Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25107 del 08/10/2019

Cassazione civile sez. I, 08/10/2019, (ud. 28/03/2019, dep. 08/10/2019), n.25107

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAMBITO Maria G.C. – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13298/2018 proposto da:

M.A., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Verde Carmine, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CAMPOBASSO, depositato il

26/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/03/2019 dal cons. SAN GIORGIO MARIA ROSARIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.-Con decreto del 26 marzo 2018 il Tribunale di Campobasso ha rigettato il ricorso proposto da M.A. avverso la decisione della Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Salerno, Sezione distaccata di Campobasso, con la quale era stato negato allo stesso il riconoscimento di alcuna forma di protezione sussidiaria ed umanitaria.

Il richiedente aveva dedotto di appartenere al clan Punjab, e che, a seguito di una grande alluvione, verificatasi il 3 settembre 2012, il suo villaggio era stato sgomberato dai militari. La sua abitazione, come il suo negozio ed il terreno coltivato da suo padre, erano stati devastati dall’alluvione. Venduto il terreno sul quale sorgeva la casa familiare, e saldata una parte dei debiti, egli stesso ed i suoi familiari avevano lasciato il Paese.

La Commissione Territoriale aveva evidenziato la vaghezza, la implausibilità e la incoerenza del racconto reso dal richiedente, peraltro sfornito di alcun documento a supporto. Aveva rilevato che in Pakistan, ed in particolare nella sua regione di provenienza, il Punjab, pur essendo presenti elementi di tensione politica, non sussisteva una situazione di violenza indiscriminata tale da comportare un rischio effettivo di danno grave per l’intera popolazione civile ovvero una minaccia grave e individuale alla sua vita, non presentando il richiedente caratteristiche specifiche implicanti esposizione ad un rischio differenziato e qualificato. Nè, ad avviso della predetta Commissione, poteva essere riconosciuta in favore dello stesso la protezione umanitaria non risultando egli affetto da stati patologici di rilievo, essendo in età adulta e non presentando elementi di vulnerabilità tali da far ritenere che il suo rientro nel Paese di origine potesse comportarne la esposizione a situazione umanitaria di particolare e grave complessità, come richiesto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il ricorrente si era sostanzialmente doluto innanzi al giudice di primo grado che la Commissione avesse ingiustificatamente ritenuto inattendibile la sua narrazione dei fatti e il rischio per la sua vita in caso di rientro in Pakistan, nonostante fosse noto che in quel Paese vi era una grave e permanente situazione di conflitto interno, caratterizzata da violenze della Polizia sulla popolazione tale da concretizzare il rischio individuale richiesto dalla legge. Aveva poi dedotto che il suo rientro forzato in Pakistan avrebbe comportato la brusca interruzione dell’intrapreso percorso di vita normale con compromissione di diritti inviolabili quali quello alla integrità psico-fisica e alla salute.

2.-A sostegno della propria decisione di rigetto del ricorso il Tribunale adito ha rilevato, quanto alla richiesta di protezione sussidiaria, che nel racconto del ricorrente non si rinviene alcun elemento specifico che colleghi il suo espatrio alle condizioni poste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, avendo egli riferito di una vicenda personale legata all’assunzione di debiti. Nè – ha osservato ancora il Tribunale di Campobasso – risulta che il Pakistan sia in preda alla guerra civile o a situazioni di conflitto interno ad essa paragonabili, mentre la violenza dovuta alle forze terroriste, secondo il più recente report del Ministero degli Esteri (consultato nel febbraio 2018), attiene solo ad alcuni territori, tra i quali non è compresa la distante regione di provenienza del ricorrente, il Punjab. Quanto al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, il Tribunale ha rilevato che il ricorrente non presenta alcuna patologia, è in età adulta e risulta privo di legami specifici e personali con l’Italia, non sussistendo, pertanto, le ragioni per la concessione dell’invocata misura.

Quanto al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, il Tribunale ha ribadito le conclusioni della Commissione in ordine alla circostanza che il ricorrente non presenta alcuna patologia, è in età adulta e risulta privo di legami specifici e personali con l’Italia, non sussistendo, pertanto, le ragioni per la concessione dell’invocata misura.

3. – Per la cassazione di tale decreto M.A. propone ricorso sulla base di un unico motivo. Resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con l’unica censura il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 deducendo il mancato approfondimento, da parte del Tribunale di Campobasso, in ordine alla situazione oggettiva del Paese di origine del ricorrente. Il giudice di prima istanza si sarebbe limitato a fare riferimento ad un non meglio identificato report del Ministero degli Esteri, consultato nel febbraio del 2018, dal quale non risulterebbe che il Pakistan sia in preda alla guerra civile o a situazioni di conflitto interno ad essa paragonabili, ed emergerebbe che la violenza dovuta alle forze terroriste riguardi solo alcuni territori del Paese, tra i quali non sarebbe compresa la regione di provenienza del ricorrente, tra l’altro distante da detti territori. Il giudice di primo grado non si sarebbe fatto carico nè di dare contezza della fonte cui si sarebbe rifatto, nè di dare accesso alle fonti qualificate, pur indicate dall’istante, in ordine alla attuale situazione della regione del Punjab, dalle quali risulterebbe una condizione di violenza indiscriminata esistente nella predetta regione.

Il ricorrente aggiunge che, alla stregua della interpretazione della Corte di Giustizia UE (17 febbraio 2009, C-465/07, Elgafaij), cui i giudici nazionali sono vincolati, l’asserita inverosimiglianza e contraddittorietà della narrazione operata dal ricorrente della sua situazione personale non potrebbe essere motivo di esclusione della protezione sussidiaria, poichè quando la situazione del Paese sia fuori del controllo della violenza non è necessaria la individualizzazione della minaccia o del pericolo in quanto desumibili dalla situazione oggettiva. Per le medesime ragioni il ricorrente contesta altresì il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, non riconducibile alle sole previsioni del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ma attribuibile anche nei casi di temporanea impossibilità di rimpatrio a causa dell’insicurezza del Paese o della zona di origine.

2. – Il ricorso è infondato.

2.1. – Deve premettersi che, secondo quanto risulta dal ricorso, il ricorrente si duole del mancato riconoscimento anzitutto della protezione sussidiaria, ed, in subordine, di quella umanitaria.

Ciò posto, si rileva che il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) e h) conformemente al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g), definisce “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il “cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può, o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

La definizione di “danno grave” è fornita dal successivo art. 14, il quale lo identifica: a) nella condanna a morte; b) nella tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante; c) nella minaccia grave e individuale alla vita derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Questa Corte è già reiteratamente intervenuta a chiarire quale sia, nell’ambito della domanda di protezione sussidiaria, il riparto degli oneri di allegazione e prova, ed in qual senso debba essere intesa la nozione di “cooperazione istruttoria” invocata dal ricorrente, ricondotta alla previsione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 in particolare comma 5. Anzitutto, l’attenuazione del principio dispositivo in cui la “cooperazione istruttoria” consiste si colloca non dal versante dell’allegazione, ma esclusivamente da quello della prova: chè, anzi, l’allegazione deve essere adeguatamente circostanziata, dovendo il richiedente presentare “tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la… domanda”, ivi compresi “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (D.Lgs. n. 251 del 2007m, art. 3, commi 1 e 2), con la sostegno, le dichiarazioni del richiedente sono considerati veritiere soltanto, tra l’altro, “se l’autorità competente a decidere… ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 5).

Sicchè, come ribadito anche di recente (v., ex aliis, Cass., 3016 del 2019) solo quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto l’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante si registrino fenomeni tali da giustificare l’accoglimento della domanda nella fattispecie anche in questo caso oggettivamente dedotta, ossia ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 14, lett. c), ((v., ex aliis, Cass. 3016 del 2019 cit., n. 17069 del 2018). Per converso, se l’allegazione manca, l’esito della domanda è segnato, in applicazione del principio secondo cui la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 28 settembre 2015, n. 19197).

Vale inoltre osservare che, una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria – id est di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari – è circoscritto alla verifica della situazione obbiettiva del paese di origine, e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente. In particolare (v. Cass. 31 maggio 2018, n. 14006; Cass. 31 maggio 2018, n. 13858), in tema di protezione sussidiaria dello straniero, prevista nella già citata fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica, alternativamente:

-) una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale;

-) ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel Paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza su quel territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia.

E’ allora di tutta evidenza che, mentre il giudice è anche d’ufficio tenuto a verificare -elettivamente, ma non esclusivamente, attraverso lo scrutinio dei c.d. c.o.i., country of origin informations – se nel paese di provenienza sia oggettivamente sussistente una situazione di violenza indiscriminata talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente, egli non può essere chiamato – nè d’altronde avrebbe gli strumenti per farlo – a supplire a deficienze probatorie concernenti la situazione personale del richiedente, dovendo a tal riguardo soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista nel suo complesso dal già citato art. 3, comma 5.

2.2. – Nel caso in esame, la denuncia di inosservanza dell’obbligo di cooperazione istruttoria è ingiustificata. Ed infatti il giudice di merito ha tenuto ben distinto il piano della situazione personale del richiedente da quello della situazione complessiva del Paese di provenienza. Quanto al primo aspetto, con valutazione non sindacabile in questa sede, ha ritenuto che il racconto del ricorrente fosse palesemente generico e carente nell’allegazione di dettagli specifici.

Peraltro, il Tribunale, pur avendo dato atto delle lacune nell’allegazione da parte del richiedente di fatti specifici in ordine al timore di subire una minaccia grave ed individuale derivante dalla situazione di asserita instabilità politico-sociale della regione di origine – ha, comunque, adempiuto l’obbligo di cooperazione istruttoria officiosa allo scopo di escludere l’esistenza nel Paese di origine del richiedente di una condizione di tensione interna derivante da conflitti armati di tale virulenza da esporre ad un danno grave la vita di chiunque per il solo fatto della presenza in quel luogo, e lo ha fatto correttamente attingendo le informazioni sul paese d’origine del richiedente da una fonte del Ministero degli Affari Esteri, figurante tra quelle che, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, possono essere prese in considerazione dalla Commissione Nazionale sul diritto di asilo allo scopo di elaborare le informazioni da mettere a disposizione delle Commissioni territoriali e dell’Autorità giudiziaria.

Deve, infatti, reputarsi priva di pregio la deduzione difensiva secondo la quale la fonte del Ministero degli Affari Esteri compulsata dal Tribunale, non sarebbe dotata della stessa affidabilità della quale godrebbero altri serbatoi conoscitivi (quali quelli messi a disposizione da organismi internazionali quali Amnesty International, Institute for Economics and Peace, Human Rights Watch), di modo che l’Autorità giudiziaria non potrebbe giovarsi delle informazioni circa la situazione generale esistente nel Paese di origine del richiedente la protezione internazionale da essa desunte, posto che si tratta di interpretazione della disposizione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 contro la quale militano plurimi argomenti di ordine testuale, sistematico e logico.

2.3. – L’analisi dell’enunciato normativo, che giustappone il Ministero degli Affari esteri all’UNHCR, all’EASO, ad altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, depone già per la piena equiparazione dei dati conoscitivi forniti dal Ministero degli Affari Esteri a quelli tratti dalle altre fonti qualificate enumerate nel richiamato contesto dispositivo. Ma tale rilievo testuale trova sostegno in altri indici normativi: segnatamente in quello offerto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2-bis – introdotto dal D.L. n. 113 del 2018, conv. in L. n. 132 del 2018 – che ha attributo proprio al Ministro degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, il compito di adottare, con decreto, l’elenco – suscettibile di essere aggiornato nel tempo – dei Paesi di origine sicuri, valutati come tali sulla base dei criteri di cui al comma 2, stesso art.; come anche in quello ritraibile dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 5, comma 1, che, nell’assegnare alla Commissione nazionale per il diritto di asilo il compito della costituzione e dell’aggiornamento di un centro di documentazione sulla situazione socio-politico-economica dei Paesi di origine dei richiedenti, ha disposto che tale organismo mantenga rapporti di collaborazione con il Ministero degli affari esteri. Si tratta, infatti, di competenze che trovano il proprio fondamento nella possibilità del detto dicastero di usufruire di notizie, affidabili ed aggiornate, sulla situazione interna dei Paesi di origine dei richiedenti la protezione internazionale perchè attinte direttamente non solo dalle rappresentanze diplomatiche dello Stato accreditate presso i Paesi esteri, ma anche da fonti governative di quei paesi e da privilegiati canali informativi internazionali.

Peraltro la giurisprudenza, anche di recente, ha statuito che, in tema di protezione sussidiaria dello straniero prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il giudice, al fine di valutare l’eccezionalità della situazione di conflitto armato esistente nel Paese di origine del richiedente, posta a base della domanda, deve acquisire, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, le informazioni elaborate dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo sulla base dei dati forniti dall’ACNUR e dal Ministero degli Affari Esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello nazionale (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 25083 del 23/10/2017, Rv. 647042 – 01).

Se ne è concluso che, in tema di accertamento delle condizioni di legge per il riconoscimento della protezione internazionale, ed in particolare della protezione sussidiaria, il dovere di cooperazione istruttoria officiosa che incombe sulle Autorità decidenti – ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27, comma 1-bis, – circa la situazione del Paese di origine del richiedente, è correttamente adempiuto attingendo le necessarie informazioni anche dai rapporti conoscitivi elaborati dal Ministero degli Affari Esteri, integrando gli stessi fonti qualificate, sia perchè equiparati a quelli elaborati da altri organismi riconosciuti come di comprovata affidabilità, sia perchè provenienti da un dicastero istituzionalmente dotato di competenze, informative e collaborative, nella materia della protezione internazionale (cfr. Sez. I, n. 11106 del 2019).

2.4. – La doglianza che si dirige sul diniego di protezione umanitaria è, infine, inammissibile, risultando, pertanto, irrilevante – anche ove ritenuto applicabile – lo ius superveniens costituito dal D.L. 4 ottobre 2018 n. 113, convertito in L. n. 132 del 2018.

Al riguardo, è sufficiente ribadire che, alla stregua della più recente giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 17072 del 2018; n. 4455 del 2018), non solo l’intrinseca inattendibilità del racconto del ricorrente, affermata dai giudici di merito, costituisce ragione sufficiente per negare anche la protezione di cui trattasi, ma, vieppiù, il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza non integra, di per sè solo ed astrattamente considerato, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria: ciò in quanto “il diritto al rispetto della vita privata – tutelato dall’art. 8 CEDU (…) – può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione ed il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero (…) non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale” (cfr. Corte EDU, sent. 08/4/2008, ric. 21878/06, caso Nnyanzi C. Regno Unito, par. 72 ss.). In altri termini, la riscontrata non individualizzazione dei motivi umanitari non può essere surrogata dalla situazione generale del Paese, perchè, altrimenti, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma, piuttosto, quella del suo Stato d’origine in termini del tutto generali ed astratti.

Nel caso di specie, dunque, mentre la decisione del giudice di merito, laddove ha escluso la sussistenza di individualizzate ragioni ostative al rimpatrio, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, la censura spiegata sul punto dal ricorrente è del tutto generica, limitandosi essa a replicare quanto dedotto circa la minaccia di un grave danno alla persona derivante dal forzato rientro nel paese d’origine.

3. Per quanto sopra esposto, il ricorso va rigettato e il ricorrente condannato al rimborso, in favore del Ministero controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 per compenso, oltre alle spese prenotate a debito. “Non ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, essendo stato il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del Ministero controricorrente, delle spese sostenute per il presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 per compenso, oltre alle spese prenotate a debito. Non ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 9 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2019

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