Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 251 del 10/01/2017

Cassazione civile, sez. III, 10/01/2017, (ud. 02/11/2016, dep.10/01/2017),  n. 251

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5925-2014 proposto da:

T.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VICOLO ORBITELLI

31, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO ZENO ZENCOVICH, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO MARIA COMMODO

giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS) in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è difeso per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 197/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/01/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/11/2016 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito l’Avvocato MARCO DI FAZI;

udito l’Avvocato VINCENZO RAGO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

In riforma della decisione di prime cure che aveva condannato il Ministero della Salute a risarcire a T.L. il danno patito da contagio del virus HCV conseguente a trasfusione di sangue in ambito ospedaliero, la Corte d’appello di Roma, con sentenza 14.1.2013 n. 197, ha rigettato la domanda risarcitoria dichiarando estinto per prescrizione il relativo diritto di credito.

La Corte territoriale, accertata la condotta omissiva colposa dell’Amministrazione statale nell’esercizio dei compiti di controllo e vigilanza delle strutture sanitarie in materia di raccolta, preparazione e distribuzione del sangue umano e di emoderivati per uso terapeutico, ed accertato il nesso derivazione causale dell’evento lesivo (contagio HCV) dalla omissione colposa, ha accolto l’appello principale del Ministero rilevando il difetto di elementi probatori che deponessero per la integrazione del reato di epidemia colposa previsto e punito dagli artt. 438 e 452 c.p., piuttosto che per il reato di lesioni colpose, trovando in conseguenza applicazione il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c., comma 3, in relazione all’art. 157 c.p., comma 1, n. 4) e art. 590 c.p. -nel testo vigente al tempo dei fatti -, decorrente dal momento in cui la danneggiata ha avuto piena consapevolezza di tutti gli elementi costituivi dell’illecito aquiliano, individuato al più tardi nella data 28.2.1995 di presentazione alla Commissione Medica Ospedaliera della istanza amministrativa volto ad ottenere la liquidazione dell’indennizzo previsto dalla L. n. 210 del 1992.

La sentenza di appello – non notificata – è stata impugnata per cassazione dalla T. con quattro motivi.

Resiste con controricorso l’Amministrazione statale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si denuncia la violazione di errori nella attività di giudizio, in quanto la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuti insussistenti, alla stregua delle risultanze istruttorie (in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè dell’art. 2697 c.c.), gli elementi costitutivi della fattispecie penale individuata dalla norma incriminatrice di cui all’art. 438 c.p., con conseguente erronea applicazione del termine prescrizionale quinquennale anzichè quindicennale.

Il motivo è infondato.

La questione è stata già affrontata da questa Corte che con le note sentenze rese a SS.UU. (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenze nn. 576 – 585 del 11/01/2008) ha chiaramente escluso la configurabilità del reato di epidemia colposa nei confronti dell’Amministrazione statale – competente ad esercitare l’attività di sorveglianza sulle strutture sanitarie -, rilevando come la condotta omissiva della PA non sia sussumibile nella condotta materiale descritta dalla norma incriminatrice, che ha per oggetto la “diffusione di germi patogeni”, attività questa che sia sotto il profilo commissivo che sotto quello omissivo implica comunque il compimento o il mancato compimento di atti materiali idonei a veicolare (trasfusioni, somministrazioni) ovvero ad impedire (effettuazione dei tests identificativi dei virus) la espansione incontrollata della patologia; ed inoltre rilevando nel contagio da virus HBV, HCV, ed HIV, il difetto di elementi qualificativi della nozione di “epidemia”, quali in particolare il carattere della diffusività incontrollabile e la autonoma contagiosità del virus, indipendentemente cioè dalla necessità di un atto medico, qual è la trasfusione/somministrazione (cfr. Corte cass. SU n. 576/2008 in motivazione: “E’ da escludere anche il reato di epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.), in quanto quest’ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell’eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l’addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. A ciò si aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono: a) la sua diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell’HCV e dell’HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti; b) l’assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie è necessaria l’attività di emotrasfusione con sangue infetto; c) il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poichè altrimenti si verserebbe in endemia)…”).

In relazione a tali argomenti, la ricorrente non svolge alcuna pertinente critica, limitandosi a richiamare un decreto di rinvio a giudizio del GUP del Tribunale di Trento emesso in data 12.7.2002 (il procedimento penale è stato successivamente trasferito per competenza territoriale al Tribunale di Napoli) e la ordinanza del 27.12.2007 emessa dal GIP del Tribunale di Napoli nel procedimento penale RG n. 26671/06, a carico di persone determinate, tra cui un dirigente generale del Ministero della Salute (cfr. ricorso, pag. 11, nota 2), con la quale, peraltro, è stata disposta la modificazione della originaria imputazione e quindi richiesto dal PM il rinvio a giudizio ex art. 416 c.p.p., nonchè ad invocare l’autorevolezza della qualificazione giuridica del fatto in quanto compiuta dal giudice penale, e ad esporre generiche considerazioni in ordine alla applicazione del criterio di specialità in materia di concorso apparente di norme incriminatrici ed in ordine agli elementi distintivi del reato di epidemia colposa da altre fattispecie criminose (lesioni personali ed omicidio colposo).

Osserva il Collegio che gli argomenti indicati non sono dirimenti, tenuto conto che il decreto del GUP di Trento (riprodotto, alle pag. 234-24 ricorso, parzialmente ed in modo non perspicuo: le condotte descritte in sequenza nel capo di imputazione, alle lett. A-F, sono poi seguite dalla duplicazione delle lett. C e D che si riferiscono però a fatti distinti) si limita ad indicare la imputazione del reato di epidemia colposa (dal capo di imputazione non è dato evidenziare le ragioni giuridiche della qualificazione del fatto come reato di epidemia colposa) peraltro soltanto come mera “ipotesi sostenibile in giudizio”, e dunque da sottoporre a verifica nel dibattimento, mentre l’ordinanza del GIP del Tribunale di Napoli, emessa dopo il trasferimento del procedimento per competenza, ha ritenuto di dover derubricare la originaria imputazione ex art. 438 c.p., in quella di omicidio colposo plurimo (cfr. ricorso pag. 17). Del tutto irrilevante è poi l’argomento a sostegno della prospettata qualificazione giuridica del reato di epidemia colposa fondato sull’atto di costituzione di parte civile del Ministero avanti il Tribunale di Trento (parzialmente trascritto nel ricorso), nel quale viene riportata, unicamente ai fini identificativi del procedimento penale iscritto presso quell’Ufficio giudiziario, la originaria imputazione formulata nei confronti degli imputati, senza che ciò possa evidentemente vincolare il Giudice penale o civile alla qualificazione giuridica della fattispecie penale finanche nel caso in cui la stessa fosse stata espressamente condivisa dalla parte civile.

Occorre considerare inoltre che, diversamente da quanto ipotizzato dalla ricorrente, gli argomenti svolti nell’arresto delle SS.UU. del 2008 a fondamento della inconfigurabilità del reato di epidemia colposa, hanno ricevuto integrale conferma anche nelle sentenze emesse successivamente dalle sezioni semplici di questa Corte (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 28464 del 19/12/2013, ad opera dello stesso estensore delle sentenze a SS.UU. nn. 576585).

Ne segue che la pronuncia della Corte d’appello di insussistenza di elementi di prova idonei ad integrare la fattispecie incriminatrice del reato di epidemia colposa va esente da censura.

Con il secondo e terzo motivo la ricorrente impugna la sentenza di appello:

a) per violazione degli artt. 2935, 2938 e/o 2946 c.c., e/o art. 2947 c.c., comma 1, e degli artt. 112 e 167 c.p.c., in relazione al “dies a quo” di decorrenza del termine prescrizionale;

b) per omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: contraddittoria e/o omessa motivazione circa la conoscibilità del nesso di causa e della identità dei responsabili civili e violazione dei principi enunciati da Cass. SU n. 583/2008.

Sostiene la ricorrente di aver acquisito piena conoscenza degli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano produttivo del danno derivato dal contagio del virus HCV soltanto nell’anno 2003, dopo che si era rivolta allo studio legale che attualmente la difende, traendone la conseguenza che il Giudice di appello avrebbe errato a dichiarare prescritto il diritto, individuando il “dies a quo” di decorrenza della prescrizione nella data di presentazione della istanza volta ad ottenere l’indennizzo assistenziale di cui alla L. n. 210 del 1992.

Il motivo è infondato.

Indipendentemente dai profili di inammissibilità delle censura motivazionale per omessa indicazione del fatto storico (principale o secondario) ritualmente verificato nel giudizio di merito ma non considerato dal Giudice di appello, atteso che la sentenza pubblicata in data successiva all’11.9.2012 – può essere impugnata per cassazione esclusivamente in relazione al vizio di motivazione come riformulato dal D.L. n. 83 del 20123, art. 54, comma 3 conv. in L. n. 134 del 2012, e quindi nei ristretti limiti in cui – esclusa la ipotesi, che non ricorre nel caso di specie, di assoluta mancanza di motivazione riconducibili all’elemento di validità del provvedimento giurisdizionale richiesto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall’art. 111 cost., comma 6 – il Giudice di appello abbia del tutto omesso di considerare un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto di discussione e risulti decisivo per pervenire ad un diverso assetto del regolamento di interessi del rapporto controverso (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014), osserva il Collegio che la ricorrente, dopo aver riprodotto ampio stralcio della motivazione della sentenza resa a SS.UU. n. 576/2008, ed aver ribadito i principi di diritto dalla stessa enunciati in materia di prescrizione del diritto (e ripetuti anche nelle altre conformi sentenze n. 581, n. 583 e n. 584/2008), secondo cui “Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche”, ha formulato una serie di congetture ed astratte ipotesi sulla eventuale possibilità che il danneggiato da emotrasfusione o somministrazione di emoderivati infetti venga a conoscenza, soltanto in ritardo rispetto alla determinazione del contagio, della derivazione eziologica del danno dall’atto medico ed ancora della responsabilità civile – per omissione colposa – ascrivibile anche alla Amministrazione statale, non potendo altresì escludersi – in via ipotetica – che il danneggiato possa incorrere in errore, venendo fuorviato dalla corretta individuazione della PA quale legittimata passiva dell’azione risarcitoria a causa della normativa in materia di indennizzo (L. n. 210 del 1992), venendo quindi a concludere che la prescrizione può iniziare a decorrere soltanto da quando il titolare del diritto ha avuto compiuta conoscenza della rilevanza giuridica del fatto, non soltanto sotto l’aspetto della illiceità e del nesso di derivazione causale del danno, ma anche in relazione alla identificazione del soggetto responsabile del danno.

Osserva il Collegio che le sentenze delle SS.UU. del 2008 hanno ritenuto che una idonea conoscenza degli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (“pur nella diversità tra diritto all’indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso”) sia ravvisabile – salvo prova contraria – nella condotta del danneggiato tesa ad ottenere l’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, non occorrendo invece differire il “dies a quo” ex art. 2935 c.c. fino al responso della Commissione medica ospedaliera: “Tenuto conto che l’indennizzo è dovuto solo in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche”. Ed al proposito occorre sottolineare come l’enunciato secondo cui è ragionevole presumere che il termine prescrizionale inizi a decorrere anteriormente alla data del responso della CMO, in quanto già con la presentazione della domanda di indennizzo la parte dimostra di avere avuto conoscenza o comunque di essere in grado di pervenire alla compiuta conoscenza degli elementi costitutivi dell’illecito, è stato espressamente ribadito anche nei casi di azioni risarcitorie ex art. 2043 c.c. proposte esclusivamente nei confronti del Ministero della Salute, come emerge dalle sentenze delle SS.UU. n. 579/2008, in motivaz. paragr. 3.2; n. 580/2008, in motivaz. paragr. 5., n. 583/2008, in motivaz. paragr. 4. e 5., n. 585/2008, in motivaz. paragr. 3.5 e 4..

A tale principio sino sono conformate anche le successive sentenze di questa Corte Sez. 3, Sentenza n. 28464 del 19/12/2013 e Sez. 6 – 3, Sentenza n. 23635 del 18/11/2015.

La Corte d’appello si è attenuta alle indicazioni predette, ritenendo con accertamento in fatto che la presentazione della istanza di indennizzo costituiva elemento idoneo a fornire la prova presuntiva che il soggetto leso avesse contezza della possibilità di agire in via amministrativa e giudiziaria a tutela delle proprie ragioni risarcitorie: è infatti “illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si è comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur nella diversità tra diritto all’indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso” (cfr. Corte cass. n. 583/2008). Ne segue che la diversità della natura giuridica, rispettivamente, della pretesa di natura indennitaria-assistenziale e della pretesa risarcitoria da illecito (di natura contrattuale od extracontrattuale), non incidono in alcun modo sull’accertamento presuntivo in questione, che riguarda non soltanto la conoscenza effettiva ma anche la semplice conoscibilità di tutti gli elementi necessari affinchè la parte possa ritenere di avere fondati motivi per richiedere la prestazione assistenziale ovvero per agire in giudizio, e tale conoscibilità se va oggettivamente parametrata allo sviluppo delle acquisizioni scientifiche al massimo livello al tempo dei fatti, sotto il profilo soggettivo non può prescindere dalla diligente iniziativa ed attivazione del soggetto leso, al quale non può evidentemente essere rimesso l’arbitrio di scegliere il tempo della acquisizione di dette informazioni, non potendo il danneggiato, da un lato, invocare il differimento del “dies a quo” del termine prescrizionale o del termine di decadenza per mancanza di conoscenza delle relative norme di legge (“ignorantia legis non excusat”), dall’altro trincerarsi dietro la omessa acquisizione delle predette informazioni presso medici specialistici e presso studi legali, atteso che la “oggettiva conoscibilità” dei dati informativi si radica nella peculiare situazione di fatto in cui il soggetto viene a trovarsi in un determinato momento, disponendo di elementi cognitivi non ancora esaustivi ma tali da indurre una persona di normale avvedutezza a ricercare gli ulteriori elementi mancanti ed indispensabili a completare il quadro d’insieme onde pervenire ad una compiuta rappresentazione della fattispecie illecita. La situazione di oggettiva conoscibilità costituisce pertanto il limite ultimo della giustificazione della incolpevole ignoranza del soggetto leso. In tal senso va pienamente condiviso il principio espresso dalle SS.UU. di questa Corte secondo cui “Occorre che il giudice proceda ad un’accurata disamina, puntualmente motivata per sottrarsi al sindacato di legittimità, della diligenza che ha contrassegnato l’atteggiamento della vittima a fronte della sua sofferenza, ovvero alla verifica, avuto riguardo alle particolarità della fattispecie, della diligenza impiegata dalla vittima nell’accedere alle informazioni necessarie per risalire dalla malattia esteriorizzatasi alle sue cause, e, infine, al responsabile del danno.” (cfr. Corte cass. SS.UU. n. 583/2008), ossia che il Giudice di merito deve compiere una “rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l’instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti).” (cfr. Corte cass. SS.UU. n. 576/2008).

Nel caso di specie l’affermazione del Giudice di appello secondo cui la presentazione della domanda di indennizzo ex lege n. 210 del 1992, in quanto fondata sul presupposto della derivazione causale della epatopatia dalla trasfusione di sangue infetto, conteneva elementi informativi tali da consentire di presumere la conoscenza, o comunque la oggettiva conoscibilità, anche degli elementi integrativi di una responsabilità ex art. 2043 c.c. del Ministero della Salute, è conforme alle indicazioni degli arresti delle SS.UU. del 2008 e della giurisprudenza successiva di questa Corte in ordine all’onere di diligenza richiesto al soggetto danneggiato, il quale non può invocare una traslazione temporale del “dies a quo” del termine prescrizionale per il solo fatto della omessa acquisizione della compiuta conoscenza circa la qualificazione giuridica della vicenda come fattispecie illecita ex art. 2043 c.c., quando tale omissione è dovuta a mera incuria, negligenza, trascuratezza o disinteresse della parte danneggiata che ha immotivatamente lasciato trascorrere ingiustificatamente oltre otto anni tra la presentazione della istanza di indennizzo (28.2.1995) e la ricerca del responsabile civile, essendosi rivolta la T. soltanto nell’anno 2003 ad uno studio legale per intentare l’azione di condanna nei confronti del Ministero della Salute: la ricorrente infatti non ha peraltro dedotto di avere allegato nel corso del giudizio di merito specifici fatti che le avrebbero impedito di acquisire le ulteriori informazioni necessarie all’esperimento dell’azione giudiziaria, rivolgendosi per tempo ad uno studio legale per ottenere una consulenza in merito.

Il “terzo motivo di appello” (cfr. ricorso pag. 39: evidente risultato della tecnica informatica del “copia ed incolla”) con il quale si censura la sentenza per violazione dell’art. 2943 e 2697 c.c. nonchè degli artt. 112, 115, 116 c.p.c., sostenendo la ricorrente che alla lettera di intimazione, inviata al Ministero in data 25.3.2003, dovrebbe comunque riconoscersi efficacia interruttiva anche nel caso in cui il “dies a quo” del termine prescrizionale dovesse ricondursi alla data 28.2.1995 di presentazione della istanza ex lege n. 210 del 1992, in quanto il reato di epidemia colposa si prescrive nel termine di quindici anni, rimane evidentemente assorbito nel rigetto del primo motivo di ricorso.

Analogamente rimane assorbito il quarto motivo di ricorso concernente la mera riproposizione dei motivi di appello incidentale proposti dalla T. e dichiarati assorbiti dalla Corte territoriale in conseguenza dell’accoglimento dell’appello principale del Ministero in punto di estinzione del diritto risarcitorio per intervenuta prescrizione.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte soccombente va condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

Sussistono i presupposti per l’applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che dispone l’obbligo del versamento per il ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato nel caso in cui la sua impugnazione sia stata integralmente rigettata, essendo iniziato il procedimento in data successiva al 30 gennaio 2013 (cfr. Corte cass. SU 18.2.2014 n. 3774).

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.300,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito;

– dichiara che sussistono i presupposti per il versamento della somma prevista dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2017

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