Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25106 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 10/11/2020, (ud. 13/02/2020, dep. 10/11/2020), n.25106

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. PERRINO Angel – Maria –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 10489 del ruolo generale dell’anno 2012

proposto da:

Lucar s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso,

dagli Avv.ti Augusto Fantozzi e Roberto Esposito, elettivamente

domiciliata in Roma, via Sicilia, n. 66, presso lo studio dei

medesimi difensori;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato,

presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è

domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Veneto, 10/08/2012, depositata in data 30 gennaio

2012;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 febbraio 2020

dal Consigliere Giancarlo Triscari;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore

generale Dott.ssa Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del quarto, quinto e sesto motivo di ricorso ed il

rigetto degli ulteriori motivi;

udito per la società l’Avv. Giovanni Mameli e per l’Agenzia delle

entrate l’Avvocato dello Stato Francesco Meloncelli.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Lucar s.r.l., esercente attività di vendita di autovetture nuove ed usate, due avvisi di accertamento con i quali, relativamente agli anni di imposta 2003 e 2004, aveva contestato, per quanto di interesse, l’illegittima detrazione dell’Iva sulle fatture passive ricevute dalla società Euromotor s.r.l. per la vendita di autovetture in favore della ricorrente, atteso che si trattava di operazioni soggettivamente inesistenti, nonchè la mancanza indicazione di dati obbligatori sulle schede carburanti e la sopravvalutazione delle rimanenze, rettificando, di conseguenza, le dichiarazioni dei redditi per i suddetti anni ed accertando un maggiore reddito di impresa; avverso i suddetti avvisi di accertamento la società aveva proposto separati ricorsi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Venezia che, previa riunione, li aveva parzialmente accolti; avverso la pronuncia del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello principale e la società appello incidentale. La Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello principale dell’Agenzia delle entrate, in particolare ha ritenuto che: gli avvisi di accertamento erano correttamente motivati; nella vicenda in esame, costituiva elemento indiziario rilevante la circostanza che l’acquisto delle autovetture nuove era avvenuta a prezzi “sottocosto” rispetto a quelli di listino o comunque fuori mercato e che non era occasionale; l’onere della prova nelle controversie concernenti operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti della legittima detrazione dell’Iva gravava sulla contribuente, la quale, pertanto, doveva provare la propria buona fede; con riferimento alla questione dei costi documentati da schede carburanti, i campi obbligatori dei moduli erano da considerarsi essenziali ai fini della valutazione di inerenza e congruità dei costi; era da considerarsi illegittima la sopravvalutazione delle rimanenze finali dell’anno 2003.

Avverso la pronuncia ha proposto ricorso la società contribuente affidato a dodici motivi di censura, illustrato con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere pronunciato sulla questione della inammissibilità dell’appello, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, in quanto non conteneva motivi specifici posti a fondamento delle ragioni di censura.

2. Con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, per non avere dichiarato inammissibile l’appello dell’Agenzia delle entrate che si era limitata ad una pedissequa ripetizione delle difese svolte nella prima fase del giudizio, senza esprimere alcuna censura alla statuizione dei giudici di prime cure e riproponendo solo le medesime ragioni di contestazione dei ricorsi introduttivi.

2.1. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla medesima questione della inammissibilità dell’atto di appello dell’Agenzia delle entrate, sono infondati.

2.1.1. In primo luogo, va osservato che il giudice del gravame ha dato atto della circostanza che la società aveva eccepito l’inammissibilità dell’appello per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, in quanto mancante della indicazione degli specifici motivi di impugnazione e, sebbene non si pronunci espressamente su tale eccezione, dà comunque atto (pag. 2, rigo 22), del fatto che l’appello proposto dall’ufficio censura sotto diversi profili i passaggi della sentenza e, a tal proposito, individua e sintetizza specificamente i singoli motivi di appello;

risulta, in tal modo, che il giudice del gravame ha mostrato di avere preso contezza della specifica riconducibilità di ciascun motivo di appello ai diversi punti della decisione oggetto di impugnazione nonchè del fatto che, mediante i suddetti motivi, era stata proposta una critica non generica, ma specifica rispetto ai singoli passaggi della decisione di primo grado.

Va quindi osservato che non è configurabile il vizio di omesso esame di una questione (connessa ad una prospettata tesi difensiva) o di una eccezione di nullità (ritualmente sollevata o rilevabile di ufficio) costituenti punti decisivi della controversia, quando debba ritenersi che tali questioni e eccezioni siano state esaminate e decise, sia pur con pronuncia implicita, nel senso della loro irrilevanza o infondatezza in quanto superate e travolte pur se non espressamente trattate, dalla incompatibile soluzione data ad altra questione (o domanda) il cui solo esame comporti e presupponga, come necessario antecedente logico-giuridico, la detta irrilevanza o infondatezza.

Nella specie, il giudice del gravame ha, come visto, dapprima dato atto della proposizione dell’eccezione di inammissibilità dell’appello proposta dalla contribuente, ma, correlativamente, ha specificamente indicato il contenuto dei diversi motivi di appello proposti dall’Agenzia delle entrate, valutandone, di conseguenza, la fondatezza nel merito, il che porta a considerare, logicamente, l’implicito rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello per l’asserita genericità dei sottostanti motivi.

2.2. In secondo luogo, con riferimento al secondo motivo di ricorso, va ulteriormente ribadito che questa Corte (Cass. Civ., 20 dicembre 2018, n. 32954) ha affermato che: “Nel processo tributario la riproposizione a supporto dell’appello delle ragioni inizialmente poste a fondamento dell’impugnazione del provvedimento impositivo (per il contribuente) ovvero della dedotta legittimità dell’accertamento (per l’Amministrazione finanziaria), in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall’atto di gravame, interpretato nel suo complesso, le ragioni di censura siano ricavabili, seppur per implicito, in termini inequivoci”.

2.3. E’ stato altresì, precisato, da questa Corte (Cass. civ., 19 dicembre 2017, n. 30393) che: “nel processo tributario, ove l’Amministrazione finanziaria ribadisca e riproponga in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dal citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 (Cass., 22.3.2017, n. 7369), atteso il carattere devolutivo pieno dell’appello, mezzo quest’ultimo non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito”.

3. Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56 nonchè dell’art. 24, Cost., per avere ritenuto motivati gli avvisi di accertamento nonostante non fosse stato allegato nè riportato il contenuto del processo verbale di constatazione n. 13/2004, sebbene lo stesso fosse stato richiamato nei suddetti avvisi.

3.1. Il motivo è infondato.

Con il motivo di ricorso in esame parte ricorrente si limita a censurare la pronuncia del giudice del gravame in quanto la mancata allegazione del processo verbale di constatazione n. 13/2004 avrebbe leso il proprio diritto di difesa, non essendo stata posta nelle condizioni di avere conoscenza del contenuto del suddetto atto, meramente richiamato ma non allegato.

A tal proposito, va osservato che, in realtà, il giudice del gravame ha espresso la propria valutazione in ordine al contenuto degli avvisi di accertamento ed ha ritenuto che non vi era stata alcuna violazione del diritto di difesa della società, tanto che la stessa aveva provveduto a predisporre un’ampia e articolata difesa.

La suddetta valutazione non è in contrasto con le previsioni normative indicate dalla ricorrente, in quanto la questione della completezza motivazionale dell’avviso di accertamento va esaminata tenendo conto del contenuto in sè del suddetto atto, cioè della circostanza che lo stesso contenga gli elementi sufficienti per potere consentire al destinatario di avere conoscenza degli elementi di fatto e di diritto sui quali si fonda la pretesa dell’amministrazione finanziaria.

La circostanza, invero, della mancata allegazione del processo verbale di constatazione in esame è stata superata, in fatto, dalla considerazione espressa dal giudice del gravame in ordine alla insussistenza della lesione del diritto di difesa della, società contribuente, profilo che presuppone, a monte, la valutazione della sufficienza motivazionale della pretesa impositiva.

4. Con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, come modificato dal D.L. n. 16 del 2012, in riferimento alla deducibilità dei costi sostenuti per gli acquisti effettuati dalla società venditrice Euromotor s.r.l., sia in quanto l’operazione non era riconducibile ad una ipotesi di reato sia tenuto conto dello ius superveniens di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8.

4.1. Il motivo è fondato.

Il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, sostituendo della L. n. 537 del 1993, il comma 4-bis ha reso possibile, a determinate condizioni, la deducibilità di costi collegati a reati, con esclusione però dei costi e delle spese “direttamente utilizzati” per il compimento di attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale.

Il nuovo art. 14, comma 4-bis, dopo l’intervento modificativo sopra citato, prevede che “nella determinazione dei redditi di cui del testo unico delle imposte sui redditi, art. 6, comma 1,…. non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p.. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p. ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”.

Il medesimo D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 2, prevede, poi, che “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese e/o altri componenti negativi”.

Dell’art. 8, il successivo comma 3, infine, detta la disciplina transitoria, con effetto retroattivo delle norme se più favorevoli al contribuente (“le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che provvedimenti emessi in base al citato comma 4 bis previgente non si siano resi definitivi”), con rilievo anche d’ufficio da parte del giudice (Cass. civ., 24 luglio 2018, n. 19617).

Va, quindi, precisato che il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, non concerne i costi relativi ad operazioni in tutto o in parte inesistenti, mentre trova applicazione per i costi relativi a fatture soggettivamente inesistenti, in quanto in tale seconda ipotesi il costo riportato in fattura è effettivo e, di regola, non è utilizzato per la commissione di alcun reato.

Poichè nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 (Cass. Civ., 30 ottobre 2018, n. 27566).

Ne consegue, dunque, che ai soggetti coinvolti nelle frodi carosello non è più contestabile, in relazione alla novella, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, ma, salvo prova contraria, per essere commercializzati e venduti.

Questa Corte (Cass. civ., 12 dicembre 2019, n. 32587; Cass. civ., 30 ottobre 2018, n. 27566), in materia di deducibilità dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti ha, quindi, affermato il seguente principio di diritto: In tema di imposte sui redditi e di Irap ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis, come modificato dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, convertito in L. n. 44 del 2012, con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti nseriti o meno in una frode carosello – per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza e determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo”

La pronuncia censurata, pertanto, non è in linea con la previsione normativa sopravvenuta, laddove, con riferimento alla questione della deducibilità dei costi, ha ritenuto che il criterio di riconducibilità del costo ad una attività illecita non può essere disatteso.

5. Con il quinto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per omessa motivazione e violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4), e dell’art. 111 Cost., in relazione all’eccepita violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis.

6. Con il sesto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere omesso di pronunciare sulla questione della violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis.

6.1. L’esame dei suddetti motivi di ricorso è assorbito dalle considerazioni espresse con riferimento al quarto motivo di censura.

7. Con il settimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa prova circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, consistente nella mancata indicazione degli elementi sulla base dei quali è stata ritenuta sussistente la prova della consapevolezza della frode da parte della società e della sua collusione con la società venditrice Euromotor s. r. l..

8. Con l’ottavo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione degli artt. 2697 e 2727 c.c., in relazione al riparto dell’onere di prova della inesistenza della società venditrice Euromotor s.r.l..

9. Con il nono motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, consistente nella circostanza che sia i prezzi di acquisto sostenuti dalla ricorrente che quelli di rivendita praticati dalla stessa fossero in linea con quelli di mercato.

10. Con il decimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, per avere negato la detraibilità dell’Iva da essa assolta sugli acquisti effettuati da Euromotor s.r.l. senza che vi fosse prova del coinvolgimento della medesima nella presunta frode.

10.1. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto riguardano la questione della sussistenza degli elementi di prova presuntiva necessari ai fini della legittimità della pretesa in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, sono fondati.

Va preliminarmente osservato che la ragione della ripresa fatta valere dall’amministrazione finanziaria riguardava la realizzazione di operazioni di acquisto soggettivamente inesistenti, in particolare di autovetture da un fornitore fittizio (Euromotor s.r.l.) per acquisti intracomunitari, che si sarebbe frapposto tra l’acquirente e l’effettivo venditore (vd. pag. 5, ricorso).

Si tratta, dunque, di verificare se, rispetto a tale impostazione di fondo, la pronuncia censurata abbia correttamente provveduto all’accertamento della fattispecie e, inoltre, se, con riferimento alla detraibilità dell’Iva, abbia fatto corretta applicazione dei criteri di riparto dell’onere della prova.

10.2. Questa Corte (Cass. civ., 20 aprile 2018, n. 9851) ha precisato che, quando si contesti dall’amministrazione finanziaria l’illegittima detrazione dell’Iva in quanto relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti: 1) ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta; 2) la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente; 3) incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi.

10.3. Con riferimento al caso di specie, è fatto non contestato che il fornitore, cioè Euromotor s.r.l., era un soggetto effettivamente esistente, e che gli acquisti erano stati effettivi.

Il giudice del gravame, invero, precisa, in primo luogo, che “Dal verbale di constatazione in atti risultava la prova della collusione della Lucar s.r.l. con un altro soggetto dell’operazione, Euromotor s.r.l., e che gli acquisti erano stati realmente effettuati, così valorizzando, con quest’ultima affermazione, un dato affatto irrilevante” e, successivamente, evidenzia che, i profili relativi agli aspetti meramente formali in ordine alla esistenza della società Euromotor s.r.l. erano del tutto fuorvianti ed irrilevanti, tenuto conto del fatto che “l’Ufficio non ha contestato l’adeguata “struttura materiale” della Euromotor s.r.l., nè la sua apparente “normalità” soggettiva”.

In realtà, quel che si evince dalla motivazione della sentenza è il fatto che la stessa non ha escluso l’effettività dell’acquisto da parte di Euromotor s.r.l., ma ha ricondotto la vicenda, piuttosto, nell’ambito di un coinvolgimento della società ricorrente ad un meccanismo di frode il cui elemento caratterizzante era costituito dall’acquisto di autovetture nuove a prezzo sottocosto rispetto ai prezzi di listino o comunque fuori mercato, circostanza di cui la stessa non poteva non essere a conoscenza, e ne ha inferito che la stessa non aveva tenuto un comportamento diligente e non aveva dato prova della propria buona fede.

Tale considerazione assume particolare rilievo.

Si è detto che, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti è, in primo luogo, l’amministrazione finanziaria che deve fornire la prova della fittizietà del fornitore e della consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, cioè che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale.

Ora, se da un lato, come visto, il giudice del gravame non ha in alcun modo accertato l’inesistenza soggettiva della Euromotor s.r.l., d’altro lato, ha individuato, come fattore indice della fittizietà dell’operazione, l’avvenuto acquisto delle autovetture a prezzi fuori mercato e la non occasionalità di rapporti intercorrenti tra le due società concessionarie.

Tuttavia, rispetto a tali considerazioni, che hanno costituito i punti centrali del percorso motivazionale seguito dal giudice del gravame, parte ricorrente ha evidenziato e specificato (vd. pag. 75,76), in primo luogo, che la società Euromotor operava nel commercio da circa sei anni ed era il concessionario ufficiale della casa automobilistica Lotus e che le vetture acquistate erano state complessivamente 33 (16, su un totale di 1812, nel 2003, e 17, su un totale di 1848, nel 2004, vd. pag. 78).

Inoltre, con riferimento ai prezzi praticati da Euromotor, parte ricorrente ha evidenziato che gli stessi erano in linea con le quotazioni ufficiali di mercato e, a tal proposito, ha evidenziato che sin con i ricorsi introduttivi aveva allegato un prospetto nel quale per ogni singola vettura era indicato il prego di acquisto da essa corrisposto, quello di listino desunto da una rivista specializzata e quello di vendita in favore dei propri clienti e, analogo prospetto, ha riprodotto in questa sede (pag. 87-89).

Le suddette circostanze assumono particolare rilievo ai fini della valutazione dei presenti motivi di ricorso, in particolare ai fini della sussistenza dei presupposti per la legittimità della contestazione alla ricorrente di avere partecipato ad una frode fiscale in relazione a operazioni soggettivamente inesistenti: il profilo di particolare rilievo attiene alla prova della consapevolezza della contribuente che le operazioni si inserivano in una evasione dell’imposta.

Va quindi considerato, in primo luogo, che l’effettività dell’esistenza della società Euromotor s.r.l., accertata dal giudice del gravame, nonchè gli ulteriori elementi fattuali riproposti in questa sede dalla contribuente, costituiscono fattori che incidono sulla configurabilità dell’elemento oggettivo della natura di operazioni soggettivamente inesistenti in esame, posto che non viene indicato dal giudice del gravame alcun elemento sulla cui base fondare la natura di soggetto interposto fittizio della suddetta società, anzi, l’accertamento in fatto dovrebbe condurre a una valutazione in senso contrario.

Ma tale circostanza, unitamente a quella relativa al prezzo di acquisto delle autovetture da parte della ricorrente, assume rilevanza anche ai fini della individuazione dell’elemento soggettivo della operazione in esame, cioè della sussistenza degli elementi indiziari della condizione di mala fede della medesima ricorrente.

Va, infatti, osservato che la ragione della contestazione della natura di operazioni soggettivamente inesistenti era stata fondata dall’amministrazione finanziaria sulla circostanza che la ricorrente aveva acquistato ad un prezzo inferiore rispetto a quanto, a sua volta, il fornitore le aveva pagate (vd. processo verbale di constatazione, riprodotto a pag. 5, ricorso).

Tuttavia, una volta dimostrato dalla ricorrente, secondo gli elementi indiziari anche in questa sede posti in evidenza, che la stessa aveva acquistato, per quanto la riguardava, a prezzi in linea con quelli di mercato, il problema si sposta, allora, sulla condotta dalla stessa esigibile al fine di conoscere che, a propria volta, la propria venditrice, di cui, peraltro, il giudice del gravame ha accertato l’effettiva operatività, aveva acquistato a prezzi superiori rispetto a quelli successivamente applicati alla contribuente, profilo che, comunque, deve essere analizzato secondo il principio di corretto riparto dell’onere della prova.

La sentenza censurata, dunque, risulta non in linea con i principi espressi da questa Corte in ordine al riparto dell’onere di prova e degli elementi indiziari sui quali fondare la sussistenza di operazioni soggettivamente inesistenti, sia sotto il profilo della violazione di legge che del vizio di motivazione, secondo quanto sopra indicato.

11. Con l’undicesimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per insufficiente motivazione in merito al rilievo relativo alla contestazione sulla valutazione delle rimanenze di magazzino, per avere ritenuto legittima la pretesa dell’amministrazione finanziaria, relativa alla illegittima sopravvalutazione delle rimanenze di magazzino, nonostante la società non avesse mai operato delle rettifiche in aumento o in diminuzione della dichiarazione dei redditi, ma si era limitata a sopravvalutare le rimanenze finali riportandole nel periodo di imposta successivo.

In particolare, si evidenzia che, diversamente da quanto sostenuto dal giudice del gravame, la società non aveva operato delle rettifiche in aumento e in diminuzione nell’ambito della dichiarazione dei redditi, ma si è limitata a sopravvalutare le rimanenze finali a livello civilistico e fiscale, riportandole tali e quali nei periodOdi imposta successivo.

11.1. Il motivo è infondato.

Parte ricorrente fonda la ragione di doglianza affermando che non aveva operato rettifiche in aumento o in diminuzione della dichiarazione dei redditi, ma una mera sopravvalutazione delle rimanenze finali, ma il motivo Ed in esame è privo di autosufficienza, in quanto si limita genericamente a fare riferimento ai bilanci 2003 e 2004 e relativi raccordi civilistico fiscali, allegati n. 5 e 6 al processo verbale di constatazione, senza, tuttavia, specificare o riprodurne il contenuto, in modo da consentire a questa Corte di apprezzare la rilevanza della contestazione.

Va, peraltro, osservato che il nucleo centrale della decisione del giudice del gravame sul punto è incentrato sulla considerazione che la ricorrente aveva utilizzato, in sede di contabilizzazione delle rimanenze iniziali, un diverso criterio di valutazione rispetto a quello delle rimanenze finali, con conseguente legittimo riferimento all’art. 59, comma 1, TUIR e tale accertamento in fatto non risulta contestato dalla ricorrente con il presente motivo di ricorso.

12.Con il dodicesimo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 59 (ora 92) in quanto la previsione normativa in esame consente al contribuente di adottare qualsiasi metodo di valutazione, a condizione che il valore attribuito alle rimanenze non sia inferiore a quello “minimale” che si ottiene in applicazione dei criteri previsti dal medesimo articolo.

12.1. Il motivo è infondato.

Lo stesso, invero, orientato a consentire l’adozione di qualsiasi metodo di valutazione, a condizione che il valore attribuito alle rimanenze non sia inferiore a quello “minimale” che si ottiene in applicazione dei criteri previsti dal medesimo articolo, non tiene conto della ratio decidendi della pronuncia censurata, fondata sull’applicabilità al caso di specie della specifica previsione di cui all’art. 59, comma 3-bis, TUIR, secondo cui, Per le imprese che valutano in bilancio le rimanenze finali con il metodo della media ponderata o del “primo entrato, primo uscito” o con varianti di quello di cui al comma 3, le rimanenze finali sono assunte per il valore che risulta dall’applicazione del metodo adottato.

E’ proprio su tale considerazione di fondo che il giudice del gravame ha, successivamente, precisato il principio della uniformità del criterio di valutazione delle rimanenze adottato e che sia improntato a criteri di prudenza.

Tale affermazione è in linea con l’indirizzo giurisprudenziale consolidato di questa Corte, secondo cui, in materia di determinazione del reddito d’impresa, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 59 (attuale art. 92, T.U.I.R.), successivamente modificato dal D.L. 29 giugno 1994, n. 416, art. 1, comma 1, convertito con modificazioni nella L. 8 agosto 1994, n. 503, postula in campo tributario il cosiddetto principio di continuità dei valori di bilancio, per cui le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali dell’esercizio successivo e le reciproche variazioni concorrono a formare il reddito d’esercizio (Cass. civ. 26 settembre 2018, n. 22932).

In conclusione, sono fondati il quarto, settimo, ottavo, nono e decimo motivo di ricorso, infondati il primo, secondo, terzo, undicesimo e dodicesimo, assorbiti il quinto e il sesto, con conseguente cassazione della sentenza per i motivi accolti e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il quarto, settimo, ottavo, nono e decimo motivo di ricorso, infondati il primo, secondo, terzo, undicesimo e dodicesimo, assorbiti il quinto e il sesto, cassa la sentenza impugnata per i motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 13 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

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