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicchè va disposto il versamento, da parte del R.d., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).

PQM

Accoglie il ricorso principale, assorbito il terzo motivo del ricorso incidentale, rigetta nel resto il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, dal parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2017

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