Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25095 del 09/11/2020

Cassazione civile sez. VI, 09/11/2020, (ud. 08/10/2020, dep. 09/11/2020), n.25095

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15397-2019 proposto da:

IMMOBILIARE QUARTO DEL LAGO SRL, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TRIONFALE 160,

presso lo studio dell’avvocato DINO QUAGLIETTA, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

Contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

Contro

AGENZIA FISCALE DELLE ENTRATE, DIREZIONE PROVINCIALE I DI ROMA –

UFFICIO CONTROLLI AREA LEGALE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 7687/05/2018 della COMMISIONE TRIBUTARIA

REGIONALE del LAZIO, depositata l’08/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’08/10/2020 dal Consigliere Relatore Dott. RAGONESI

VITTORIO.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Commissione tributaria provinciale di Roma, con sentenza n. 24553/16, sez. 23, rigettava i ricorsi riuniti proposti dalla Immobiliare Quarto del lago srl avverso gli avvisi di accertamento (OMISSIS) per Ires. Iva, Irap dal 2006 al 2009.

Avverso detta decisione la contribuente proponeva appello innanzi alla CTR Lazio.

Il giudice di seconde cure, con sentenza 7687/2018, depositata in data 8.11.18, rigettava l’impugnazione confermando l’orientamento espresso dal giudice di primo grado.

Avverso la detta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la contribuente sulla base di quattro motivi e successivamente ha presentato istanza di rimessione in termini.

L’Amministrazione ha resistito con controricorso.

La causa è stata discussa in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente dichiarata l’ammissibilità del ricorso che risulta notificato il giorno successivo la scadenza del termine di 60 giorni.

La stessa società ricorrente con l’istanza di rimessione in termini ha dichiarato che il giorno 8 maggio 2019, ultimo giorno utile, si era verificata l’impossibilità di notifica del ricorso a mezzo pec, per cui la presentazione del ricorso per la notifica era avvenuta solo il giorno 9 maggio 2019.

In particolare, la società ricorrente ha dedotto che dal 7 maggio 2019 il servizio di posta elettronica certificata era stato bloccato dalla Visura spa, società gestore del servizio, per un attacco informatico e che per tutta la giornata dell’8 maggio la predetta società aveva auspicato di ripristinare la casella p.e.c. ma ciò non era stato possibile per cui la notifica era stata effettuata il giorno 9 maggio tramite ufficiale giudiziario.

La dedotta e comprovata circostanza appare integrare gli estremi dell’impedimento assoluto.

Alla fattispecie va pertanto applicato il principio anche di recente affermato da questa Corte secondo cui qualora la notificazione di un atto di impugnazione, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si perfezioni per circostanze non imputabili al richiedente, questi – anche in virtù del principio di economia processuale, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio – ha l’onere di riattivare autonomamente il procedimento notificatorio entro un termine ragionevolmente contenuto, dovendosi di conseguenza dichiarare non luogo a provvedere sulla richiesta dello stesso di rimessione in termini per la rinnovazione della notifica. (Cass. 9286/19, Cass. sez. un. 17352/09).

Può pertanto dichiararsi l’ammissibilità del ricorso, ricorrendo i requisiti di cui sopra con contestuale pronuncia di non luogo a provvedere sulla istanza di rimessione in termini.

Può, dunque procedersi all’esame del ricorso.

Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente deduce che l’Amministrazione, su cui gravava l’onere, non ha fornito prova riguardo la asserita falsa fatturazione.

Con il secondo motivo lamenta la motivazione apparente della sentenza per non avere motivato sulla non rilevanza dei fatti presi a base della decisione.

Con il terzo motivo prospetta la motivazione omessa ed apparente della sentenza relativamente al criterio di distinzione tra costi relativi ed operazioni false od inesistenti e operazioni reali e detraibili.

Con il quarto motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo ai fini del decidere riguardante sulla congruità o meno dei redditi dal 2006 al 2009.

I primi due motivi tra loro connessi possono essere esaminati congiuntamente e gli stessi si rivelano manifestamente infondati.

Questa Corte ha ripetutamente affermato il principio che, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che le operazioni commerciali oggetto di fatturazione non sono mai state poste in essere, indicando gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo, altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, trattandosi di dati e circostanze facilmente falsificabili.(Cass. 428/15; Cass. 29002/17; Cass. 11873/18; Cass. 33915/19).

Nel caso di specie la sentenza impugnata ha dato atto che le fatture per gli asseriti lavori effettuati nei cantieri della società contribuente erano state emesse dalla ditta Bellocchi che non aveva tenuto contabilità, non disponeva di maestranze ed il cui titolare aveva dichiarato di non conoscere il nome degli operai. Ha ulteriormente riferito che i pagamenti non erano documentati in quanto era stato dedotto essere stati fatti in contanti.

Del tutto correttamente e con motivazione adeguata la sentenza impugnata ha ritenuto che tali elementi costituissero un contesto indiziario idoneo a dimostrare la fittizietà delle dedotte operazioni.

Priva di rilevanza è a tale proposito la deduzione della ricorrente, in particolare esposta con il secondo motivo, che tali dati non riguardavano essa contribuente, dal momento che, essendo essa la beneficiaria delle prestazioni di lavoro, l’effettuazione o meno di queste ultime rivestiva certamente rilevanza ai fini dell’accertamento delle violazioni per cui è causa.

Il terzo motivo è inammissibile prima ancora che manifestamente infondato.

La ricorrente contesta in particolare la mancanza di motivazione in riferimento ad un brano dell’avviso di accertamento che affermava che la ditta Bellocchi aveva in realtà effettuato lavori di rifinitura sui cantieri della ricorrente utilizzando i materiali forniti da quest’ultima. Sostiene di conseguenza che la sentenza non aveva fornito motivazione alcuna sul perchè alcune fatture erano state ritenute valide mentre altre erano state considerate fittizie ed i costi di queste ultime erano stati pertanto esclusi dalle dedotte passività di essa ricorrente.

La società ricorrente omette, in violazione del principio di autosufficienza, di riportare nel ricorso i brani dell’atto di appello ove aveva sollevato la predetta questione onde questa Corte non è in condizione di valutare una omessa motivazione in ordine ad essa.

Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che è inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte. (Cass. 17049/15; Cass. 14561/12).

Anche recentemente è stato ribadito che i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso. (da ultimo Cass. 29093/18).

In ogni caso, si osserva, ancorchè superfluamente, che la sentenza, che si è conformata a quanto già deciso in prime cure, ha comunque, anche se implicitamente, esplicato le ragioni della decisione in base ai riferimenti riportati in narrativa circa le dichiarazioni dell’Agenzia, che, nel riconoscere l’esistenza di rapporti tra la contribuente e la ditta Bellocchi, aveva sostenuto che le operazioni ritenute inesistenti erano quelle effettuate con pagamenti in contanti prive quindi di documentazione.

Il quarto motivo è manifestamente infondato.

La sentenza impugnata ha dato atto in narrativa che con il primo motivo la ricorrente aveva dedotto la questione della “congruità degli studi di settore ritenuta erroneamente esistente” ma ha altresì dato atto della replica dell’Ufficio secondo cui il giudice di primo grado non avrebbe basato la propria decisione sugli studi di settore ma le avrebbe unicamente richiamate a conferma del quadro probatorio.

La sentenza impugnata ha dunque tenuto presente il motivo proposto sugli studi di settore, ma lo ha implicitamente rigettato ritenendo che la ratio decidendi dovesse rinvenirsi nella fittizietà delle fatture emesse a fronte di operazioni inesistenti.

Il ricorso va dunque rigettato. Segue alla soccombenza la condanna al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 15.000,00 oltre spese prenotate a debito. Si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2020

 

 

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