Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25102 del 10/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 10/11/2020, (ud. 02/10/2019, dep. 10/11/2020), n.25102

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. MUCCI Roberto – Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28559-2016 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ITALFONDIARIO SPA, domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR presso la

cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli

Avvocati ANTONIO SGARRELLA, CRESCENZO RUBINETTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4789/2016 della COMM.TRIB.REG. di MILANO,

depositata il 20/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

02/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE D’AURIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La vicenda giudiziaria trae origine dal diniego implicito opposto dalla Agenzia delle Entrate alla richiesta del contribuente circa il recupero del credito iva versata in eccesso ed indicato nella dichiarazione iva annuale per il periodo di imposta 1994, utilizzando il modello (all’epoca vigente) iva 11 regime nazionale rimborso, in cui emerge al quadro L. rigo L25 un credito Iva per Lire 162187000, (pari ad Euro 8376259,00).

In particolare tale credito, indicato anche nel bilancio di liquidazione della società Urbio, originario creditore, era pervenuto per effetto di cessione, notificata anche al debitore, alla Spa Italfondiario attuale parte processuale.

A seguito di ricorso della Italfondiario, la Commissione Tributaria Provinciale riteneva l’esistenza del diritto di credito richiesto indicato in dichiarazione.

Avverso la predetta sentenza, proponeva appello l’agenzia delle Entrate ribadendo l’inammissibilità del ricorso e la mancata presentazione della dichiarazione in cui sarebbe stato esposto il credito oggetto di lite.

La commissione regionale della Lombardia confermava la decisone impugnata.

Propone ricorso in Cassazione l’Agenzia Delle Entrate che si affidava a due motivi così sintetizzabili:

Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 1 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 1, comma 3;

violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 28 e dell’art. 2697 c.c..

Si costituiva con controricorso il resistente chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo ed il secondo motivo di gravame il ricorrente rilevava il vizio di violazione di legge avendo affermato che il credito sussisteva solo perchè inserito in dichiarazione, non considerando che per i crediti di natura fiscale la mancanza del controllo non cristallizza il credito esposto, nonchè la violazione del principio dell’onere della prova gravante sul contribuente.

Entrambi i motivi stante l’intima connessione vanno esaminati congiuntamente, in quanto l’onere della prova e la violazione di legge come prospettato, rappresentano due facce della stessa medaglia.

Invero occorre premettere che nel giudizio di appello l’Agenzia aveva incentrato la propria difesa, sia sulla inammissibilità del ricorso (motivo non più coltivato in questo grado) che sulla sola circostanza che la dichiarazione in cui era stato inserito il credito non sarebbe stata mai presentata come si rileva dalla sentenza impugnata. Il giudice del gravame doveva quindi solo esaminare tale ultima doglianza puntualmente svolta, avendo dato atto del deposito della raccomandata con ricevuta di ritorno della trasmissione della dichiarazione (come ordinariamente avveniva all’epoca) e dell’esame della dichiarazione in cui era indicato il credito. Tale accertamento di fatto oggi non può essere minimamente attaccato visto che la valutazione delle prove e dei documenti spetta esclusivamente al giudice di merito. Invero il ricorrente non coglie l’essenza della decisione impugnata che nel respingere l’appello, ha ritenuto assolto l’onere probatorio da parte del contribuente, come già valutato dal giudice di primo grado, avendo preso in considerazione anche il comportamento delle parti come il silenzio serbato dall’Agenzia sia sull’istanza di rimborso che in sede di notifica della cessione del credito, da considerare sospetto in quanto è tipico dei debitori che non hanno argomenti da apporre.

In altri termini il giudice di appello si è soffermato, così come richiesto solo sul punto dedotto in appello in base al cogente principio tanto devoluto tanto appellato, evidentemente secondo l’appellante in grado, ove accolto, di travolgere l’intero processo logico in base al quale era stato ritenuto provato il diritto al rimborso. Del resto alla luce dell’art. 111 Cost., va ricordato che per principio generale, (di cui è permeato il sistema processuale civile, compreso quello tributario), entrambe le parti processuali hanno l’obbligo di collaborare per circoscrivere la materia realmente controversa Tale principio poggia le proprie basi sia sul tenore degli artt. 416 e 167 c.p.c., sia anche sul carattere dispositivo del processo che anche in ambito tributario prevede preclusioni successive, nonchè sul dovere di lealtà e probità posto a carico delle parti dall’art. 88 c.c.. In particolare, proprio la struttura ontologicamente dialettica del processo tributario, e nel caso il contraddittorio era stata addirittura anticipata alla fase endo-procedimentale amministrativa, implica che soprattutto il momento probatorio sia dominato da un generale onere collaborativo delle parti in funzione di una sollecitazione semplificatoria. Inoltre, il principio di ragionevole durata del processo non è e non può essere inteso soltanto come monito acceleratorio rivolto solo al giudice ma anche a tutti i protagonisti del processo, ivi comprese le parti, che, specie nei processi dispositivi e prevedenti una difesa tecnica, devono responsabilmente collaborare delimitando, ove possibile, la materia realmente controversa. Nel caso l’unico punto controverso era la dedotta mancanza di dichiarazione in cui era esposto il credito, contestazione risolta in modo corretto dal giudice di appello come si è già detto. Del resto nel processo tributario, l’obbligo dell’Amministrazione di leale collaborazione è ancora più forte di quello che grava sul convenuto nel rito ordinario, in quanto in base alle disposizioni della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 18 e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6 il responsabile del procedimento deve acquisire d’ufficio quei documenti che, già in possesso dell’Amministrazione, contengano la prova di fatti, stati o qualità rilevanti per la definizione della pratica, obbligo, che in quanto espressione di un più generale principio, va applicato anche in campo processuale. Emerge dunque evidente come il ricorrente in realtà inammissibilmente prospetti una rivalutazione del merito della vicenda, comportante accertamenti di fatto preclusi a questa Corte di legittimità, nonchè la rivalutazione delle emergenze probatorie, laddove solamente al giudice di merito spetta individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Pertanto i motivi vanno rigettati. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del grado di Cassazione liquidate in Euro 6000 per onorari oltre oneri di legge.

Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020

 

 

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