Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25075 del 07/11/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 25075 Anno 2013
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA
sul ricorso 20610-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in
ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa
dall’Avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta delega in
2013

atti;
– ricorrente –

2938

contro

MIGLIORE MARIA PATRIZIA, domiciliata in ROMA, PIAZZA
CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

Data pubblicazione: 07/11/2013

CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato

BALSAMO PALMA, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 525/2007 della CORTE D’APPELLO
di CATANIA, depositata il 25/07/2007 R.G.N. 481/2005;

udienza del 17/10/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;
udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega GRANOZZI
GAETANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha conluso per il
rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

R.G. n. 20610/08
Ud. 17.10.13
Poste Italiane S.p.A. c. Migliore

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 25.7.07 la Corte d’appello di Catania, in riforma di
quella del Tribunale della stessa sede emessa il 2.2.05, ritenuta l’illegittimità del
termine apposto al contratto di lavoro intercorso dal 13.1.2000 al 29.2.2000 tra

Maria Patrizia Migliore e Poste Italiane S.p.A., dichiarava l’esistenza fra le parti
d’un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del
contratto e condannava la società a pagare alla lavoratrice le retribuzioni maturate a
decorrere dal 28.3.03, data di comunicazione alla predetta società del tentativo
obbligatorio di conciliazione.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi ad otto
motivi.
Maria Patrizia Migliore resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Il Collegio ha deliberato la redazione della sentenza con motivazione semplificata.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Con il primo motivo del ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione
degli artt. 1372 co. 1°, 1175, 1375 e 2697 c.c. nella parte in cui la Corte territoriale
non ha ravvisato il mutuo consenso a non riattivare il rapporto di lavoro in fatti
incompatibili con la volontà di mantenerlo in vita, come la prolungata inerzia della
lavoratrice — protrattasi per oltre tre anni dalla scadenza del termine — prima di agire
in giudizio.
Il motivo è infondato.
La piú recente giurisprudenza di questa S.C. — cui va data continuità – è ormai
ampiamente consolidata nello statuire che “Nel rapporto di lavoro a tempo
determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto
per mutuo consenso in quanto, affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è
necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la
conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle
parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà
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Ud. 17.10.13
Poste Italiane S.p.A. c. Migliore

delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo
dovendosi, peraltro, considerare che l’azione diretta a far valere la illegittimità del
termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che
individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si

configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme
imperative ex artt. 1418 e 1419, comma 2, cod civ. di natura imprescrittibile pur
essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo
indeterminato risultante dalla conversione “ex lege” del rapporto a tempo
determinato cui era stato apposto illegittimamente il termine. (Nella specie, relativa
ad una pluralità di contratti a tempo determinato conclusi tra un aiuto arredatore e
la RAI S.p.a., la S. C., in applicazione dell’anzidetto principio ha ritenuto che
correttamente la Corte di merito avesse dichiarato la nullità del termine apposto,
restando priva di rilievo la mera inerzia tenuta dal lavoratore per oltre un anno e
mezzo, dalla scadenza del termine dell’ultimo dei cinque contratti intervenuti).”
(Cass. 15.11.2010 n. 23057; conf. Cass. 1°.2.2010 n. 2279).
Ancora più di recente, Cass. n. 9583/2011 ha ribadito che “nel giudizio instaurato

ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative
– una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente
fine ad ogni rapporto lavorativo”.
In senso conforme si vedano, altresì, Cass. 10.11.2008 n. 26935; Cass. 28.9.2007
n. 20390; Cass. 17.12.2004 n. 23554; Cass. 11.12.2001 n. 15621 ed innumerevoli
altre.
Aggiunge, ancora la cit. sentenza n. 9583/2011 che “grava sul datore di lavoro,

che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso l’onere di provare le circostanze
dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre

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definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. ancora, in senso conforme,
Cass. 2.12.2002 n. 17070).
Ebbene, tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all’esame
della S.C., ritenuto giuridicamente corretta (oltre che immune da vizi logici)

l’affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo
la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre anni o più, non fosse
sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la
sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per tacito mutuo consenso.
Aggiunge icasticamente Cass. n. 23501/2010, cit.: “D’altra parte, come è noto,
l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di
lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è
consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità
parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c. c. e art.
1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile,
pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo
indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine
apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e
la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire
elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di
risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in
un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso
psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come
risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93
n. 824). Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di
tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può
contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un
effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in
tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per
vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina
della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo
contingenti e discrezionali apprezzamenti Per tali ragioni appare necessario, per
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la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza
del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia
accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche
di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere

complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa
delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto
lavorativo” (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). È, inoltre,
onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso
allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279
dell’1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007).” (v., altresì, Cass. n.
23499/2010 cit. ed altre ancora).
Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o comunque a
non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la
scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale
(nel caso di specie il ricorso introduttivo del giudizio è stato notificato il 15.3.06),
ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far
desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e
prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo
consenso).
Tali circostanze non possono consistere — secondo consolidata giurisprudenza di
questa S.C. – né nell’accettazione del TFR né nella mancata offerta della
prestazione, trattandosi di “comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto
difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti
dalla illegittima apposizione del termine” (cfr., ex aliis, Cass., n. 15628/2001, in
motivazione).
Lo stesso dicasi della condotta di “chi sia stato costretto ad occuparsi o
comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle
dimissioni” (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo,
Cass., n. 15900/2005, in motivazione).

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2- Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112
e 414 c.p.c., 1421 c.c. e 3 legge n. 230/62 per avere la Corte territoriale esteso
d’ufficio la propria disamina all’accertamento della validità, sotto il profilo
temporale, dell’accordo integrativo del 25.9.97 e della sussistenza delle esigenze

poste a fondamento dell’assunzione.
Il motivo è infondato in virtù del preliminare rilievo che l’allegazione
dell’esistenza di accordi sindacali idonei, ai sensi dell’art. 23 legge n. 56/87, ad
estendere la casistica di cui alla legge n. 230/62 (nel cui arco di vigenza è stato
stipulato il contratto a tempo determinato per cui è causa) integra non già causa
petendi della domanda attrice di nullità della clausola di apposizione del termine
(fondata, appunto, sulla mancanza di ragioni giustificatrici dell’apposizione del
termine), bensì eccezione del convenuto, rispetto alla quale parte attrice non aveva
alcun onere di preventiva presa di posizione nel redigere il ricorso ex art. 414 c.p.c.,
ma solo di successiva controeccezione in corso di causa, rilevabile anche d’ufficio
ex art. 1421 c.c. versandosi in ipotesi di nullità.
E se è vero che il rilievo d’ufficio d’una nullità richiede pur sempre l’allegazione
dei fatti da cui la nullità medesima scaturisce, va però segnalato che nel caso di
specie il fatto consisteva non nella limitata efficacia temporale dell’accordo (che è
una mera conseguenza giuridica delle clausole ivi contenute), bensì nel tenore
letterale del citato accordo 25.9.97, di guisa che, una volta menzionato e prodotto
l’accordo medesimo, ben può il giudice prenderne cognizione nella sua totalità
rilevando d’ufficio la nullità del contratto individuale stipulato in assenza della
copertura temporale prevista dalle parti collettive.
In altre parole, in ogni caso il giudice può rilevare d’ufficio una nullità derivante
da fatti emergenti dai documenti prodotti dalle parti anche ove costoro non li
abbiano invocati a sostegno delle rispettive posizioni (si tratta di fatti che in dottrina
vengono definiti come “avventizi” o come “allegazioni silenti”).

3- Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 23 legge
n. 56/87, dell’art. 8 CCNL 26.11.94 e, in connessione con gli artt. 1362 e ss. c.c.,
degli accordi sindacali 25.9.97, 16.1.98, 27.4.98, 24.5.99 e 18.1.01: a riguardo si
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sostiene che l’impugnata sentenza è erronea per non avere considerato che il potere
dei contraenti collettivi di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in
aggiunta a quelle normativamente già in essere, stabilito dall’art. 23 legge n. 56/87,
può esser esercitato senza limiti di tempo, in quanto non previsti dalla legge e,

quindi, senza circoscrivere il ricorso a tale strumento solo al periodo anteriore al
30.4.98, come invece erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale.
Doglianza sostanzialmente analoga viene fatta valere sotto forma di vizio di
motivazione con il quarto e il quinto motivo, nonché, sotto forma di violazione e
falsa applicazione dell’art. 1 co. 2 lett. c) legge n. 230/62 e degli artt. 1362 e 1363
c.c., con il sesto motivo e, sotto forma di violazione e falsa applicazione degli artt. 3
legge n. 230/62 e 2697 c.c., con il settimo motivo.
Tali motivi — da esaminarsi congiuntamente perché connessi — sono infondati.
È pacifico inter partes che il contratto a termine de quo fu stipulato – ai sensi
dell’art. 8 CCNL del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25.9.97 – in data
successiva al 30.4.98, allorquando era espressamente venuta meno la copertura
autorizzatoria prevista dalla stessa autonomia collettiva.
Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da
questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCNL del 2001 e
al d.lgs. n. 368/2001) – è sufficiente a suffragare l’affermata nullità del termine.
A tale riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588 è stato precisato che
“l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere
di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n.
230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame
congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia
per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della
predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a
quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di
individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o
di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di
fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro

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Ud. 17.10.13
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di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063; cfr.,
altresì, Cass. 20.4.2006 n. 9245; Cass. 7.3.2005 n. 4862; Cass. 26.7.2004 n. 14011).
Ove però — come accaduto nel caso di specie — un limite temporale (quello del
30.4.98) sia stato in concreto previsto dalle parti collettive (anche con accordi

integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della
clausola di apposizione del termine (v., ex aliis, Cass. n. 316/2011; Cass. 23.8.2006
n. 18383; Cass. 14.4.2005 n. 7745; Cass. 14.2.2004 n. 2866).
Si tratta di una clausola negoziale che la giurisprudenza di questa S.C. ha sempre
ritenuto inequivocabile e insuscettibile di diversa interpretazione.
In particolare, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui
ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo
sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre
1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le
parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria,
relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione
aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino
alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle
assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto
normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli
stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art.
1” (cfr., ex aliis, Cass. n. 316/2011, cit.; Cass. 1°.10.2007 n. 20608; Cass. 28.1.2008
n. 28450; Cass. 4.8.2008 n. 21062; Cass. 27.3.2008 n. 7979; Cass. n. 18376/2006).
In base a tale orientamento consolidato non merita, quindi, censura la statuita la
declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, il che assorbe ogni
ulteriore argomentazione a riguardo svolta in ricorso, anche riguardo all’asserita
permanenza, pur dopo il 30.4.98, delle esigenze di ristrutturazione aziendale e
rimodulazione degli assetti occupazionali.

4- Con l’ottavo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.
1206, 1207, 1217, 1219, 2094 e 2099 c.c. perché la Corte di merito non avrebbe
svolto alcuna verifica in ordine all’effettiva messa in mora del datore di lavoro e si
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Ud. 17.10.13
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formula il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se per il principio di
corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento
giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al
pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo

che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la
prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 e segg. cod.
civ.”.
Il motivo è inammissibile perché si risolve nell’enunciazione in astratto delle
regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse
del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v., fra le altre,
Cass. 4.1.2011 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del
relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidala di questa Corte, deve infatti
essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla
fattispecie dedotta in giudizio (cfr., ad es., Cass. S.U. 5.1.07 n. 36), dovendosi
pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto, è
stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la
cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito
medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza
impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v. Cass. S.U. 30.10.2008 n.
26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la
sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo
(cfr. Cass. 7.4.2009 n. 8463).
Né può ignorarsi che, nella specie, anche l’illustrazione del motivo risulta
generica perché non chiarisce per quale ragione non costituirebbe rituale offerta
della prestazione lavorativa (come, invece, ritenuto in sede di merito) quella
evincibile dal ricorso introduttivo di lite.

5- Le considerazioni sopra svolte assorbono la questione, ventilata da Poste
Italiane S.p.A. solo con la memoria ex art. 378 c.p.c., relativa all’eventuale
incidenza, nella vicenda in esame, del sopravvenuto art. 32, commi 5°, 60 e 7°,
legge 4.11.2010 n. 183: per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius
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Poste Italiane S.p.A. c. Migliore

superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del
rapporto controverso è necessario non solo che quest’ultima sia pertinente alle
questioni oggetto di censura (in ragione della natura del controllo di legittimità, il

10547; Cass. 27.2.2004 n. 4070) e che il motivo investa — sia pure indirettamente —
il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, ma che il motivo medesimo sia
ammissibile, ciò che non ricorre nella fattispecie in esame.

6- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza.

P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di
legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 3.500,00 per compensi
professionali, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, in data 17.10.13.

cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso: cfr. Cass. 8.5.2006 n.

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